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Mudanza
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E-book169 pagine2 ore

Mudanza

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Mudanza è il nome di una chat, creata un po’ per caso da quattro amici per organizzare un viaggio e poi divenuta l’agorà virtuale per un confronto appassionato e rivelatorio sui principali temi dell’esistenza e le problematiche della modernità. Il bisogno vitale del cambiamento diventa il filo conduttore dei ricordi, delle vicende personali e delle riflessioni sulla vita. A ogni lettore prova a suggerire un personalissimo viaggio dentro e verso il vero sé. Un viaggio per imparare a rallentare, ad aprirci al dubbio, a esplorare altre prospettive e punti di vista, a raccontarci e, socraticamente, a conoscerci meglio. Per misurarci con le nostre fragilità e superare i nostri pregiudizi, per riappropriarci delle nostre vite e provare a cambiarle in meglio.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2020
ISBN9788835807162
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    Anteprima del libro

    Mudanza - Antonio Formichella

    rotta.

    La filosofia: eudaimonia, mutamento e divenire

    Innanzitutto, le presentazioni: io, Massimo, Mauro e Antonio siamo quattro colleghi tra i quaranta e i cinquanta anni, con un impiego a tempo indeterminato e una discreta retribuzione. Sostanzialmente dei privilegiati.

    Cionnonostante, durante le pause dal lavoro, mossi da un comune bisogno di senso, avevamo da tempo avviato una serie di interminabili discussioni sul lavoro e sulla vita.

    La ricerca del significato profondo e autentico delle cose ci ha inevitabilmente condotti a ragionare di filosofia: unica alternativa possibile per chi non vuole, o non riesce, a trovare nel trascendente e nella religione, la risposta all’incessante domandare dell’uomo che non riesce ad accontentarsi della pacificata incoscienza dell’esistere degli animali.

    Da sempre, come sostenuto da Nietzsche nelle Considerazioni inattuali, l’uomo invidia e vanamente insegue la condizione di apparente assenza di turbamento degli animali. Il filosofo tedesco, al riguardo, afferma:

    Al confronto con l’animale l’uomo si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello, giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale né tediato né tra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale.²

    Ritrovare il piacere dell’appassionata discussione filosofica, prima in ufficio durante le pause pranzo e poi via smartphone con gli amici della chat di mudanza, avvertendo nuovamente un comune bisogno di un confronto libero da pregiudizi e da ipocrite e perbenistiche reticenze sulle grandi e piccole questioni personali e generali, è stata una piacevole e sorprendente riscoperta di questi ultimi anni. Il mio amore per la filosofia risale ai tempi del liceo e come ogni passione adolescenziale è stata intensa, calda, assoluta. Diversamente dalla fatuità di tanti interessi adolescenziali, però, non è mai finita e, curandola, non ha mai smesso di rinnovarsi.

    Un amore nato sui banchi del liceo, incoraggiato e accompagnato dagli amorevoli insegnamenti di mio padre, dal rigore un po’ austero della professoressa Nardone e dalla complicità a tratti fraterna del professore Conte che hanno saputo stimolare e alimentare il mio interesse per la filosofia.

    Così le mie turbolenze, i miei dubbi e le mie insicurezze di adolescente sono diventate senso di apertura e curiosità verso il mondo e la vita. La filosofia è sempre stata per me un rassicurante porto dove cercare riparo e dove trovare, a volte, una possibile risposta alle domande che confusamente si affollavano nella mia anima in crescita.

    Con la politica è sempre stata la mia preziosa e inseparabile compagna di viaggio per non restare incagliato nei limitati orizzonti di un paesino del Sannio e sentirmi un partecipe cittadino del mondo. Nella filosofia ho trovato la conferma della universalità e della ricorrenza delle questioni che da sempre muovono, appassionano, emozionano, agitano e angosciano l’uomo.

    Con sophia non mi sono mai sentito solo e ha sempre alimentato e consolidato l’amicizia con i miei compagni di liceo e di strada, con i quali ho condiviso l’amore per il confronto libero insieme alla mia giovinezza. La filosofia mi ha dato la calda e preziosissima forza che deriva dalla consapevolezza di essere sempre, qualunque cosa accada, solo una piccola parte di un tutto più vasto e complesso.

    È stato nelle infinite e appassionate discussioni con i miei amici del liceo su alcuni filosofi e sulle loro opere che ho iniziato a definire ciò che poi sono diventato. Litigando sul significato della Repubblica e sui limiti del comunismo platonico ho consolidato la mia coscienza politica, parlando dell’Essenza del Cristianesimo di Feuerbach, della Critica della ragion pura di Kant o di De la causa, principio et uno del panteista Giordano Bruno, ho definito una mia precaria idea della religiosità e del trascendente. Grazie ai paradossi di Zenone ho imparato ad apprezzare la seduttività e l’importanza dell’arte della dialettica e ragionando su apollineo e dionisiaco e sulla Nascita della tragedia di Nietzsche ho iniziato a trovare una possibile risposta alla frattura profonda nel percorso evolutivo dell’umanità e della civiltà occidentale.

    Nel tempo, però, era diventato sempre più difficile condividere questa passione nelle mie relazioni adulte. Ogni tanto qualche discussione per paradossi con Enzo, il mio miglior amico del liceo, che – dopo gli anni universitari vissuti distanti, io a Napoli e lui a Milano – ho rincontrato a Roma, finendo incredibilmente con il lavorare nella stessa società e con il quale, pur vedendoci e frequentandoci saltuariamente, l’affetto, il divertimento e la complicità sono rimasti quelli di sempre. O qualche piacevole confronto con alcuni dei tanti compagni conosciuti negli anni di militanza politica e sindacale, senza però mai più rivivere la gioia e il gusto provati da ragazzo.

    Di recente avevo apprezzato molto l’esperimento editoriale di una serie di dvd filosofici proposti in abbinamento ai principali quotidiani e riviste italiani. Un tentativo di rinnovare e rivitalizzare, attraverso forme di comunicazione moderne, l’interesse per questa nobile e antica disciplina che, però, non ha attenuato la sensazione di una passione diventata nel tempo come un amore per vecchi brani o gruppi musicali che più nessuno conosce e riconosce.

    Con Mauro, Massimo e Antonio, invece, ci siamo ritrovati a ragionare spesso e quasi naturalmente di filosofia, tanto nelle nostre discussioni dal vivo che in quelle via WhatsApp. In particolare abbiamo discusso a lungo della filosofia greca che, dalla riflessione profonda e condivisa sulla vita, voleva desumere le coordinate per un viaggio e un’esistenza serena, piena, lieve e felice. Ne sono stato profondamente sorpreso per le modalità attraverso cui ciò è avvenuto, ma anche molto contento. Poche cose mi irritano e indignano quanto il diffuso e superficiale sentimento di sarcastico disprezzo che avverto spesso intorno alla filosofia. A tutti sarà capitato di ascoltare espressioni come non fare il filosofo o basta fare filosofia. In entrambi i casi è evidente il disvalore attributo a una disciplina che avrebbe la terribile e insopportabile colpa di essere astratta, in un contesto sociale e storico in cui solo ciò che è concreto, o in grado di produrre effetti concreti, ha diritto di esistere.

    Rispetto a tali semplificazioni è importante ricordare che la parola filosofia deriva da due termini greci: philèin (amare) e sophia (sapienza) e – dunque – significa amore per la sapienza. Non amore per la conoscenza – nobilissimo sentimento, forse troppo distante dal clima oggi imperante – ma amore per la sapienza, che è invece quanto di più pratico e concreto possa esistere.

    Anche e soprattutto in questi nostri tempi confusi, in cui la cifra caratteristica sembra essere il bisogno di superficialità in grado di farci apparire giovani, felici e spensierati mentre – in realtà– dietro la maschera del finto ottimismo, ci pervade un diffuso senso di smarrimento e di difficoltà nel dare un senso alle le nostre fragili anime. L’amore per la sapienza per gli antichi greci – inventori della filosofia – era l’unica strada per quella che noi oggi impropriamente chiamiamo felicità e che loro, invece, correttamente indicavano come eudaimonia. La felicità è un concetto assoluto, quasi inumano nella sua irraggiungibilità. La si può assaporare per brevi istanti, momenti precisi di una vita, certamente non può essere una condizione permanente dell’esistenza.

    L’eudaimonia – alla lettera e secondo l’interpretazione socratica essere in compagnia di un buon demone – al di là delle tante diverse sfumature assunte nelle varie scuole filosofiche, indicava per gli antichi greci uno stato di ben–essere che deriva dal sentirsi in armonico accordo con il proprio daimon; e può essere una condizione permanente alla quale aspirare e che possiamo provare a costruire. Il daimon, secondo i filosofi greci, è una sorta di spirito guida. Potremmo definirlo con qualche approssimazione come l’insieme delle nostre vere inclinazioni, passioni, potenzialità, come il vero io, oggi sempre più difficile da decifrare. In tale prospettiva la filosofia può essere intesa e vissuta come uno straordinario viaggio attraverso la riflessione e la ricerca, alla scoperta di noi stessi, del nostro posto nel mondo, di ciò che ci piace, di ciò che ci fa star bene e ci realizza.

    L’uomo sapiente – che impara a conoscere se stesso – può pensare di vivere una buona vita, una vita soddisfacente, tesa a curare, assecondare e realizzare il proprio daimon. Essere sapienti significa imparare a riempire la vita di ciò che ci piace, ci entusiasma, ci fa sentire in armonia con noi stessi e imparare, contestualmente, a svuotarla nella misura massima possibile di ciò che è formalismo, adesione acritica ai modelli e ai valori imperanti, dover essere e sensi di colpa.

    L’eudaimonia degli antichi greci non deve essere confusa con l’edonismo che rimanda alla ricerca del piacere immediato o, detto in termini filosofici, del piacere cinetico come lo intendevano i cirenaici o del piacere catastematico descritto da Epicuro.

    La differenza tra i due concetti filosofici risulta profonda e irriducibile in quanto l’eudaimonia, a differenza dell’edonismo, può essere conseguita solo attraverso la virtù (aretè), quindi non nuocendo agli altri, e secondo misura (kata’ metron), cioè sfruttando appieno le nostre potenzialità, senza però pretendere da noi stessi, dagli altri o dalla vita cose irrealizzabili.

    Con queste premesse è abbastanza chiaro e naturale il motivo della diversa sorte toccata ai due termini: la parola eudaimonia è pressoché scomparsa dal lessico moderno, diventando praticamente sconosciuta al di fuori della ristretta cerchia degli amanti della filosofia greca, mentre il termine edonismo risulta ancora ampiamente e diffusamente utilizzato, oltre che variamente declinato. Amare la filosofia, dunque, significa amare la vita e provare a capirla e, nel capirla, a renderla unica, ricca, originale, entusiasmante, soddisfacente. Nel confuso e complesso mondo contemporaneo c’è un urgente bisogno di riscoprire la pacatezza e la profondità del ragionamento filosofico, anche per misurarsi consapevolmente e criticamente con l’attuale e impetuoso progresso tecnologico.

    La tecnica, come ribadito con forza da Umberto Galimberti, abbatte ogni giorno un ostacolo sul percorso di ciò che è fattibile, realizzabile e immaginabile. Se è vero che ciò lascia spesso noi individui-fruitori disorientati e angosciati di fronte a tanta onnipotenza, però, è forse eccessivamente pessimistica la visione apocalittica sulla tecnica tout court che l’autore, attraverso riflessioni per larghi tratti condivisibili, ne fa discendere in Psiche e Techne.

    Purtroppo però lo studio della filosofia è sempre più marginale, sacrificato sull’altare delle conoscenze tecniche e professionali, utilissime a formare nuovi lavoratori funzionali all’efficienza del sistema economico, ma incapaci di fornire all’essere umano gli strumenti necessari per orientarsi e non andare alla deriva nel caotico e complesso viaggio che è la vita nel XXI secolo.

    Oggi esistono una miriade di programmi pubblici per la prevenzione di tante patologie mediche che abbassano l’aspettativa di vita e la qualità della stessa; ce ne sono per il diabete, per l’arteriosclerosi, per l’obesità.

    Consapevoli dell’unità inscindibile di psiche e corpo, che sono solo due facce della medesima medaglia, dovremmo imparare a prestare maggiore attenzione e ascolto alle nostre anime e pretendere che la filosofia entri a far parte di un grande piano pubblico per la salute e il ben–essere complessivo delle persone.

    Oppure dovremmo iniziare a discuterne nei luoghi di lavoro, almeno il lunedì mattina, o in ogni dove, magari anche su WhatsApp come è capitato a noi. E invece si preferisce riempire tasche e lettini degli psicologi e aggiornare ogni anno il prontuario dei disturbi del comportamento pur di evitare di fermarsi a riflettere filosoficamente sulla sostenibilità dei ritmi e sulle priorità delle nostre vite, vissute spesso sotto il fardello di una perenne sensazione di frenesia e di ansia. Sia chiaro, non ho nulla contro la psicologia e gli psicologi! Al contrario la psicologia mi ha sempre affascinato e interessato e penso che la terapia del profondo sia un indispensabile e insostituibile aiuto per affrontare e sciogliere i nodi depositati nel nostro inconscio. Il fatto è che se i valori oggi imperanti ci inducono a ritenere la tristezza e l’angoscia delle malattie da cui guarire, l’analista diventa quasi inevitabilmente il medico che deve aiutarci ad affrontare la vita quando questa si fa dura, incomprensibile e aspra.

    E la psicologia, con la sua tentazione di presentarsi come scienza nel senso pieno e positivistico del termine, ha in parte favorito il sedimentarsi di questa equivoca interpretazione.

    Ma non è così che funziona, anche perché se alla terapia psicologica chiediamo di risolvere la componente di difficoltà e di complessità del nostro viaggio, di stordirci per attutire il senso di angoscia e al contempo di eccitarci per avere la sensazione di essere più felici, stiamo sognando una sorta di nuova droga che, senza nuocere alla nostra salute e bruciarci la vita, unisca gli effetti della marijuana, dell’eroina e della cocaina in una sola e miracolosa fonte di felicità.

    Non per questi obiettivi è nata la psicologia e se qualche ciarlatano fingesse di dimenticarlo, non basterà di certo qualche seduta a pagamento sul suo lettino per conseguire lo scopo di sentirci più felici. Il problema, evidentemente, non è la psicologia, ma l’uso improprio che oggi se ne tende a fare.

    Non si dovrebbe imparare a comprendere e accettare la complessità e la precarietà dell’esistenza o la presenza del sentimento dell’angoscia andando in analisi a 40 anni, ma a 17 anni sui banchi di scuola studiando Il concetto dell’angoscia

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