Al di là del cielo e del mare
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Info su questo ebook
“Quello che facciamo, le azioni che compiano ci possono costruire… ma anche distruggere, se non stiamo attenti” – Zao.
***Un amore magico e totale, oltre ogni immaginazione!***
Un bibliotecario riservato e anonimo con un cuore speciale, da colibrì, che cela un potere segreto, un passato traumatico e una discendenza da una stirpe di draghi ormai estinta con un destino da custode del mondo. Un detective ruvido e affascinante, che vive solo per il suo lavoro e ama il junk food, rassegnato a una vita di solitudine, ma con un animo fatto di coraggio e dolce caramello. John e Zao non sembrano avere nulla in comune, ma un'indagine per omicidio li farà incontrare; travolti da un vortice di eventi, scopriranno di cosa è capace un cuore di drago quando incontra un cuore umano! Questo romanzo d’amore, ambientato a Vancouver (Canada) nel 2018, vuole sfondare i pregiudizi, celebrando l’amore romantico, puro e incondizionato, tra due uomini, con un pizzico di paranormale, un mazzetto di fantasy, due spicchi di avventura/thriller e humor, una spruzzata di mistero e un goccio di passione.
Consigliato a un pubblico adulto
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Recensioni su Al di là del cielo e del mare
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Anteprima del libro
Al di là del cielo e del mare - Barbara Signorini
633/1941.
INTRODUZIONE
Il romanzo conta 10 capitoli di Antefatto + 215 capitoli di Storia + Epilogo + Capitolo extra.
Sono una ribelle incollata al proprio sogno di parole, che non ha avuto alcuna intenzione di sintetizzare, dividere in più volumi o rendere più appetibile la sua storia solo perché fosse commerciale
. Se siete così coraggiosi da affrontare tanta lettura vi faccio i complimenti!!!
========== - ==========
Questo romanzo, che è presente gratis sul social per scrittori Wattpad
dal 12/10/2019, nasce da un sogno ricorrente della mia giovinezza ed è costruito su di esso. Una fantasia che è cresciuta e si è arricchita con il passare del tempo, tanto che quando ho creato il mio file story
il 1° ottobre 2018 tutto era già presente nella mia mente e le parole si srotolavano davanti ai miei occhi... come una magia.
"Al di là del cielo e del mare" è fatto per lettori voracissimi che amano le storie d'amore vissute a pelle, nel quotidiano, in cui ogni capitolo sia imprevedibile e trascinante. Spero che, nonostante i suoi difetti, inevitabili in un'autopubblicazione, vi tenga compagnia, vi strappi una risata o una lacrima e magari vi faccia sognare un pochino...
Scrivere questo romanzo, che circola da anni nella mia mente e nel mio cuore, è stata una necessità fisica, come mangiare o respirare. Raccontare di questi due meravigliosi personaggi, che conoscevo già perfettamente da anni e avevo tratteggiato nel mio cuore, un onore. Sono certa che qualcun altro avrebbe saputo rendere meglio ogni cosa, ma c'ero solo io... perciò... accontentatevi! ;–)
La trama si evolve molto lentamente e la storia è davvero lunga, ma tutto è collegato esattamente come in un puzzle e questo, al lettore attento, non sfuggirà. Alla fine, ogni cosa avrà senso.
Lo scopo di questa storia è raccontare l’amore in tutte le sue forme, testimoniarlo e celebrarlo. Tutto qui. Spero di riuscire a farvi entrare in questo incanto.
Benvenuti in questa Seconda edizione revisionata, di cui riesco a non vergognarmi troppo. Ho cercato di esplicitare alcuni punti poco chiari ed eliminare i refusi. Spero che non vi deluda. Buona lettura !!!
========== - ==========
P.S. Non sopporto... i finali tristi (o tronchi). Se uno ha investito il suo tempo ed emozioni in qualcosa, perché deluderlo proprio alla fine? A buon intenditor...😉😉😉
DISCLAIMER
Nomi propri di città e di luoghi pubblici, indicati nel romanzo, sono realmente esistenti, quando non diversamente indicato.
Nel presente romanzo non vengono nominati prodotti coperti da copyright, marchi registrati o esercizi commerciali. Nello specifico, sono frutto di finzione narrativa: Pinky War (gioco per console), la Cestho (marca di computer). il Salone delle Esposizioni (luogo della mostra di Sam Notts), lo Skies (dove alloggia Sam Notts), gli alberghi Fair Venice
, Dream on the beach
e Hotel Winter
, il ristorante/bar Blue Meeting
. I film Mafia Sottocasa
, Distruzione Totale
, Fine del mondo parte 2
. L’agenzia Models
. Le opere artistiche descritte al Bergamot Station Art Center sono tutte inventate. Il Laboratorio
, in Nevada, è una struttura immaginaria, così come l’organizzazione privata capeggiata da Jenckins.
Citazioni o commenti compaiono con asterisco (*) e vengono riportati in coda a ciascun capitolo. Sono altresì consultabili in fondo all’opera, nel capitolo "CITAZIONI ROMANZO".
Questo romanzo è un'opera di fantasia destinata all’intrattenimento, qualsiasi riferimento a nomi, persone esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale.
ANTEFATTO
001
Nel corridoio le lampade al neon sfarfallano. La luce artificiale si riflette, gelida, sulle nude pareti che costellano la sezione sotterranea dell'edificio. Il Laboratorio è un enorme cubo piazzato in mezzo al nulla del deserto: tre quarti di uffici con luce naturale, e il resto blindato sotto terra su cinque livelli di sicurezza.
John sa che è notte.
Da quando l’hanno preso, per aumentare il suo senso di smarrimento e renderlo più docile, gli rendono impossibile l’accesso agli orologi. Lui, comunque, ha imparato a orientarsi molto bene: quando non riesce a coglierlo nelle loro menti, trae indizi da comportamenti abituali e brandelli di conversazione; correla i test a cui lo sottopongono durante la settimana e le scadenze dei sedativi, che gli somministrano ogni giorno, con i cambi turno del personale, e sa che adesso sono più o meno le 4:00 di notte.
L’ultimo sorvegliante se n’è andato e il nuovo è venuto a controllare di persona la sua cella, prima di tornare nella stanza adiacente da dove lo controllano attraverso un vetro unidirezionale. Una breve occhiata ed è uscito. In teoria, tale ispezione non sarebbe necessaria, perché John viene drogato abbondantemente la sera, per indurlo in un sonno profondo ed evitare problematiche proprio nelle ore notturne, durante le quali il Laboratorio è più sguarnito. Questo in teoria. Perché John ha imparato a disfarsi della droga senza che loro se ne accorgano: la nebulizza in micromolecole e la elimina dalla pelle attraverso il sudore.
Quella sera ha disposto il cuscino sotto le coperte per ingannare lo svogliato sorvegliante, e riuscire a sgattaiolare fuori alle sue spalle, prima che richiudesse la porta.
Ora cammina rapido per il lungo corridoio. La sua mente lavora febbrile. Ci sono telecamere ovunque, installate alle pareti, e ogni porta è bloccata da verifiche digitali e vocali. Per il momento, non se ne cura. Ringrazia Dio di essere riuscito a disintossicarsi da tutti i farmaci con cui lo imbottiscono, altrimenti non riuscirebbe a fare ciò che sta facendo in questo momento. Ha esteso la sua mente a tutto il corpo e accelerato la vibrazione atomica. In poche parole: si è reso invisibile.
È questo ciò che lo rende speciale. Questo il motivo per cui si ritrova prigioniero nel cubo. Sa manipolare la materia con la mente da quando è nato. Farlo, però, gli costa energia. E il suo corpo è indebolito da anni di prigionia. Se fosse stato per lui, si sarebbe lasciato andare già da tempo, ha lottato finora solo per sua sorella. La sua sorellina di otto anni, reclusa anche lei nel Laboratorio.
Si accosta alla prima porta di blocco, trattiene il respiro, salda bene a sé ogni molecola del suo corpo ed estende ancora di più le distanze atomiche. Attraversa quella superficie blindata come fosse fatta di burro. Soddisfatto, prosegue. Allarga le sue percezioni, cercando di visualizzare con più chiarezza la materia tutt'intorno. Dopo qualche secondo ha davanti agli occhi la mappa dell’intero Laboratorio: otto piani di edificio, di cui cinque sotterranei.
Chiude gli occhi e cerca di concentrarsi: la sua mente diventa uno scanner affilato e preciso, avverte in sé la presenza vitale di ogni dipendente del Laboratorio, si tratta di una cinquantina di persone che lavorano al turno di notte (scienziati, inservienti, impiegati, agenti di sicurezza, analisti). Ne percepisce il respiro, sfiora i loro pensieri, sente le emozioni, ascolta il pulsare dei loro cuori. Tutto questo gli fa male. Colpisce la sua mente come un martello pneumatico. Ma non può mollare. Non se vuole trovare sua sorella.
Anna ha una specifica impronta, un profumo della mente. L’ha sempre avuto, da quando è nata. E lui sa come riconoscerla. Tra tutti quei battiti di cuore, che rimbombano in lui amplificati come bassi in una cassa da concerto, c’è quello di sua sorella, che vibra solitario e unico, quasi inudibile, sovrastato dal rumore di fondo.
Riapre gli occhi. La sua andatura adesso è più sicura. Il passo si affretta, perché sa di non avere tempo. In ogni stanza ci sono telecamere a infrarossi con rilevatori di calore e movimento, non ci vorrà molto prima che qualcuno si accorga del suo sotterfugio. Per fortuna, nessuno ha ritenuto di mettere quei rilevatori anche nei corridoi. Devono avere pensato che non fosse necessario. E questo gli dà respiro.
Prosegue veloce da un livello all’altro, cercando di ignorare il panico che gli stringe lo stomaco, ma non passa molto tempo che, come a rispondere alle sue paure, scatta il primo campanello di allarme.
Il rumore si diffonde nella struttura, assordante e metallico. L’intero edificio sembra rianimarsi e agenti della sicurezza, armati fino ai denti, si riversano nei corridoi come formiche sul miele. John cerca di mantenere la concentrazione e si ostina a passare da un ambiente all’altro come se nuotasse nella melassa. L’ultimo muro che attraversa lo porta in una piccola stanza, dove trova sua sorella. È seduta sul letto, vestita con un pigiamino rosa con alcuni panda disegnati, ha gli occhi chiusi e si sta tappando le orecchie per il frastuono. John si rende visibile e si avvicina cauto per non spaventarla. È da più di un anno che non si vedono. Non ha idea della reazione che avrà, non sa se siano riusciti a mettergliela contro, non sa se sia drogata o malata. La chiama per nome.
Al suono della sua voce, lei si volta e sorprendentemente si illumina. – John, John… – ansima. Cerca di raggiungerlo, di alzarsi in piedi, ma il sorriso si spegne e crolla inerme fra le sue braccia. John la stringe a sé, terrorizzato. Sente un odore particolare nel suo respiro, lo riconosce e capisce che è stata drogata. Trafuga un istante per ragionare e riprendere il controllo delle sue emozioni. È furioso per quello che le hanno fatto, per l’ingiustizia che ha subìto, per la loro vigliaccheria.
Vorrebbe distruggere tutto, vorrebbe fare sprofondare l’intero Laboratorio al centro della Terra e, per un momento, sente che potrebbe farlo, che è in suo potere, che nulla glielo impedirebbe. A costo della vita, s’intende, ma forse ne varrebbe la pena.
Ci mette qualche minuto per ritrovare il nucleo di umanità che c’è dentro di lui, e si rende conto che ha sprecato del tempo prezioso. Una decina di guardie scelte, agenti super addestrati, saettano per il corridoio e irrompono nella stanza, sparando raffiche di proiettili tranquillanti. Ma ogni munizione rimbalza inutilmente contro la barriera mentale che John ha immediatamente eretto davanti a sé.
Due agenti corpulenti vi si scagliano contro con tale violenza che il pavimento sussulta, quando ci rimbalzano e rovinano a terra, tramortiti. John stringe i denti lasciandosi sfuggire un gemito di dolore. È sfinito e capisce che non potrà resistere a lungo.
Serra le braccia attorno ad Anna, e riversa dentro la mente ogni singola cellula del suo corpicino; salda e trattiene tutto. Abbraccia l’edificio, vi si àncora, visualizza poi il territorio desertico attorno alla struttura, fissa un punto nello spazio e comincia a tirare… mentre gli scienziati, che sono appena entrati, e hanno capito cosa sta succedendo, gridano insensatamente perché qualcuno lo fermi. Nel guardare quei volti, folli di avidità e ferocia, il cuore gli fibrilla nel petto. Per un microsecondo i loro due corpi abbracciati coesistono in due punti diversi dello spazio: la cella e il deserto. La tensione diviene terribile. Insostenibile. Non c’è altro che la sua volontà a fare inclinare quell’immane energia verso l’esterno, fuori dall’edificio. Lontano da tutti loro.
La barriera invisibile cede. Una mano si allunga ad artiglio per afferrarlo. Ma annaspa nel vuoto. Ruzzolano entrambi nella terra polverosa. John ansima rauco, raccogliendo il corpo della sorella e cercando di non svenire per il dolore che ha nel petto. Alza gli occhi al cielo notturno e, per un attimo, dimentica tutto.
Ha tredici anni e non vede le stelle da quando ne aveva sette.
002
È così stanco che vorrebbe mettersi a dormire lì, sulla terra sabbiosa, assaporando il profumo del vento notturno e gustando la maestosità del cielo. Ma sa che, se si attarda ancora per qualche istante, le guardie lo prenderanno. Si trova, infatti, a una ventina di metri dal perimetro esterno del cubo. Le luci di sorveglianza attorno alla struttura si stanno accendendo febbrilmente e già vede alcuni agenti montare in macchina per uscire a cercarli.
Anna si sveglia e mormora debolmente qualcosa. – Ti prego, piccola, fidati di me. Ti porterò al sicuro. Saremo al sicuro. – Sono parole vuote, non ci crede del tutto nemmeno lui, ma pronunciarle gli dà la forza necessaria per fare un altro salto. Riaggancia i loro corpi e li proietta in un luogo che ha visto in un programma televisivo, giorni prima. Le luci delle auto lo investono un momento prima che entrambi svaniscano nuovamente nel nulla.
Scivolano a terra ritrovandosi in un campo, un vastissimo campo incolto, ricoperto da alta e fitta sterpaglia. Le ombre lentamente diradano e si inizia a udire il cinguettio di qualche uccello dal boschetto vicino, mentre un debole sole comincia a inondare la campagna di una dolce luce soffusa. Sta albeggiando.
Anna si stropiccia gli occhi. E chiede: – Dove siamo?
– In Kansas.
Hanno attraversato due Stati, Utah e Colorado, in poco meno di un secondo.
– E cosa ci facciamo qui?
John sorride al piglio pratico di Anna. – Non lo so, mi piaceva il panorama!
Scoppiano a ridere ed è come se non si fossero mai separati. Come se niente al mondo potesse mettere in dubbio la forza del loro legame. John cerca di prolungare quella risata il più possibile ma, inevitabilmente, non ci riesce. Quando nota le occhiaie livide sul volto di sua sorella, perde per un attimo la maschera di serenità che si è dipinto in volto fino a quel momento, e lei se ne accorge. I suoi occhi si adombrano e gli si stringe addosso, scoppiando in singhiozzi disperati. Il suo piccolo corpo è scosso da tremiti così violenti che John è preso dal panico. Non riesce a calmarla né a consolarla. Riesce solo a cullarla, tenendola stretta a sé con tutta la poca forza che gli è rimasta.
Dopo un’eternità, il pianto si assottiglia e si placa. – Cosa facciamo adesso? Dove andiamo?
John trae un sospiro e deve nascondere una fitta lancinante al torace, che lo attraversa come una scarica elettrica. Si sente esaurito e svuotato come una batteria scarica. Cosa fare? Dove andare? Non hanno documenti, sono entrambi minorenni e non hanno nessuno al mondo. Nessun amico, nessun parente da cui rifugiarsi. E non possono nemmeno andare alla polizia, perché il Laboratorio fa parte di un agenzia segretata che ha accesso a ogni database, conversazione telefonica e telecamera pubblica. Nel momento in cui mettessero piede in una stazione di Polizia, verrebbero di certo ricatturati. Sono entrambi in pigiama, scalzi, laceri e sfiniti. È una situazione senza speranza. Ma John non può, non ha il diritto di lasciarsi andare. Non di fronte allo sguardo pieno di fiducia che sua sorella gli sta lanciando.
Cerca di pensare lucidamente, di ricordare se ci fosse stato un piano nella sua testa. Ma non trova nulla. In realtà, il piano era di fuggire. Non ha mai veramente pensato al dopo
.
Si guarda intorno e la vastità di quel campo lo impaurisce. Si sente solo. Terribilmente solo. Cerca di mantenere un’espressione neutra di fronte a sua sorella, perché non vuole che capisca quanto sia disperata la loro situazione. Ingoia a forza il nodo che ha in gola. E trae un respiro con la parte alta del torace. Leggermente. Perché sa che, se respirasse più a fondo, urlerebbe di dolore. – Per prima cosa, – dice in tono leggero, – dobbiamo darci una sistemata. Se qualcuno ci vedesse in questo stato, chiamerebbe subito i servizi sociali. E poi dobbiamo mangiare… e dormire.
Anna si guarda intorno. – Ma come facciamo? Non abbiamo un soldo.
John si morde il labbro inferiore ed espira piano, cercando di sorridere. – Se non sbaglio qui vicino c'è una fattoria. Non dovrebbe essere difficile sgattaiolare dentro e prendere quello che ci serve.
Gli occhi di Anna si accendono. – Davvero possiamo? Ma se ci vedono? – John le accarezza la testa scapigliata, facendole l’occhiolino. – Non ci vedranno, perché saremo invisibili.
La fattoria c’è davvero. John e Anna rimangono nascosti per un’ora intera osservando i movimenti dei proprietari. Sono una coppia anziana con tre figli robusti, una donna con una bambina dell’età di Anna e una manciata di cani da guardia, che scorrazzano tutt’intorno. Dei figli, due si allontanano verso i campi, il terzo fa salire i genitori e la donna in un vecchio furgoncino e tutti insieme si dirigono verso nord.
John fa segno ad Anna che è il momento. Sfrutta i suoi poteri per rendere entrambi invisibili e impercettibili perfino ai cani. Quando sono dentro, si dividono i compiti. Mentre sua sorella si rinfresca in bagno, John va in cerca di abiti caldi e di uno zaino. Poi si scambiano i ruoli. Mentre lui va a lavarsi, la piccola saccheggia la dispensa senza alcuna pietà, trova anche alcuni soldi e li intasca rapidamente. John si è fermato a guardarla e odia se stesso per quello che è diventata. Ha otto anni e nessuno scrupolo a rubare in casa d’altri. D’altronde, come potrebbe giudicarla? Lui, che indossa ora i vestiti e le scarpe di uno sconosciuto! – Andiamo, – dice. E lei lo segue di corsa.
Bivaccano sul campo, sentendosi al sicuro. Anna comincia a riprendere vigore, ma è sempre mortalmente pallida. Deve disintossicarsi da anni di prigionia e farmaci indotti. Dormono all’addiaccio, tra gli sterpi, avvolti nelle coperte sottratte alla camera da letto padronale.
003
John quella notte sogna. Nel sogno vede gli agenti lavorare febbrilmente alla loro ricerca. Assiste a una scena di isterismo tra gli scienziati. Nessuno immaginava la portata del suo potere. Uno di loro avanza l’ipotesi che lui sia saltato in un posto che conosceva, che poteva avere visto e di cui aveva una chiara immagine tridimensionale; escludono a priori i luoghi della sua infanzia (sarebbe stato troppo scontato ritornarci) e quelli indicati nelle foto dei libri; passano quindi al setaccio tutti programmi televisivi che ha guardato di recente nella loro televisione a circuito chiuso: sono solo una manciata, perché la tv gli era vietata per la maggior parte del tempo. Setacciano i video che lo riprendono mentre osserva le trasmissioni, analizzano le sue reazioni, la dilatazione delle pupille, cercano di cogliere quale possa essere il luogo che lo attirava. E stringono il campo a una decina di possibilità. Una delle quali è la zona dove si trovano adesso. Intercettano poi la telefonata di una fattoria che ha subìto un furto in casa. Non serve altro per farli partire all’azione.
Si sveglia di soprassalto. E capisce che quel sogno è, in realtà, un avvertimento della sua mente ipersensibile. È ancora notte e Anna dorme fiduciosa al suo fianco. John non sa se è solo una paura infondata, ma sente che devono allontanarsi da lì a tutti i costi. Non ha però il cuore di svegliare sua sorella. Perso tra mille pensieri, la stringe fra le braccia cacciando la testa dentro il bozzolo di coperte che li avvolge, e scivola anche lui in un sonno esausto e profondo.
Viene svegliato bruscamente da alcune voci. Non sa per quanto ha dormito. È pomeriggio inoltrato, a giudicare dall’altezza del sole, ed è freddo perché è pieno inverno e il gelo della notte gli è penetrato nelle ossa. Si sente dolorante come se lo avessero preso a botte. Fa per alzarsi ma si accuccia subito. La vegetazione è così alta che li nasconde, ma ci sono degli uomini nel campo, e sono armati.
John mette una mano sulla bocca di Anna, quando la sveglia, per impedirle di fare rumore. Lei capisce all’istante e si quieta, tesa come una corda di violino. Le voci sono così vicine che John è preso dal panico. Si sporge, e a una cinquantina di metri, a bordo campo sulla strada sterrata, vede un’auto della polizia con i lampeggianti accesi, poi il tipico completo grigio cenere di alcuni agenti del Laboratorio, che si stanno guardano attorno.
Anche Anna si affaccia, appoggiandosi alla sua schiena ma, quando riconosce gli agenti, fa qualcosa di imprevedibile: si mette a urlare. Un suono acutissimo, lacerante e malato. Urla con quanto fiato ha in gola. In quel mare di arbusti e vecchi macchinari agricoli in disuso, che ancora li teneva nascosti, è come un enorme faro puntato su di loro.
John si gira a guardarla stupefatto, avverte distintamente il vociare concitato degli uomini e, con la coda dell’occhio, coglie lo scatto rapido degli agenti in grigio che si precipitano verso di loro, ma la sua attenzione è tutta concentrata su sua sorella, sul suo volto livido e pallido, gli occhi ricolmi di lacrime e la bocca spalancata, da cui esce ora un suono rauco, sfinito, ma costante: un lamento atroce, impotente, che non accenna a fermarsi. È come se dentro di lei si fosse spezzato qualcosa.
– Anna, – sussurra scioccato. All’udire il suo nome, la bambina chiude gli occhi e crolla su di lui come una bambola rotta.
John fa solo in tempo a raccoglierla fra le braccia che vede gli agenti comparire a pochi metri da loro. Non è nelle condizioni di mettersi a correre e trasportare Anna di peso, non è nemmeno in grado di alzarsi sulle sue gambe, fa l’unica cosa possibile: richiama il potere e si prepara per il salto. La velocità con cui scompaiono dal campo è di una tale violenza che, per un istante, la vista gli si oscura completamente.
Riemergono in un vicolo affiancato da alti palazzi. Il rumore del traffico sovrasta ogni cosa, anche il debole lamento di Anna, che ancora non si ferma. Le si avvicina e cerca di placarla. Le accarezza il viso, l’abbraccia, ma lei non reagisce. Ha gli occhi velati, spenti. Le braccia inerti, abbandonate. Completamente catatonica.
Per John è come risvegliarsi in un incubo peggiore del precedente. Si era illuso che la prigionia non l'avesse intaccata, sapeva che i tutori l’avevano trattata con un certo riguardo, considerando la sua età, ma, dalla sua reazione, è evidente che quell’attenzione anaffettiva non è stata sufficiente. Forse, se non avesse visto gli agenti, quell'unico filo che la teneva ancorata alla normalità non si sarebbe spezzato.
È preso dal panico. Non sa cosa fare. Guarda le auto che sfrecciano nel viale in fondo al vicolo e i passanti che si affrettano in ogni direzione, e pensa all’indifferenza di un mondo che lascia che due ragazzi vengano rapiti e torturati senza fare nulla per salvarli. Vorrebbe urlare anche lui adesso, proprio come Anna: sdraiarsi a terra, chiudere gli occhi e aspettare che il camion dei rifiuti li raccolga.
Avverte un improvviso calore al torace, un bruciore che divampa come un incendio molesto e gli arriva alla gola. Ansima e si piega in avanti. Il suo corpo è scosso da un tremito violento. Ha un conato di vomito e sputa un getto di sangue. Gli si annebbia la vista mentre tenta di sostenersi con le mani sull’asfalto sudicio. Sua sorella non ha alcuna reazione, non lo guarda neppure, fissa un punto di fronte a lei, ma almeno ha smesso di lamentarsi.
John si pulisce la bocca e ansima avidamente, come se l’aria che respira non avesse abbastanza ossigeno per i suoi polmoni. Si rende conto di avere sfruttato troppo il suo potere di telecinesi e che hanno entrambi il disperato bisogno di un rifugio, almeno per poche ore.
Sa dove si trovano. Nel panico, poco prima, ha visualizzato l’ospedale in cui era stato ricoverato da piccolo a New York, quando si era rotto una caviglia. Un ricordo emerso di prepotenza: una finestra che si è spalancata solo per un istante sulle nebbie del suo passato per poi richiudersi bruscamente, non lasciando altro che vuote domande. Si alza a fatica e fa sollevare anche Anna. La prende per mano e lei, docilmente, lo segue.
Quando sbucano dal vicolo, la sagoma bianca dell’ospedale campeggia dietro alcuni bassi edifici. Qualche passante si gira a guardarli mentre attraversano la strada. John si tira il cappuccio della felpa sul volto e fa lo stesso con il giacchino di Anna. Sa di rischiare a camminare in pieno centro cittadino, sotto le telecamere pubbliche, ma non ha scelta. Di certo, le loro foto segnaletiche sono già state trasmesse a ogni stazione di Polizia del Paese, ma spera che rimangano impilate sotto le altre centinaia di migliaia di segnalazioni di minori scomparsi, che riempiono gli archivi dei servizi pubblici. Del resto, non ci sono molte soluzioni.
Entrano nell’hall dell’ospedale, superando rapidi il banco delle informazioni, e si dirigono con sicurezza ai reparti. John spera che, vedendoli così spediti, nessuno li fermi.
Sfrutta nuovamente il suo potere, questa volta visualizzando una mappa precisa dell’ospedale. Individua una zona che non è frequentata in quel momento, dove sono dislocati gli sportelli per le prenotazioni delle visite, il rilascio delle cartelle cliniche e gli uffici di assistenza sociale, che ora sono deserti perché aperti solo al mattino. Si siedono in una piccola sala d’attesa per riprendere fiato. Anna lo segue senza dire una parola. John si rialza dopo qualche secondo e l’accompagna in bagno. I locali sono pulitissimi, perché gli inservienti sono appena passati. Guarda l’ora: sono le sette di sera.
Anna sbriga le sue necessità rapidamente, in silenzio. Si lava le mani e sosta nell’atrio, immobile, guardando nel vuoto. Anche John è riuscito nel frattempo a rinfrescarsi; quei pochi istanti di quiete sono vitali per lui.
Esce rapido, riprendendo sua sorella per mano. La conduce in una saletta comune per il personale sanitario, che nel frattempo ha individuato lì vicino, dove c’è un angolo cucina, un bagno con doccia e un vecchio divanetto a due posti. La porta di accesso è ovviamente chiusa a chiave, e John non ha alcun problema a varcarla.
Sistema Anna sul divano, la copre con alcuni asciugamani che ha trovato in un armadietto. Prende anche una giacca, che qualcuno vi ha lasciato appesa, e gliela mette sulle spalle... tremava fino a poco prima, nonostante gli strati di vestiti rubati che indossa. L’abbraccia stretta, cercando di trasmetterle tutto il calore residuo che rimane nel suo corpo. Hanno perso tutto nella fuga: il loro zaino con i viveri e i soldi. John si chiede storditamente come faranno ora. Che ne sarà di loro.
Anna smette di tremare e il suo respiro si fa pesante. Le rimane vicino finché non è sicuro che stia dormendo profondamente. Poi si sfila piano e va in bagno a farsi una doccia calda. Il suo corpo avanza scricchiolando come un orologio rotto, prova dolore ovunque. Persino il contatto dell’acqua sulla pelle gli fa male. Ma si obbliga a lavarsi. E mentre l’acqua e il sapone scivolano via, spera che si portino dietro anche tutta la sporcizia con cui è stata imbrattata la sua vita.
Va al cucinino e scopre una piccola dispensa fornita di cracker e barrette al cioccolato, ci sono bevande alla frutta e perfino della carne in scatola.
Allestisce una piccola cena e sveglia Anna, cercando di farla mangiare. La piccola non si muove e John è costretto a imboccarla, ma perlomeno ingerisce. Dopo il pasto la porta in bagno, l’aiuta sgrovigliare i capelli e lavarsi il viso, quindi la riaccompagna al divano tenendola fra le braccia e cullandola un po'. – Sei al sicuro, adesso. Non permetterò a nessuno di farti del male. – Non sa cosa fare per spezzare il suo silenzio. – Ti prego, Anna, parlami, – sussurra, sentendosi impotente di fronte a quel dolore muto. Lacrime gli sgorgano dagli occhi, acide e amare. Piange senza fare rumore, per Anna, per se stesso, per l’infanzia che è stata rubata a entrambi.
Si addormenta sfinito, respirando il profumo dei suoi capelli.
004
– Ehi, ragazzino, che ci fai qui?!
Il sonno gli viene sottratto bruscamente. La donna che ha di fronte lo sta guardando con piglio stupito e severo. Indossa la divisa da infermiera. Al suo fianco, la forte luce del mattino filtra dalle veneziane della finestra.
John si guarda attorno e non vede Anna. Balza in piedi, ignorando le domande della donna, barcolla, va nel bagno, torna indietro. Si precipita fuori e scruta i corridoi, ma sa già la risposta: Anna è sparita. Qualcuno deve avere sbloccato la serratura, senza però entrare, permettendole di sgattaiolare fuori indisturbata. L’infermiera esce dalla saletta e gli dice qualcosa, ma lui non l’ascolta. Si lancia lungo il corridoio e sparisce dalla sua vista.
Si ferma, nascondendosi in un ripostiglio rimasto aperto; il cuore gli perfora ferocemente il petto. Come ha potuto, si chiede, come ha fatto a non accorgersi che Anna si era allontanata? E per quale motivo adesso non la sente?
Preme i pugni sulla fronte per fare tornare a fuoco la vista. Un gemito rauco fuoriesce dalle sue labbra. Gli tremano le gambe e deve reggersi alla parete per non crollare a terra. – Anna, – le sue labbra si muovono in silenzio, – dove sei?
Si sintonizza sulla pulsazione cardiaca di ogni essere vivente all’interno dell’ospedale. Saranno un migliaio di persone, tra pazienti, visitatori e personale sanitario. E cerca, cerca disperatamente.
Alla fine lo trova, il battito inconfondibile: quel profumo della mente che è così simile al suo. L’aggancio è così definitivo e totale, che non può fare a meno di mettersi a correre come un pazzo per corridoi e saloni, barcollando e urtando chiunque incontri. Quando la raggiunge, il suo cuore perde un battito.
Anna è nell’hall dell’ingresso principale, in piedi, accanto a un uomo e una donna. I due stanno discutendo. La donna indossa un camice bianco da medico e sta dicendo che Anna sembra in stato di shock e che vorrebbe visitarla. L’uomo è un poliziotto e sta rispondendo che prima dovrà portarla alla Centrale per l’identificazione; la tiene per mano e sovrasta su di lei come un grizzly su una margherita. Anna rimane assente. Non piange, non protesta. Non cerca di scappare.
– Anna! – John si ritrova a gridare il suo nome prima ancora di capire cosa voglia fare, l’istinto lo conduce in avanti e si getta su di lei in un abbraccio convulso. Il poliziotto lo respinge indietro: – Chi sei, ragazzino?
– Sono suo fratello! Anna, perché te ne sei andata? Ti ho cercata dappertutto! Mi hai fatto preoccupare. – John non si rende conto di quanto gli stia tremando la voce, se non quando intercetta lo sguardo perplesso che gli lanciano i due adulti. Vede se stesso attraverso i loro occhi e capisce che stanno traendo delle conclusioni sbagliate.
– Tua sorella non sta bene, te ne sei accorto? È catatonica, sembra sotto shock.
John la strappa letteralmente dalle mani del poliziotto e la circonda protettivo fra le braccia. – Soffre di autismo, – replica, dicendo la prima cosa che il suo cervello esaurito riesce a inventare.
– Beh, stava gironzolando senza meta per l’ospedale, l’hanno trovata dietro al banco del bar all’ingresso, che sgranocchiava un pacchetto di patatine trafugato dagli espositori, e me l’hanno portata, – spiega la dottoressa. – Mi occupo di pediatria ma non sono una babysitter, l’assistente sociale oggi è in permesso e quindi ho chiamato la sicurezza. – Sembra giustificarsi di fronte allo sguardo di John.
– Dove sono i vostri genitori? – chiede il poliziotto in modo brusco.
John cerca di riflettere, il suo cervello gira a vuoto per qualche secondo. Sente che sta per svenire e barcolla vistosamente. – I nostri genitori… sono in visita a dei parenti qui in ospedale, – riesce a biascicare. Il poliziotto non se la beve, assottiglia gli occhi e dice: – Bene, allora portami da loro che gli devo parlare.
– Ci hanno detto di aspettarli qui, – esala disperatamente.
– Allora tu dov’eri andato? Perché hai lasciato da sola tua sorella?
John intercetta lo sguardo della dottoressa, che ha capito, deve avere capito che lui è nei guai, nei guai seri, e sta tentando di arrampicarsi sugli specchi. Gli lancia un’occhiata piena di pietà. Forse pensa che sia fuggito di casa, o peggio.
Prima che John risponda, il poliziotto afferra Anna per una spalla e, strattonandola, gliela sfila dalle braccia. – Sai cosa penso? Penso che tu stia dicendo un mucchio di bugie, magari questa bambina non è nemmeno tua sorella, magari sei stato tu a farle del male. Sembra drogato, – fa rivolgendosi alla dottoressa, – nota le pupille dilatate? Adesso andiamo tutti insieme alla Centrale di Polizia e così chiariamo tutto.
John ha solo un fiato in corpo rimasto, uno solo, e lo fa esplodere in un no
, così secco e deciso da fare incrinare la perfetta sicurezza del poliziotto. Allunga una mano e Anna l’afferra di corsa tornando al suo fianco. Non lo guarda, non ha altra reazione, ma gli resta vicina.
John è consapevole che in quel momento si trova circondato da decine di persone, ripreso da telecamere di sorveglianza, e si trova davanti a un poliziotto che potrà identificarlo in futuro, così come descrivere ogni sua azione di quel giorno. Sa anche che, tra pochi secondi, crollerà esanime sul pavimento, lasciando entrambi nelle mani degli agenti del Laboratorio. Di nuovo. Per chissà quanti anni ancora. Forse per sempre. Ed è un’opzione insostenibile. Perciò, con tutta la forza che gli è rimasta, aggancia Anna come un magnete e proietta i loro corpi il più lontano possibile da lì.
Scompaiono nel nulla di fronte allo stupore generale.
005
Riappaiono in una zona boschiva, accanto a una cascata circondata da grandi rocce scure. John si sente cadere e affondare in qualcosa di gelido e soffice. Non riesce a muoversi, non riesce a rialzarsi. C’è neve ovunque intorno a lui. Sarà alta oltre mezzo metro. Chiama Anna e sente uno scalpiccio faticoso, poi vede il suo visetto sbucare dall’alto. Il suo sguardo è sempre velato. Distante. – Anna… – sospira rauco. Cerca di farsi forza sui gomiti, si gira un poco per puntare le gambe e fare leva, ma un tremito convulso lo scuote, tossisce violentemente e vomita sangue. Ricade all’indietro, rantolando stremato. Sente il mondo vorticare impazzito intorno a lui e gli viene di nuovo da vomitare. Ha un singulto e dell’altro sangue gli cola dalle labbra esangui. – Anna… – ormai la sua voce è lieve come un sospiro.
La bambina sussulta e lo guarda negli occhi. Si mette a scavare la neve con le mani, a gesti forti e veloci, scava e sposta mucchietti di neve fresca finché non riesce ad arrivargli a fianco, poi comincia a sollevargli la testa, punta i piedini a terra e spinge da dietro, sulla schiena, per farlo raddrizzare. John ondeggia a vuoto per qualche istante, quindi riesce a trovare la forza di muoversi da solo. Si rialza con enorme fatica, appoggiandosi al corpo della sorella, che lo sorregge con tutta la forza che può avere una bambina di otto anni.
John non vede chiaramente, ha la vista annebbiata. Mappa la zona con la mente, percepisce un sentiero di alcuni chilometri e una zona residenziale più lontano.
Sta nevicando ed è primo pomeriggio. Devono raggiungere il centro abitato prima di sera, altrimenti, stanchi come sono, moriranno congelati. Appoggia una mano sulla spalla di sua sorella, mentre con l’altra le aggiusta il giacchetto. Si spoglia del suo e, nonostante sia bagnato fradicio, glielo avvolge alle spalle. – Meglio di niente, – mormora.
Anna non risponde, ma piega la bocca in un sorriso che gli riscalda il cuore. Proseguono incespicando, reggendosi l’uno all’altra, e riescono ad arrivare prima che sia notte. Quella sera trovano riparo nel garage di una villetta con giardino. John rovina nel sonno come fosse morto. Ma si risveglia abbastanza riposato per riprendere il cammino.
Nei giorni successivi passano da una casa all’altra, saccheggiando all’occorrenza viveri, soldi e vestiario. Evitano le strade troppo frequentate e i posti pubblici come bar, negozi e dormitori. John ha perso il conto di quanti chilometri abbiano fatto a piedi da quando sono scappati. Ormai avanza come un automa: un passo davanti all’altro.
La vista gli è peggiorata e ora si affida ad Anna per diverse cose. Sua sorella non ha ancora ripreso a parlare, ma è decisamente più reattiva. Capisce e lo aiuta quando ce n’è bisogno. Si chiede storditamente come abbiano fatto a sopravvivere a quell'ultimo salto, perché a guidarlo non è stato altro che il fotogramma confuso di un sogno fatto la sera prima: una bambina che lascia la sua mano per correre verso un uomo voltato di spalle, affiancato da una cascata. Una bambina che somiglia a sua sorella. Un uomo che non conosce. Una cascata che scopre esistere davvero e trovarsi in Canada, dove lui non è mai stato... Spera di non avere condannato entrambi a causa del suo istinto.
Se non altro è certo che quello sia l’ultimo luogo dove gli agenti del Laboratorio potrebbero cercarli.
La neve continua a cadere da giorni, e da giorni continuano a camminare, attraversando una cittadina dopo l’altra. È il periodo natalizio e ogni casa è addobbata da qualche lucina o festone. Anna comincia a starnutire. Le cola il naso, si è presa un brutto raffreddore. È così magra che i pantaloni le sono diventati larghi e deve tirarli su in continuazione.
John la prende in braccio e la trasporta per un paio di chilometri, vuole raggiungere una farmacia, aspettare il turno di chiusura e prendere le medicine, magari bivaccandoci per la notte. Ma il suo piano svanisce come una bolla di sapone, perché all’improvviso gli cedono le gambe ed entrambi ruzzolano goffamente a terra. Si porta una mano al torace e vomita sangue. Cade di fianco, incapace di spostarsi anche di un solo millimetro.
Anna gli si fa vicina, lo scuote, aggrappandosi al suo giaccone. Per la prima volta da giorni, lo chiama per nome. Appare turbata, perché John non reagisce subito. È confuso, stordito. Per alcuni minuti non capisce dove si trova. Si rialza, come sempre, per lei. Per non abbandonarla, per darle speranza. Ma si sente come un pupazzo di stracci: non c’è più niente di solido dentro di lui. Lancia uno sguardo a sua sorella e nota che sta fissando, assorta, una villetta illuminata da tante piccole lucine natalizie. Dalle finestre si intravvedono persone all’interno che ridono e cantano. E ne sembra attratta.
John decide di rischiare. Non ce la fa più e, se userà un’altra volta il suo potere, crede che morirà. Prende Anna per mano e la conduce sulla soglia. Bussa alla porta; colpisce più volte perché il frastuono all’interno sovrasta il suono del suo bussare.
Quando la porta si apre, un fiotto di luce e calore lo stordiscono per un istante. C’è un uomo sulla soglia. È alto e atletico, sulla trentina. Abbraccia John e Anna con un’unica occhiata. Ha un’espressione aperta, gioviale e rilassata, come di una persona pronta al sorriso. – Sì?
John non parla da giorni e ha il torace in fiamme. Cerca di dire qualcosa, ma deve schiarirsi la voce per riuscire a tirare fuori un suono. Stranamente l’uomo non l’incalza, attende con pazienza che lui parli. – Siamo… siamo rimasti fuori, io e mia sorella, un imprevisto… non sappiamo dove andare.
– È uno scherzo? – John nota che l’uomo aumenta la presa sulla porta e sembra abbia voglia di chiuderla. Qualcuno lo chiama dal salotto. – Robert, allora vieni? Ci sono da aprire i regali!
John solleva entrambe le mani tremando, non sa cosa dire, non ha nemmeno una storia pronta per giustificare la loro presenza a quell’ora tarda, e non si sente in grado di inventarne una sul momento. Ha paura, una terribile paura che quella porta si chiuda, perché non ha davvero più nessuna forza dentro di sé, né fisica né morale, per trascinare se stesso e sua sorella da qualche altra parte, per proteggerla e garantirle un posto caldo dove stare per la notte. Se quella porta si chiude, Anna morirà, e lui non lo può permettere. – No, la prego… almeno mia sorella… credo abbia l’influenza, se può accoglierla, solo per questa notte. Io resterò fuori, non le darò fastidio.
Spinge delicatamente Anna in avanti, consapevole che, così facendo, si condanna a morte da solo perché, non appena l’uomo l’accoglierà in casa, lui crollerà a terra sulla neve. – Anna, questo signore ti farà dormire al caldo. Non preoccuparti.
Fa per andarsene, ma l’uomo lo blocca: – Un momento!
John si gira a guardarlo. L’uomo lo fissa a lungo e con cipiglio. I suoi occhi sono come carbonelle: neri ma caldi. Sbatte gli occhi un momento, pensando che possa trattarsi dell'uomo voltato di spalle del suo sogno, ma la sensazione che proviene da lui non è affatto la stessa.
– Come ti chiami?
– John.
– Solo John?
– Sì.
– Va bene. E tua sorella si chiama Anna, giusto? – Si rivolge a lei, ma la piccola evita il suo sguardo e si stringe al fratello, invece.
– Ha la febbre?
John scuote la testa, non lo sa.
– Quanti anni hai?
– Tredici… credo.
L’uomo lascia la porta aperta e fa un passo verso di loro, si china e cautamente, con una delicatezza quasi inumana, sfiora la fronte di Anna, – Uhm, sembra abbia solo un po' di alterazione. Venite dentro, che qui si gela! – Ripete poi lo stesso invito, notando la loro esitazione.
Quando John varca la soglia viene avvolto da un’ondata di calore così intenso da fargli girare la testa. Rimane nell’atrio paralizzato, come un leprotto abbagliato dai fari di un’auto. Perché quella casa, se era bella all’esterno, dentro sembra davvero essere uscita da una fiaba. Sulla sinistra scorge una cucina, mentre a destra l’ingresso si apre in un grande salotto arredato in toni caldi: le pareti a pannelli di legno, il pavimento rustico, gli addobbi natalizi, il caminetto acceso. Ci sono poltrone e cuscini ovunque.
L’uomo di nome Robert intercetta il suo stupore e lo spinge dolcemente in avanti. Lo stereo è acceso e diffonde vecchie strenne natalizie, il televisore manda avanti un video con le parole delle canzoni. Cinque persone, con in mano microfoni da karaoke, si girano verso di loro incuriosite e forse leggermente seccate da quell’interruzione. Cala un silenzio sorpreso.
John si rende conto che stanno sgocciolando sul pavimento, bagnati e sporchi come cagnolini randagi. E che la loro presenza risuona in quell’ambiente come una nota stonata.
Una dei presenti, una donna dall’aria sicura, dice in tono diffidente: – Bob, chi sono questi ragazzi?
L’uomo esibisce un largo sorriso, mentre circonda le spalle di John con un braccio. – Ah, non ve l’avevo detto? Me ne sono scordato. Sono i figli di un mio lontano cugino. Dovevano arrivare in questi giorni, ma non sapevo la data precisa. Hanno perso la coincidenza dell’autobus e si sono dovuti arrangiare a venire a piedi.
La donna stringe gli occhi. – Dove sono i loro bagagli, Bob? Ti aiuto a portarli dentro.
– Non serve, li hanno lasciati alla stazione, andrò a recuperarli domani mattina. Sono stanchi morti, li porto a dormire e torno da voi, intanto continuate. Divertitevi.
Mentre gli ospiti riprendono a cantare, l’uomo accompagna John e Anna al piano di sopra, dove un lungo corridoio si apre su diverse stanze. Li fa entrare nella prima camera a destra.
Quando accende la luce, John sente subito un forte odore di chiuso. Ci sono un paio di cassettoni a sinistra e, di fronte a essi, un letto matrimoniale; sul fondo, una grande finestra con i battenti chiusi e sulla destra una porta che conduce a un bagnetto privato.
– Mi dispiace per la sistemazione, questa dovrebbe essere la stanza degli ospiti ma, come ben capite, non ne ho molti di solito. – Si dirige verso i termosifoni e gira le manopole per accenderli, poi apre i cassettoni e tira fuori lenzuola e coperte pulite. Prende anche alcuni asciugamani e appoggia tutto sul copriletto a fiori gialli. – La stanza si riscalderà subito, non temete. Nel frattempo mettetevi comodi, usate tranquillamente il bagno. Torno fra poco.
Non aspetta la loro risposta. Non chiede nulla. John è stordito, non sa come prendere questa accoglienza. Non sa se quell’uomo sia andato a telefonare alla polizia per denunciarli. Ma ormai non ha più la forza di reagire. Va in bagno, dà una rinfrescata ai sanitari e riempie di acqua calda la vasca, poi invita Anna a entrare, indicandole dove sia il sapone. Socchiude la porta tornando nella camera e si appresta a fare il letto.
L’uomo torna con le braccia ricolme di vestiario e lo appoggia sui cassettoni. Allo sguardo di John risponde: – Siete bagnati fradici, finché non si asciugano i vostri vestiti vi presto i miei, non è molto, ma qualcosa dovrebbe andarvi bene, certo la bambina dovrà adattarsi.
– Grazie, – dice in un sussurro.
L’uomo lo fissa di nuovo. Sembra stia per dire qualcosa, ma si trattiene. La sua bocca si apre in un sorriso: – Vi porto qualcosa da mangiare, poi vi lascio in pace.
Anna termina di fare il bagno, John le fa indossare una canottiera da uomo a maniche lunghe e un maglione che le fa da vestito. La stende a letto e le infila due calzettoni che le arrivano alle ginocchia. La copre e le accarezza la fronte. Ha le guance arrossate e un debole sorriso le incornicia il volto di porcellana. John si china ad appoggiarle un bacio sulla fronte.
L’uomo arriva in quel momento, regge un vassoio con una brocca di latte caldo e due piatti con pane fatto in casa, pasticcio di carne, formaggio e verdure alla griglia. C’è anche una scatoletta colorata, che porge a John. – Questo è un leggero antipiretico, – spiega, – dalle mezza pastiglia, dovrebbe bastare per un’infreddatura. A stomaco pieno, mi raccomando. Adesso torno giù dai miei amici, – dice, – ma se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, non farti problemi a chiedere. – Fa per andarsene ed esita un attimo, poi aggiunge: – Se ti senti più sicuro, chiudi pure a chiave la porta, non mi offendo. In fondo, ti trovi a casa di uno sconosciuto.
John lo fissa con occhi a palla, è come se parlasse in un’altra lingua. Non sa cosa rispondere. Non sa come comportarsi di fronte a tanta ospitalità. L’uomo non attende una sua reazione e, senza dire altro, si chiude la porta alle spalle. John lo sente scendere le scale e unirsi ai suoi amici nei festeggiamenti natalizi.
Fa mangiare qualcosa ad Anna, che riesce a terminare tutto il pasticcio di carne nel suo piatto e a bersi un intero bicchierone di latte. La copre con le coperte e rimane con lei fino a quando non si addormenta. Poi va in bagno, si immerge nell’acqua ormai tiepida e si lava con calma. Decide di usufruire del vestiario anche lui: indossa un paio di pantaloni da tuta e una grossa felpa a collo alto, che deve rimboccare più volte per aggiustarla sul suo corpo magro.
Non ha fame, anche se sono diversi giorni che non tocca cibo. Beve solo un bicchiere di latte a lente sorsate, gustandolo come se non ne avesse mai sentito il sapore.
Il tepore del riscaldamento, le voci festose al piano di sotto, il respiro rilassato di Anna gli regalano un istante di meravigliosa serenità. È una sensazione che non ricorda di avere mai provato. E, anche se effimera, cerca di trattenerla.
Si siede sul letto cercando di ricordare se abbia scaricato l’acqua della vasca, non vuole lasciare disordine. Sta per alzarsi, ma d’un tratto la testa gli si fa insopportabilmente pesante.
Si sente cadere di lato e sprofondare su quelle soffici coperte, che sanno di tepore e naftalina.
006
Si risveglia alla luce del giorno, che filtra prepotente dai battenti della finestra. Non trova Anna al suo fianco, ma la percepisce al piano di sotto e si rassicura subito. Un’altra cosa che lo tranquillizza è che non c’è alcuna auto della polizia nei dintorni. L’uomo non li ha traditi.
Controlla i suoi vestiti e, trovandoli asciutti, li indossa; ripiega gli indumenti prestati, pulisce il bagno e rifà il letto. Poi scende dabbasso.
Trova Anna intenta a divorare manciate di frittelle allo sciroppo d’acero. La cucina è invasa dal profumo di dolci e dalla luce che i mobili in legno bianco riflettono e accentuano ancora di più. Le pareti sono incorniciate da grandi finestre su due lati. C’è un’isola al centro, circondata da alcuni sgabelli. L’uomo sta lavando i piatti al lavello, Anna è seduta al suo fianco, dando le spalle alla finestra. La luce del sole le avvolge i capelli neri come una carezza.
– Ti sei svegliato.
– Ho dormito troppo?
– Solo dodici ore, – risponde l’uomo sorridendo. – Ti unisci a noi, fai colazione?
Ora che John riesce a osservarlo meglio, nota che ha le spalle larghe e gli occhi grandi e tondi, si muove in cucina come un gigante buono e un po' impacciato. Va verso sua sorella, che è tutta intenta a impregnare di sciroppo ogni centimetro quadro dei suoi pantaloni. Le accarezza i capelli, chinandosi a darle un bacio sulla testa. Le sfiora la fronte, sentendo che è fresca come una rosa. La piccola non dice nulla, ma appoggia brevemente una tempia sul suo maglione, per poi tornare alle frittelle di cui si riempie la bocca.
L’uomo osserva la scena senza commentare. Porge a John una tazza di latte caldo, dove ha spruzzato della cioccolata.
John prende la tazza e l’appoggia sul tavolo. – La ringrazio per quanto ha fatto per noi, ma adesso dobbiamo andare. Anna, finisci di mangiare e poi cambiati. I tuoi vestiti sono già asciutti in camera.
Lei si affretta a inghiottire e prende un’altra frittella. L’uomo fissa John per un lungo istante. – Chiamami Rob, figliolo. Naturalmente ve ne potete andare quando volete, ma che ne dici se lasciamo Anna riposare ancora un poco? Ho delle vecchie videocassette di cartoni animati di là in salotto. Intanto, magari, possiamo scambiare due parole tra uomini, ti va?
Il suo tono di voce è calmo, sereno. Nel parlare ha continuato a rassettare la cucina come niente fosse.
Al silenzio di John, solleva lo sguardo e spalanca le labbra in un sorriso caldo e sincero. – Davvero, ve ne potete andare anche subito, se volete, ma francamente mi dispiacerebbe tanto: amo un po' di compagnia in casa. E poi ho tanta roba da mangiare avanzata dalla festa di ieri. Potreste fermarvi per pranzo.
John guarda Anna pensieroso. – Ti va di vedere i cartoni? – Per tutta risposta la piccola scende dalla sedia e si dirige in salotto a cercare le videocassette. Robert la raggiunge e ne inserisce una nel lettore. Quando torna, esorta John a sedersi, visto che è ancora in piedi; agguanta una tazza di caffè lungo e si accomoda all’isola davanti a lui, di spalle alla finestra.
John immagina che adesso cominci ad assalirlo con le domande, lecite, di un padrone di casa che accoglie di sera due minori fuggiaschi, invece comincia a parlare di sé, rigirando la tazza tra le dita e sorseggiando con calma il suo caffè. Gli racconta di essere rimasto vedovo da poco: – Mia moglie e io avevamo comprato questa casa pensando a tutti i figli che avremmo avuto. Sai, volevamo una famiglia grande e rumorosa, con cani, gatti, criceti e coniglietti a scorrazzare per casa...
John non può fare a meno di sorridere.
L’uomo sospira. – Ma purtroppo la mia lei
ha deciso di farsi portare via da un tumore. È stato così rapido… e adesso mi ritrovo a vivere in questa enorme villa, dove le stanze accumulano polvere a palate. Perciò mi fa piacere fare colazione insieme. Con il mio lavoro non ho molto tempo per fare conversazione.
– Che lavoro fa, Rob? – chiede incuriosito.
– Sono il capo della Divisione Investigativa della Polizia di Vancouver.
John smette di respirare e sbianca di colpo.
– Non devi spaventarti, – fa Robert tranquillo, continuando a sorseggiare il suo caffè. – Non ti ho mentito prima: se vuoi andartene anche adesso, puoi farlo. Non sono in servizio e quindi non sono tenuto a sapere nulla di voi due. Ho capito che siete in difficoltà. Ma sappi che, se siete nei guai, posso aiutarvi. Concretamente. – Al silenzio che segue, si acciglia preoccupato. – Non ti va giù proprio niente? – Allunga una mano e spinge verso di lui la tazza di latte ancora intoccata.
John si ritrae d’istinto, come se avesse cercato di colpirlo.
– Scusa, – dice l’uomo, sollevando una mano a placarlo. – Ti prego, non avere paura di me. Non sei prigioniero e quella è la porta. Se vuoi andare via, puoi farlo anche subito, non te lo impedirò. – Glielo ripete in un tono così convincente che John riprende a respirare. – Devo essere sincero. Sono preoccupato per te. Hai l’aria di stare molto male. E quelle cicatrici bianche sui polsi… ce ne sono altre?
Si riferisce ai tagli che gli facevano per convincerlo a usare i suoi poteri. Sono così sottili che quasi non si notano, come tanti fili di ragnatela, sovrapposti l'uno all’altro, e lui tira sempre le maniche sulle mani per nascondere quelli più feroci, che gli risalgono lungo le braccia. Solo un poliziotto poteva notarli con una sola occhiata.
Non ricevendo risposta, Robert commenta: – Hanno l’aria di non essere recenti.
– È una lunga storia, – conferma John fissandolo.
– C’entra qualcosa con il fatto che tua sorella non parla?
John annuisce.
L’uomo sospira rumorosamente. – Lo immaginavo. Capisco la tua diffidenza e ti ammiro per come ti stai prendendo cura della piccola. Sono un estraneo ficcanaso che non sa nulla di te. Ma voglio dirti una cosa: come ufficiale della Polizia ho una certa capacità di risolvere situazioni apparentemente impossibili. Se mi racconti la tua storia, qualsiasi essa sia, potrei davvero aiutarti.
– Non è una storia a cui lei potrebbe credere.
Robert si sporge verso di lui: – Mettimi alla prova.
John si schiarisce la voce. È stranamente emozionato. Per la prima volta ha l’occasione di raccontare quello che è successo. I ricordi si riversano in lui come una marea. Sente il torace bruciare di dolore, ma si costringe a parlare. – Anna è sotto shock, non so come fare per aiutarla.
L’uomo annuisce. – Sì, è quello che ho pensato anch’io non appena l’ho vista. Per quanto ne so, sembra avere una leggera catatonia, – aggiunge pensieroso. Prosegue poi a spiegare in tono tranquillo: – Può capitare a un bambino piccolo, quando deve affrontare traumi che non riesce a elaborare, si tratta di un meccanismo difensivo della mente. La buona notizia è che riesce a interagire con te a livello emotivo, perciò, in base alla mia esperienza, dovrebbe tornare in sé non appena si sentirà al sicuro.
John si volta verso il salotto per controllarla. Non sarebbe necessario, visto che può percepire la sua presenza. Ma ha bisogno di vederla.
– Dove sono i vostri genitori?
John guarda fuori dalla finestra. – I miei genitori sono stati uccisi, io e mia sorella sequestrati. – L’uomo si acciglia profondamente ma, nonostante questo, la sua espressione rimane amichevole, sincera.
– Chi sono le persone che vi hanno rapiti?
– Agenti e scienziati, – risponde John in tono secco.
Robert si passa una mano sul volto, fissandolo intensamente. – Agenti… del governo…?
– Non proprio e non ufficialmente, ma sono molto potenti. Hanno una base nel deserto del Nevada, una specie di laboratorio di ricerche… noi veniamo da lì.
– Nevada? Perché… cosa volevano da voi?
John si morde il labbro inferiore. Guarda il lampadario e i pensili della cucina, i magneti sul frigorifero, i piatti che sgocciolano accanto al lavabo, le presine natalizie appoggiate sul ripiano in pietra. Quel luogo è imbevuto di serenità e sarebbe proprio la casa perfetta per una grande e felice famiglia. Non dev’essere facile viverci, pensa, considerato che ogni cosa là dentro ricorda a quel poliziotto il suo sogno irrealizzato.
– Mi dispiace per sua moglie, – mormora John, – per la sua… famiglia... – L’uomo gli sorride un po' sorpreso, è un sorriso triste e affettuoso. – Ti ringrazio, John. Sei davvero un bravo ragazzo. Sai, a me certe cose non sfuggono: occhi da poliziotto! – fa indicandosi.
Si sorridono e la cucina cala nel silenzio. John continua a esitare.
– È una cosa che proprio non riesci a dire… – appunta l’uomo con calma, dopo un po'. – Non sei obbligato, ma potrebbe essere di aiuto, soprattutto per Anna.
John incrocia le mani sul tavolo, le stringe forte, tanto che le nocche sbiancano. – Ho un… talento particolare.
– Un talento…?
– Ci sono nato. Per me era naturale come respirare, ma ho scoperto che, invece, è qualcosa di raro e strano. Tanto che loro volevano studiarmi, capire come potevo fare quello che faccio. Hanno preso mia sorella pensando che fosse come me, ma Anna è normale. Lei non… lei… non… – Prende fiato perché improvvisamente la stanza ha cominciato a oscillare davanti ai suoi occhi e lui si sente nuovamente mancare.
L'uomo si alza, aggira il ripiano dell'isola e gli appoggia una mano calda sulla schiena, prende la tazza di latte e gliel'accosta alle labbra. John non ha la forza di rifiutare e deglutisce un lungo sorso. Si appoggia imbarazzato al braccio con cui lo sta sorreggendo.
– Mi scusi…
Robert si siede su uno sgabello al suo fianco per stare più comodo, mentre continua a sostenerlo. – Non preoccuparti di nulla, sei mio ospite, giusto? Bevi un altro sorso o rischi di svenire, sei esausto.
John obbedisce. – E anche un po' di torta, – aggiunge, avvicinandogli un piattino che aveva già preparato. – Mangia!
Il tono in cui lo dice ha la bonaria severità di un padre verso il figlio, John sente vagamente che potrebbe somigliare a quello di suo padre, ma è un ricordo così nebuloso che non ne è sicuro. E non vuole soffermarvisi perché fa troppo male. Mette in bocca un pezzetto, ma gli risale la nausea. Tossisce e l’uomo gli fa bere un altro sorso di latte.
– Va bene così per ora, – gli dice allontanando la torta. – Sorseggia con calma. Te ne preparo ancora. – Si allontana e scalda dell'altro latte in un pentolino, ci aggiunge cioccolata e zucchero, poi anche una cucchiaiata di sciroppo d’acero, gli sfila dalle mani la tazza fredda e la colma di liquido fumante. – Bevi, – esorta, – anche solo un gocciolino in più…
John sente gli occhi farsi umidi, ha un nodo alla gola. Quel liquido assurdamente dolce, che trattiene tra le mani gelate, è la cosa più bella che abbia ricevuto dopo anni di prigionia. Obbedisce e ingoia controvoglia un altro sorso: è terribile. Incrocia lo sguardo dell’uomo e gli scappa un sorriso.
– Troppo dolce?
John scoppia a ridere. Ed è un suono così argentino e pulito che sembra fare vibrare l’intera stanza. Anna fa capolino in cucina e lo guarda inespressiva, poi torna alla storia animata che si sta svolgendo in tv.
Robert osserva attentamente la scena e ride di rimando. – Ho esagerato?
– Un poco, – risponde John.
Si scambiano un’occhiata complice.
L’uomo torna a sedersi di fronte a lui. – Hai ancora paura di me? – È così schietto da essere disarmante. John non può fare altro che negare.
Robert si tira in su le maniche del maglione, scoprendo le braccia muscolose. Appoggia i gomiti sul tavolo. – Allora, te la senti di continuare la nostra chiacchierata? Vorrei chiederti altre cose.
John annuisce in silenzio.
– Per quanto tempo vi hanno tenuti prigionieri?
John non esita a rispondere questa volta: – Circa cinque o sei anni, credo. Hanno continuato a fare esperimenti. Anna era ancora molto piccola e presto si sono accorti che non era come me, così… la usavano solo per ricattarmi, per forzarmi a usare le mie capacità, ma non l’hanno mai toccata.
Gli occhi caldi dell’uomo si fissano su di lui come scintillanti magneti. – Invece, con te l’hanno fatto. Quelle cicatrici che hai… sono stati loro?
– Sì.
L’uomo si passa una mano sulla bocca. Si vede che sta trattenendo una reazione impulsiva, si vede che è disgustato, si vede che vorrebbe rivoltare gli intestini a quei criminali. Guarda fuori dalla finestra per alcuni minuti. Poi ritorna a fissarlo con attenzione.
– Cosa c’è di così speciale in te, da indurre a fare tutto questo?
John balbetta e risponde sussurrando: – Posso… io… sono un telecinetico, riesco a manipolare la materia con la mente. Se mi concentro bene, riesco anche a sentire i ricordi, i pensieri e le emozioni delle persone intorno a me, ma questo loro non lo hanno mai saputo.
L’espressione dell’uomo è indecifrabile. Parla in tono pacato e serio. – Questo tuo dono, l’hai usato per fuggire, dico bene?