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Povera Italia
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E-book378 pagine5 ore

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Da Craxi a Renzi. I peggiori anni della nostra vita

C’è un filo rosso che, da Craxi a Renzi, collega le classi dirigenti della prima e della seconda repubblica: la mala-politica.
Sono cambiate le sigle dei partiti ma tutto è come prima, anzi, peggio di prima. Tangentopoli ha ceduto il passo a una nuova epoca di corruzione. Il Parlamento che negli anni Novanta fu ripulito dalle indagini del pool di Milano oggi è popolato da condannati. Le immagini della pioggia di monetine contro Bettino Craxi nel 1993 si accostano ai lanci di cavalletti e statuette contro Silvio Berlusconi, l’uomo del cambiamento che avrebbe dovuto trasformare il Paese, quello del patto firmato con gli italiani in diretta televisiva nel salotto di Bruno Vespa. Poi le promesse sono state disattese, soffocate dal tormentone dei guai giudiziari del premier, fino alla deriva degli ultimi anni con il teatrino della “mignottocrazia”, i sorrisetti ironici di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy e l’epilogo della Seconda Repubblica. Paolo Posteraro, in questa denuncia spietata, intreccia gli scandali di ieri e di oggi, smaschera le vergogne che hanno travolto la nostra nazione e restituisce al lettore la cruda realtà dei fatti: quella che avremmo dovuto ascoltare già da molto tempo.

Tutto quello che avresti voluto sapere sulla politica italiana ma che nessuno ti ha mai raccontato

«Il libro di Posteraro è una radiografia del nostro Paese.»
Il Messaggero

Dagli scandali di Tangentopoli a quelli che hanno fatto crollare la seconda repubblica
Paolo Posteraro
È nato a Roma nel 1982 ed è giornalista pubblicista. Laureato in Giurisprudenza, ha ricoperto diversi incarichi pubblici e ha collaborato con la RAI e la Treccani. Oggi è consulente della trasmissione di La7 L’aria che tira e dell’Adnkronos. Ha scritto per «L’Indipendente» e «Il Riformista». Per la Newton Compton ha pubblicato Rifugiati e Povera Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2014
ISBN9788854168893
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    Anteprima del libro

    Povera Italia - Paolo Posteraro

    1. L’arresto di Mario Chiesa.

    Scoppia Tangentopoli

    La mattina di lunedì 17 febbraio 1992 l’ingegner Mario Chiesa era convinto che stesse per iniziare un giorno come un altro. Una nuova settimana, magari seguita da una vacanza, forse sulla neve, che lo distraesse un po’ prima delle fatiche della campagna elettorale.

    Quella mattina Mario Chiesa non era il solo a sentirsi così tranquillo. Nessuno immaginava che quella data avrebbe segnato una svolta nella vita del Paese. Così, erano tranquilli Bettino Craxi, segretario del PSI, e Arnaldo Forlani, segretario della DC. Anche il segretario del PSDI, Antonio Cariglia, quello del PLI, Renato Altissimo, e quello del PRI, il più noto Giorgio La Malfa, si preparavano a iniziare una nuova settimana di lavoro in vista delle elezioni. E lo stesso valeva per Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, e Giulio Andreotti, ancora una volta (l’ultima) presidente del Consiglio e da un anno senatore a vita. Per tutti il pensiero più importante era l’imminente campagna elettorale. Ma erano dei veterani della politica, abituati a combattere dure battaglie e a conquistare le preferenze sul campo, una per una. Niente di troppo preoccupante, dunque. E poi l’evidente crisi che attraversava il PDS faceva stare tutti un po’ più sereni. La pericolosa avanzata del PCI di Berlinguer si era infranta sulle macerie del Muro di Berlino.

    Invece, quel 17 febbraio avrebbe cambiato per sempre la vita di ciascuno di loro. Molti sarebbero finiti sotto processo e condannati. Quasi tutti avrebbero concluso bruscamente la loro carriera politica. E i loro partiti, protagonisti della vita politica italiana dalla caduta del fascismo, di lì a qualche mese sarebbero improvvisamente e definitivamente scomparsi. Spazzati via dalle inchieste giudiziarie e dall’indignazione popolare.

    Che il 17 febbraio del 1992 sarebbe rimasto nella storia d’Italia, però, non lo immaginavano neppure Antonio Di Pietro e, men che meno, Mario Chiesa, il vero protagonista di quella giornata, il «giovedì nero» della Prima Repubblica.

    Diversamente da quanto avvenne quel lontano giovedì del 1929 a Wall Street, infatti, nel 1992 ci volle un po’ di tempo perché tutti si rendessero conto della gravità della situazione. All’inizio nessuno capì granché. Neanche chi, ancora potente, presto avrebbe visto crollare tutto quello che aveva costruito nel corso di lunghi anni, o chi, al contrario, ancora sconosciuto, avrebbe sperimentato un’insperata fortuna. Nel suo diario, alla data del 17 febbraio, Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano e cognato di Craxi, scrisse che non si sarebbe scatenato alcun effetto domino. Lui si sentiva al sicuro. Sarebbe stato uno dei primi parlamentari inquisiti. Una lungimiranza, quella di Pillitteri, che fa il paio con quella di un altro diario ben più famoso, quello di Luigi XVI, che annotò come priva di eventi di rilievo la data del 14 luglio 1789, giorno della presa della Bastiglia.

    Per Mario Chiesa, in particolare, quel freddo lunedì – la mattina a Milano c’erano poco più di due gradi – doveva essere un giorno come un altro. E dunque un giorno in cui intascare tangenti e far fruttare l’ultimo incarico che il sottobosco politico che frequentava da anni gli aveva procurato: la presidenza del glorioso Pio Albergo Trivulzio, il più grande istituto assistenziale per anziani di Milano. Un ottimo posto, che nel manuale Cencelli delle trattative politiche lombarde era valutato quanto quattro assessorati provinciali. Come i fatti (e le inchieste) avrebbero dimostrato, infatti, il capo del Trivulzio amministrava un patrimonio immenso, un numero sterminato di immobili per un valore stimato in 200 miliardi di lire del tempo, e controllava una poderosa macchina elettorale. A designare Chiesa nel 1986 era stato Carlo Tognoli, sindaco socialista di Milano per circa 10 anni e nel 1992 ministro del Turismo. Nel 1990, poi, Craxi aveva dato il via libera alla riconferma dell’ingegnere in cambio del suo prezioso appoggio alla candidatura del figlio Bobo al Consiglio comunale del capoluogo lombardo. Chiesa, infatti, grazie anche all’influenza che esercitava sugli anziani e sulle loro famiglie, controllava un bel gruzzolo di voti, circa 7000. E anche nel 1990 aveva contribuito al successo elettorale del PSI, che in città era arrivato al 20 per cento.

    Mario Chiesa, rampante e dalla vita familiare movimentata, per il partito era decisamente l’uomo giusto per la presidenza del Trivulzio. Socialista fin da ragazzo, era iscritto alla sezione di Quarto Oggiaro, quartiere nella periferia milanese. Presto aveva dimostrato di essere un brillante amministratore, dotato di una disinvoltura superiore a ogni legittima aspirazione. Tanto nell’intascare tangenti, la sua vera specialità, quanto nello scegliersi i referenti giusti all’interno del partito, per il quale sperava di poter diventare un giorno il sindaco di Milano. Era stato consigliere provinciale, assessore al Comune con Tognoli e, soprattutto, manager di enti pubblici. La prima tangente, come lui stesso avrebbe dichiarato, l’aveva intascata nel 1974, offertagli dall’imprenditore Dante Carobbi, quando era capo dell’Ufficio tecnico dell’ospedale Sacco di Milano. Era lì da due anni, da quando si era rivolto al partito per cambiare lavoro, dopo che l’azienda in cui era impiegato gli aveva comunicato che l’avrebbe trasferito all’estero.

    In tanti anni di gestione di potere e di denaro pubblico, Chiesa aveva acquisito una grande esperienza, mettendo in piedi un sistema perfettamente funzionante. E che riproduceva, in piccolo, quello che avveniva in molti ambiti dell’economia italiana. Tutto era incredibilmente semplice. Le ditte che volevano lavorare dovevano pagare. E l’ingegner «dieci per cento», come veniva chiamato da chi conosceva la sua tariffa sugli appalti, incassava impunemente milioni su milioni. Le imprese, ovviamente, dovevano sostenere alcuni costi aggiuntivi. E chi pagava? In piccola parte gli stessi imprenditori, che erano costretti a rinunciare a una quota dei loro margini di guadagno. Ma a fare le spese di questo sistema corrotto, oltre alle persone oneste non disposte a versare tangenti, erano soprattutto le finanze pubbliche. Sulle quali gravavano la sostanziale mancanza di concorrenza, i preventivi gonfiati e i ritocchi ai compensi operati durante la realizzazione dei lavori. Del resto, se qualcuno guadagna qualcun altro deve pur pagare.

    La giornata del 17 febbraio del 1992 per Chiesa era iniziata particolarmente bene. All’ora di pranzo aveva già intascato 37 milioni di lire, come seconda e ultima tranche di una tangente sull’appalto per la tinteggiatura del Pio Albergo Trivulzio. Il 10 per cento, appunto. Pagato, ironia della sorte, da un emissario di Dante Carobbi. Nel pomeriggio, un nuovo importante appuntamento in agenda. Chi avrebbe detto che sarebbe stato l’ultimo da presidente del Trivulzio? Puntuale, alle 16, si presentava nell’ufficio di Chiesa alla Baggina (è così che i milanesi chiamano il Trivulzio) Luigi Magni, titolare di una piccola impresa di pulizie, la ILPI di Monza. Doveva consegnare 14 milioni, la percentuale dovuta su un appalto da 140 milioni, ma, intenzionalmente, ne aveva con sé solo 7. Voleva fare in modo che l’ingegnere parlasse e si lamentasse, scoprendo le carte. Chiesa, infatti, gestiva ormai quel genere di affari con spregiudicata naturalezza e assoluta arroganza. La sola accortezza che non mancava mai di avere era abbassare la tenda del suo ufficio. Farsi vedere nell’atto di prendere il denaro era un rischio eccessivo. Per il resto, però, nessuna precauzione. Le tangenti erano pagamenti come altri, che aveva tutto il diritto di pretendere e, dunque, di incassare senza fare sconti. Così, quando Magni si presentò con metà della cifra pattuita protestò vivacemente, ma gli rimase appena il tempo di riporre i 70 pezzi da 100 mila in un cassetto, ricevere rassicurazioni circa un prossimo secondo versamento e congedare Magni. Improvvisamente fecero irruzione nella stanza in cui troneggiava la scrivania in noce le forze dell’ordine. Poco dopo, verso le 16,45, arrivarono anche un sostituto della Procura di Milano dal forte accento molisano e dai modi spicci da poliziotto, Antonio Di Pietro, e il capitano dei carabinieri del nucleo operativo, Roberto Zuliani. Proprio a Zuliani, il sabato precedente, il 15 febbraio, si era rivolto Magni, esasperato dalle richieste di Chiesa e consigliato da un comune amico. Peraltro, i primi sospetti sull’onestà dell’ingegnere sembra che risalissero a un anno prima. La moglie divorziata, Laura Sala, si era infatti rivolta al giudice sostenendo che l’ex marito le passava una miseria di alimenti rispetto alle sue vere ricchezze.

    Quando le forze dell’ordine entrarono nella sua stanza, Chiesa, incredulo e sbigottito, non sapeva cosa dire. Cercò di sostenere che quei soldi erano suoi, ma gli inquirenti e l’imprenditore, che si erano incontrati in caserma la mattina alle 10, erano ben organizzati. Tutte le banconote erano state fotocopiate (alcune anche firmate) e Magni aveva con sé un microfono e una telecamera nascosti nel bavero della giacca e nella valigetta. Che nel 2007 sarebbe stata venduta per 5000 euro all’Asta della legalità, organizzata a Senigallia per raccogliere fondi per l’associazione Libera di don Luigi Ciotti. Ad aggiudicarsela, per conto di un gruppo di imprenditori, il sindaco della cittadina marchigiana, Luana Angeloni. Incredibile ma vero, sembra che i carabinieri, nel corso della perquisizione immediatamente iniziata nell’ufficio di Chiesa, non avessero visto il pacco con i 37 milioni intascati la mattina. E che l’ingegnere se lo fosse nascosto prontamente in tasca, o nei pantaloni. Per poi buttarlo nel water. Una scena da film, negata però dal capitano Zuliani (E per Mario Chiesa venne il giorno del Giaguaro, «Corriere della Sera», 14 febbraio 1993).

    Poco prima delle 22, Chiesa, a bordo dell’Alfa 164 blu di servizio che gli spettava come presidente del Trivulzio, ma scortato dai carabinieri, giunse in caserma. Giusto il tempo di rispondere ai cronisti con un laconico «non ho niente da dire», fare le foto del caso e quello che era stato uno degli uomini più potenti della Milano socialista, la «Milano da bere», varcava la soglia di San Vittore. A stretto giro sarebbe stato sospeso e poi espulso dal PSI. Nessuno ancora lo sapeva, ma la bomba che avrebbe travolto il sistema politico e di potere che governava l’Italia da quasi 50 anni era esplosa.

    Chiesa era conosciuto nella Milano che contava, ma era del tutto ignoto al resto del Paese. Così, il giorno dopo, la notizia del suo arresto venne riportata solo a pagina 21, nella cronaca, da «la Repubblica» e addirittura a pagina 40 dal «Corriere della Sera».

    La maggior parte dei lettori dei primi due quotidiani italiani, dunque, probabilmente non avrà letto il pezzo o, al massimo, l’avrà scorso con distrazione. Senza immaginare che nei giorni, nei mesi e negli anni seguenti il nome di Mario Chiesa avrebbe guadagnato i titoli di tutte le prime pagine e che su di lui sarebbero stati scritti fiumi di inchiostro.

    Le elezioni politiche erano imminenti, si sarebbe votato il 5 e il 6 aprile del 1992. E i socialisti, a 5 anni dalla fine del secondo governo Craxi, erano certi che il loro segretario sarebbe tornato a Palazzo Chigi. L’arresto di Chiesa, però, mise subito tutti in agitazione. Nessuno pensava che lo scandalo potesse avere dimensioni nazionali, ma per la politica milanese era pur sempre una bomba. Bobo Craxi, segretario del PSI milanese, sul momento, oltre a proclamare l’estraneità del partito da tutte le vicende contestate a Chiesa, parlò di «campagna elettorale già cominciata» (Arrestato per concussione il presidente del Trivulzio, «la Repubblica», 18 febbraio 1992), suscitando lo sdegno di Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo di Milano. Iniziavano gli scontri tra politica e magistratura.

    Dopo queste prime dichiarazioni sprezzanti, però, nel PSI l’atmosfera era cambiata, a Milano e non solo. Craxi, questa volta Bettino, intervistato dal Tg3 il 3 marzo, parlava di Chiesa come di un «mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito». Era dunque un caso isolato in una organizzazione pulita. L’espressione sarebbe diventata immediatamente famosa, un vero e proprio marchio per l’ex presidente del Trivulzio. Ma, ancora nel 2000, quasi dieci anni più tardi, l’ingegnere si sarebbe definito craxiano, giustificando la dichiarazione dell’allora segretario con l’esigenza di tutelare il partito.

    Mario Chiesa trascorse tutto il periodo della campagna elettorale chiuso nel carcere di San Vittore, l’istituto penitenziale che nei mesi e negli anni successivi avrebbe ospitato molti protagonisti della vita politica ed economica del Paese. E che insieme al bruttissimo Palazzo di Giustizia in stile fascista avrebbe visto avvicendarsi centinaia di giornalisti. Carcere e tribunale di Milano si erano trasformati in sedi di corrispondenza fissa, divenendo luoghi familiari per tutti gli italiani. Non molto tempo dopo l’arresto di Chiesa, a Milano sarebbe scoppiata una vera psicosi da arresto. Politici e imprenditori temevano di essere condotti a San Vittore da un giorno all’altro e di doversi adattare alla dura vita del carcerato, condividendo spazi e intimità con delinquenti comuni e in condizioni igieniche e di comfort certamente non invidiabili. Dopo le prime scarcerazioni, poi, i racconti degli ex reclusi non avevano certo migliorato le cose, anzi. E avevano preso a circolare anche alcuni consigli utili per abituarsi in anticipo alla dura vita dietro le sbarre. Un segno tangibile dell’atmosfera di terrore che stava dilagando. L’Italia di Tangentopoli quasi come la Francia di Robespierre. Certo, non c’era la ghigliottina. Ma gli avvisi di garanzia partivano con grande facilità e per l’opinione pubblica corrispondevano alla più pesante delle condanne. Un peso insopportabile che ha talora portato innocenti e colpevoli al suicidio. Nelle indagini sarebbero state coinvolte complessivamente oltre duemilacinquecento persone, tutte inserite nel maxiprocesso numero 8655/92, «Chiesa più altri». Di questi, poco più di millequattrocento sarebbero stati condannati in via definitiva per corruzione o per finanziamento illecito dei partiti.

    Ma torniamo a Chiesa. In quei giorni, pur nel suo particolare stato, non si poteva certo dire che non facesse campagna elettorale. Questa volta, però, i voti non li portava al PSI, ma ai suoi diretti concorrenti – a cominciare dalla quasi sconosciuta Lega Nord – che beneficiarono del grande danno di immagine causato al Garofano dal suo arresto. Era recluso da 5 settimane, quando il 23 marzo, forse sentendosi abbandonato da tutti (a cominciare dal suo partito), decise di parlare. E di raccontare come funzionava e quanto era diffuso il sistema delle tangenti, che gli addetti ai lavori conoscevano bene e molti italiani immaginavano. Poneva una sola condizione: la segretezza fino al giorno delle elezioni.

    Di Pietro conduceva le indagini e gli interrogatori con l’energia, e la furbizia, che da lì in poi l’avrebbero contraddistinto. Quando le indagini portarono alla scoperta e al sequestro di due conti svizzeri, «Levissima» e «Fiuggi», riconducibili a Chiesa, Di Pietro, fedele al suo stile, fece sapere all’ingegnere che «l’acqua minerale era finita». Per Chiesa e per il PSI iniziavano i problemi veri. E sì perché, come osservò Claudio Martelli, i socialisti avevano Chiesa e non Primo Greganti, il «Compagno G» che di tangenti incassate dal Partito comunista non raccontò mai nulla.

    Intanto, il 22 aprile, tre giorni dopo Pasqua e tre giorni prima dell’annuncio delle discusse dimissioni di Francesco Cossiga da presidente della Repubblica, vennero arrestati otto imprenditori milanesi legati allo scandalo del Trivulzio. Lavoravano per la Baggina e confessarono senza troppe difficoltà di aver pagato tangenti.

    E Mario Chiesa? Condannato a 6 anni in primo grado, in appello si vide ridurre la condanna a 5 anni e mezzo, di cui 2 condonati grazie all’amnistia del 1989. Tra custodia cautelare e buona condotta, al momento della condanna definitiva, dunque, gli restavano da scontare 2 anni e 10 mesi. Li trascorse in affidamento ai servizi sociali, lavorando per una cooperativa di sostegno ai disabili. Dopo un primo periodo di necessario allontanamento, si riavvicinò alla politica attraverso la Compagnia delle Opere. A questo punto, avrebbe potuto legittimamente sperare di essere dimenticato e di poter cominciare una nuova vita con la sua seconda moglie. In fondo, messe a confronto con quelle che sarebbero emerse durante le indagini di quegli anni, le sue vicende possono apparire piuttosto modeste.

    Il suo nome, però, è rimasto impresso nella memoria di tutti gli italiani. A nulla gli è valso essere uno dei tanti, anzi dei tantissimi. Sul dato quantitativo ha avuto la meglio il fattore cronologico. Chiesa è stato il primo e per questo non è facile dimenticarlo. Soprattutto se al centro di nuovi scandali e dopo un nuovo arresto. Nel marzo del 2009, infatti, è stato coinvolto in un’inchiesta di tangenti legate al traffico di rifiuti in Lombardia. Certe buone pratiche non si dimenticano mai. È un po’ come andare in bicicletta.

    2. Duilio Poggiolini. Il re della Sanità

    con i miliardi nel pouf

    Se tutti ricordano Mario Chiesa e la sua aria da bravo ragazzo, quasi nessuno ormai saprebbe attribuire un volto a Duilio Poggiolini e dire perché, per un certo periodo di tempo, è stato famoso. O, per meglio dire, famigerato. I personaggi coinvolti in questo scandalo, infatti, non sono mai divenuti troppo noti. Ma nell’immaginario collettivo ha trovato posto, forse per sempre, un episodio incredibile, legato alla perquisizione in casa della moglie di Poggiolini, potentissimo direttore generale del Servizio farmaceutico nazionale dell’allora Ministero della Sanità. Retto in quegli anni dal liberale Francesco De Lorenzo, anche lui coinvolto in storie di tangenti. Il ritrovamento di dieci miliardi in titoli nella fodera di un pouf, anche se ormai gli arresti e le perquisizioni erano all’ordine del giorno, colpì tutta l’Italia, destando allo stesso tempo ilarità e sdegno.

    Il professor Poggiolini, medico e docente universitario, piduista, è stato forse la più chiara incarnazione del principio secondo cui i politici passano, mentre i burocrati che restano sono i veri gestori (e padroni) del potere della pubblica amministrazione. Di lui i giornali parlarono come del «vero Signore della Sanità italiana», contrapponendolo al ministro De Lorenzo (I trecento miliardi di Poggiolini, «la Repubblica», 1° ottobre 1993). Il «re Mida della Sanità» (come sarebbe stato chiamato mano a mano che venivano a galla i dettagli della sua attività parallela), infatti, era direttore generale da un’eternità, dal lontano 1973. Era sopravvissuto a più di 20 governi ed era stimato anche all’estero, dove aveva ricoperto ruoli di grande prestigio. Al momento dello scandalo, era addirittura presidente della Commissione per i prodotti farmaceutici della CEE. Uomo di poche parole, conduceva una vita molto modesta e più che all’apparenza badava al potere. E gestire il controllo dei 13 mila miliardi di lire della spesa sanitaria per i farmaci garantiti dalla mutua gliene dava abbastanza. Come la possibilità di seguire un farmaco dal momento della presentazione al Ministero all’arrivo sugli scaffali delle farmacie. E stabilirne l’inserimento tra quelli passati dalla mutua.

    Venne arrestato il 20 settembre del 1993, ma non si trattò di manette scattate in flagranza di reato come per Mario Chiesa. Anche se a dirigere l’operazione era sempre Antonio Di Pietro, che per l’occasione riuscì a stabilire un’inusuale forma di collaborazione con la riservatissima Svizzera. Poggiolini, infatti, era latitante da luglio e si era rifugiato in una clinica di Losanna, con una falsa carta di identità intestata a Giovanni Lini. Di Pietro, però, fu capace di scovarlo senza troppa difficoltà. Contestualmente all’arresto arrivarono i primi sequestri di conti correnti miliardari (solo uno aveva un saldo attivo di 15 miliardi), in cui negli anni Poggiolini aveva fatto confluire i soldi delle tangenti intascate grazie a un più che collaudato sistema che ruotava intorno al CIP Farmaci, il Comitato Interministeriale Prezzi.

    Se Mario Chiesa era in rotta con la moglie, Poggiolini e consorte formavano una coppia degna dei più famosi Nicolae ed Elena Ceauşescu. Fino a tre anni prima dell’arresto, il professore era celibe, anche se in molti al Ministero facevano pettegolezzi su un suo possibile matrimonio celebrato in segreto. Poi, quasi di colpo, si seppe che si era sposato e che la fortunata era Pierre Di Maria. Magrolina e anche lei amante di una vita modesta, indossava però sempre abiti firmati, preferibilmente Capucci e, nelle poche occasioni mondane a cui partecipava, portava splendidi gioielli. Poi identificati come il frutto di tangenti. E puntualmente sequestrati. Lady Poggiolini, come l’avrebbero soprannominata le cronache giudiziarie, era una chimica e ufficialmente svolgeva il ruolo di consulente di case farmaceutiche, entrando così in palese conflitto di interessi con le funzioni del marito. Con il quale, oltre alla vita riservata, condivideva una grande passione per le belle case con arredi e suppellettili preziose. Lei abitava in una villa all’EUR, insieme con un figlio malato avuto da un precedente matrimonio con un amico di Poggiolini morto da qualche anno. Lui, invece, viveva tra Trastevere e Monteverde, a due passi dal Ministero della Pubblica istruzione. Le due case, come avrebbero scoperto le forze dell’ordine in seguito alle perquisizioni, erano delle vere e proprie pinacoteche. Ma anche dei forzieri, pieni zeppi di contanti, titoli (nel pouf e non solo), gioielli e perfino lingotti d’oro. Dopo l’arresto, Poggiolini rivelò la combinazione della cassaforte (alta un metro e mezzo) che si trovava in casa della moglie. La signora, forse per sviare i sospetti circa una sua complicità, accolse i carabinieri ostentando tranquillità e dicendosi sicura che lì dentro non avrebbero trovato nulla di interessante. E invece i militari ci trovarono un vero tesoro, valori per circa 200 miliardi di lire. Oro di ogni genere, monete antiche e moderne (tra cui 6000 sterline e diversi pezzi introvabili), 100 lingotti, diamanti sfusi, oggetti vari e perfino biglietti da visita. D’oro, naturalmente. Altri 100 miliardi, poi, vennero fuori dai conti correnti (gli investigatori ne scoprirono una ventina), molti dei quali intestati proprio a Lady Poggiolini.

    Ben prima dello scandalo, Pierre Di Maria era stata oggetto dell’attenzione di un’associazione di consumatori, il CODACONS, che voleva vederci chiaro nel possibile conflitto di interessi tra la professione di lei e il ruolo di lui. E nel 1991 aveva chiesto al ministro quali fossero i rapporti tra la signora e il direttore generale. Dopo la risposta sdegnata di De Lorenzo, il CODACONS era tornato all’attacco, presentando un ricorso al TAR, finito però con un nulla di fatto.

    Oltre a fornire la combinazione della cassaforte di casa della moglie, in un interrogatorio durato diverse ore Poggiolini aveva confessato a Di Pietro che intascava tangenti dal 1974, ma aveva smesso nel 1992. L’esplosione di Tangentopoli lo aveva colpito (si legga spaventato) ed era pronto a collaborare, illustrando metodi sconosciuti e consentendo l’accesso ai conti correnti in cui aveva fatto confluire il denaro. Denaro che non aveva dilapidato, intenzionato – disse – a creare una fondazione per lo studio dei farmaci. Non parlava di tangenti, ma di contributi delle aziende farmaceutiche per le sue consulenze, per la sua attività di promozione dei farmaci italiani. La moglie, invece, perlomeno all’inizio, sostenne di non sapere nulla delle mazzette e sembra che tentasse di giustificare i 30 miliardi depositati sui conti correnti come i risparmi di una vita. Si sa del resto che alcune consulenze rendono bene.

    Una curiosa e triste vicenda quella dei Poggiolini: due anziani, una vita modesta, un tesoro illecitamente accumulato alle spalle dei malati e dalle assurde, quasi farsesche giustificazioni.

    Gli scandali legati al mondo della sanità non sono certo finiti con l’arresto di Poggiolini, anzi. E non potrebbe essere diversamente: intorno al Servizio sanitario nazionale girano somme enormi, forse più che in qualsiasi altro settore. Una caratteristica alla quale chi pensa a intascare tangenti o a organizzare truffe non è certo indifferente. Tuttavia, finora nessuno ha toccato i livelli raggiunti da Poggiolini. Nessuno ha mai nascosto un tesoro di simile entità. E nessuno ha agito illecitamente occupando un posto di prestigio come quello del professore. Se a truffare il Servizio sanitario nazionale è un qualsiasi medico della mutua è un conto. Se si tratta del ministro che intasca una tangente, fa parte del malcostume della politica. Ma se si tratta di un direttore generale del Ministero, peraltro in carica da tempo immemorabile, è una cosa diversa. È un servitore dello Stato, e ai più alti livelli, che tradisce. Nel caso di Poggiolini, è come se lo Stato avesse tradito se stesso, è la negazione dello spirito di servizio che dovrebbe animare i vertici della pubblica amministrazione. Se poi le tangenti portano a un aumento del prezzo dei medicinali, di cui le vittime sono i malati, la vicenda è ancora più grave. E le responsabilità morali sono perfino più pesanti di quelle giuridiche. Ma per sentirne il peso bisognerebbe avere una coscienza.

    Francesco De Lorenzo

    Napoletano, classe 1938, ordinario di biochimica presso l’università Federico II, Francesco De Lorenzo è stato l’ultimo ministro con cui si è trovato a lavorare Poggiolini. Esponente di spicco del Partito liberale, era arrivato alla guida del Ministero della Sanità nel penultimo governo Andreotti (il sesto), in carica dal luglio del 1989. Sarebbe stato riconfermato per altre due volte consecutive, facendo parte, dunque, anche del governo Amato, nato a Tangentopoli già scoppiata. Avrebbe però lasciato l’incarico anzitempo, nel febbraio del 1993, sostituito dal collega di partito Raffaele Costa.

    Coinvolto nelle inchieste di Tangentopoli, «Sua Sanità» nel giugno 2001 sarebbe stato condannato in via definitiva a 5 anni, 4 mesi e 10 giorni di carcere per associazione a delinquere e corruzione. Le tangenti contestate ammontavano a circa 8 miliardi, versate da industriali farmaceutici tra il 1989 e il 1992. Dopo la condanna, l’ex ministro – uno dei pochi a non sottrarsi mai al processo, tanto da aver partecipato a più di mille udienze – si consegnò spontaneamente in carcere a Civitavecchia.

    Meno di un anno dopo, il 24 aprile del 2002, la Corte costituzionale affermò che nel suo caso non erano state rispettate le norme del giusto processo e dunque il procedimento doveva essere annullato. Ma la sentenza era già passata in giudicato e così per De Lorenzo non ci fu nulla da fare.

    De Lorenzo negò sempre di aver rubato o di aver intascato soldi per se stesso o per le sue campagne elettorali. Ammettendo, invece, come molti altri suoi colleghi, il finanziamento illecito per il partito. E restituendo circa 4 miliardi.

    Dopo Tangentopoli abbandonò definitivamente la vita politica, ma non quella universitaria, suscitando molte polemiche. Da allora si dedicò, anche nel volontariato, alla lotta contro i tumori. E il 21 luglio del 2005, dopo 13 anni, ottenne una piccola soddisfazione. Sicuramente emozionato, infatti, varcò di nuovo l’ingresso principale del Ministero in Lungotevere Ripa. Non da ministro, certo. Ma per partecipare a una conferenza con altri rappresentanti di associazioni no profit. Non male, se si pensa che negli anni di Tangentopoli, operando in un settore delicato come la sanità, fu più di altri un’icona del malaffare. Più di altri rappresentò il bersaglio dell’indignazione popolare. E la stampa, ovviamente, gli stava con gli occhi puntati addosso. Così, a Tangentopoli già scoppiata, venne pubblicata una sua foto all’uscita del ristorante romano «I due ladroni». E tutta l’Italia ci rise sopra.

    3. L’Italia in ginocchio

    Quando era esploso lo scandalo Poggiolini, gli italiani ne avevano già sentite tante e si erano abituati agli avvisi di garanzia e agli arresti di personaggi in vista. Nessuno, ormai, credeva nell’onestà di chi gestiva il potere, fosse anche il funzionario di un piccolo comune. Nella seconda metà del 1993, infatti, l’Italia viveva il periodo più buio e difficile della sua storia dal dopoguerra ai nostri giorni. Nel giro di pochi mesi, se non di poche settimane, il Paese si trovò sull’orlo di un pericoloso baratro. E ci rimase per circa due anni. A un passo da un precipizio che ci avrebbe fatto uscire, forse per sempre, dal novero dei Paesi più sviluppati.

    Tre erano gli elementi che avevano concorso, dal 1992, a determinare quella pericolosa situazione: Tangentopoli, le difficoltà economiche, gli attentati di mafia. Realtà molto diverse tra loro e per alcuni aspetti totalmente separate l’una dalle altre. Ma allo stesso tempo concorrenti nell’indebolire lo Stato e nel creare i presupposti per il dilagare della crisi.

    Nel giro di pochi mesi, le inchieste giudiziarie, che procedevano a gran velocità, avevano coinvolto e stavano coinvolgendo una parte consistente della nostra classe politica, travolgendo tutti i partiti di governo e colpendo, sia pure marginalmente, anche il PDS. Il prestigio della politica e delle istituzioni era sceso al livello più basso della storia del Paese e la sfiducia che gli italiani nutrivano nei confronti dei partiti era totale. E non si trattava dei partiti della Seconda Repubblica, scatole vuote senza apparati, fatti di ideologie sciolte e fuse secondo gli umori del leader di turno. I partiti della Prima Repubblica erano organismi forti, radicati sul territorio e nelle coscienze dei propri elettori. Avevano strutture solidissime, nomi e simboli che ne incarnavano la storia e i loro militanti erano fieramente orgogliosi delle proprie origini e della propria appartenenza. Se oggi la massima aspirazione di un politico è andare al governo, allora era crescere nel partito. Era il segretario a dare ordini al suo collega che aveva fatto nominare ministro. E tra gli elettori non esisteva la mobilità a cui ci siamo abituati negli ultimi anni. Chi era comunista, era comunista, chi democristiano, democristiano, chi socialista, socialista. Lo stesso valeva anche per le formazioni minori. Complice la legge elettorale proporzionale, infatti, gli spostamenti di voti erano molto ridotti. Rarissimi erano i crolli verticali e le stratosferiche crescite di un partito da un’elezione a un’altra.

    Lo scoppio di Tangentopoli e l’emersione di una corruzione così diffusa, dunque, avevano profondamente scosso l’Italia. Non c’erano solo rabbia e indignazione. Gli italiani erano smarriti, delusi. Delusi dalla politica e dai politici, si erano creati un

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