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Al di là del cielo e del mare
Al di là del cielo e del mare
Al di là del cielo e del mare
E-book1.892 pagine28 ore

Al di là del cielo e del mare

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Info su questo ebook

“L’amore è una luce che accoglie anche tutte le ombre” – John.

“Quello che facciamo, le azioni che compiano ci possono costruire… ma anche distruggere, se non stiamo attenti” – Zao.

***Un amore magico e totale, oltre ogni immaginazione!***

Un bibliotecario riservato e anonimo con un cuore speciale, da colibrì, che cela un potere segreto, un passato traumatico e una discendenza da una stirpe di draghi ormai estinta con un destino da custode del mondo. Un detective ruvido e affascinante, che vive solo per il suo lavoro e ama il junk food, rassegnato a una vita di solitudine, ma con un animo fatto di coraggio e dolce caramello. John e Zao non sembrano avere nulla in comune, ma un'indagine per omicidio li farà incontrare; travolti da un vortice di eventi, scopriranno di cosa è capace un cuore di drago quando incontra un cuore umano! Questo romanzo d’amore, ambientato a Vancouver (Canada) nel 2018, vuole sfondare i pregiudizi, celebrando l’amore romantico, puro e incondizionato, tra due uomini, con un pizzico di paranormale, un mazzetto di fantasy, due spicchi di avventura/thriller e humor, una spruzzata di mistero e un goccio di passione.       

Consigliato a un pubblico adulto
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2020
ISBN9788831665476
Al di là del cielo e del mare

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    Anteprima del libro

    Al di là del cielo e del mare - Barbara Signorini

    633/1941.

    INTRODUZIONE

    Il ro­man­zo con­ta 10 ca­pi­to­li di An­te­fat­to + 215 ca­pi­to­li di Sto­ria + Epi­lo­go + Ca­pi­to­lo ex­tra.

    So­no una ri­bel­le in­col­la­ta al pro­prio so­gno di pa­ro­le, che non ha avu­to al­cu­na in­ten­zio­ne di sin­te­tiz­za­re, di­vi­de­re in più vo­lu­mi o ren­de­re più ap­pe­ti­bi­le la sua sto­ria so­lo per­ché fos­se com­mer­cia­le. Se sie­te co­sì co­rag­gio­si da af­fron­ta­re tan­ta let­tu­ra vi fac­cio i com­pli­men­ti!!!

    ==========    -    ==========

    Que­sto ro­man­zo, che è pre­sen­te gra­tis sul so­cial per scrit­to­ri Watt­pad dal 12/10/2019, na­sce da un so­gno ri­cor­ren­te del­la mia gio­vi­nez­za ed è co­strui­to su di es­so. Una fan­ta­sia che è cre­sciu­ta e si è ar­ric­chi­ta con il pas­sa­re del tem­po, tan­to che quan­do ho crea­to il mio fi­le sto­ry il 1° ot­to­bre 2018 tut­to era già pre­sen­te nel­la mia men­te e le pa­ro­le si sro­to­la­va­no da­van­ti ai miei oc­chi... co­me una ma­gia.

    "Al di là del cie­lo e del ma­re" è fat­to per let­to­ri vo­ra­cis­si­mi che ama­no le sto­rie d'amo­re vis­su­te a pel­le, nel quo­ti­dia­no, in cui ogni ca­pi­to­lo sia im­pre­ve­di­bi­le e tra­sci­nan­te. Spe­ro che, no­no­stan­te i suoi di­fet­ti, inevitabili in un'autopubblicazione, vi ten­ga com­pa­gnia, vi strap­pi una ri­sa­ta o una la­cri­ma e ma­ga­ri vi fac­cia so­gna­re un po­chi­no...

    Scri­ve­re que­sto ro­man­zo, che cir­co­la da an­ni nel­la mia men­te e nel mio cuo­re, è sta­ta una ne­ces­si­tà fi­si­ca, co­me man­gia­re o re­spi­ra­re. Rac­con­ta­re di que­sti due me­ra­vi­glio­si per­so­nag­gi, che co­no­sce­vo già per­fet­ta­men­te da an­ni e ave­vo trat­teg­gia­to nel mio cuo­re, un ono­re. So­no cer­ta che qual­cun al­tro avreb­be sa­pu­to ren­de­re me­glio ogni co­sa, ma c'ero so­lo io... per­ciò... ac­con­ten­ta­te­vi!  ;–)

    La tra­ma si evol­ve mol­to len­ta­men­te e la sto­ria è dav­ve­ro lun­ga, ma tut­to è col­le­ga­to esat­ta­men­te co­me in un puzz­le e que­sto, al let­to­re at­ten­to, non sfug­gi­rà. Al­la fi­ne, ogni co­sa avrà sen­so.

    Lo sco­po di que­sta sto­ria è rac­con­ta­re l’amo­re in tut­te le sue for­me, te­sti­mo­niar­lo e ce­le­brar­lo. Tut­to qui. Spe­ro di riu­sci­re a far­vi en­tra­re in que­sto in­can­to. 

    Ben­ve­nu­ti in questa Seconda edizione revisionata, di cui riesco a non vergognarmi troppo. Ho cercato di esplicitare alcuni punti poco chiari ed eliminare i refusi. Spero che non vi deluda. Buona lettura !!!

    ==========    -    ==========

    P.S. Non sop­por­to... i fi­na­li tri­sti (o tron­chi). Se uno ha in­ve­sti­to il suo tem­po ed emo­zio­ni in qual­co­sa, per­ché de­lu­der­lo pro­prio al­la fi­ne? A buon in­ten­di­tor...😉😉😉

    DISCLAIMER

    No­mi pro­pri di cit­tà e di luo­ghi pub­bli­ci, in­di­ca­ti nel ro­man­zo, so­no real­men­te esi­sten­ti, quan­do non di­ver­sa­men­te in­di­ca­to.

    Nel pre­sen­te ro­man­zo non ven­go­no no­mi­na­ti pro­dot­ti co­per­ti da co­py­right, mar­chi re­gi­stra­ti o eser­ci­zi com­mer­cia­li. Nel­lo spe­ci­fi­co, so­no frut­to di fin­zio­ne nar­ra­ti­va: Pin­ky War (gio­co per con­so­le), la Ce­stho (mar­ca di com­pu­ter). il Sa­lo­ne del­le Espo­si­zio­ni (luo­go del­la mo­stra di Sam Notts), lo Skies (do­ve al­log­gia Sam Notts), gli al­ber­ghi Fair Ve­ni­ce, Dream on the bea­ch e Ho­tel Win­ter, il ri­sto­ran­te/bar Blue Mee­ting. I film Ma­fia Sot­to­ca­sa, Di­stru­zio­ne To­ta­le, Fi­ne del mon­do par­te 2. L’agen­zia Mo­dels. Le ope­re ar­ti­sti­che de­scrit­te al Ber­ga­mot Sta­tion Art Cen­ter so­no tut­te in­ven­ta­te. Il La­bo­ra­to­rio, in Ne­va­da, è una strut­tu­ra im­ma­gi­na­ria, co­sì co­me l’or­ga­niz­za­zio­ne pri­va­ta ca­peg­gia­ta da Jenc­kins.

    Ci­ta­zio­ni o com­men­ti com­pa­io­no con aste­ri­sco (*) e ven­go­no ri­por­ta­ti in co­da a cia­scun ca­pi­to­lo. So­no al­tre­sì con­sul­ta­bi­li in fon­do all’ope­ra, nel ca­pi­to­lo "CI­TA­ZIO­NI RO­MAN­ZO".

    Que­sto ro­man­zo è un'ope­ra di fan­ta­sia de­sti­na­ta all’in­trat­te­ni­men­to, qual­sia­si ri­fe­ri­men­to a no­mi, per­so­ne esi­sten­ti o fat­ti real­men­te ac­ca­du­ti è pu­ra­men­te ca­sua­le.

    ANTEFATTO

    001

    Nel cor­ri­do­io le lampade al neon sfar­fal­la­no. La luce artificiale si riflette, gelida, sulle nude pareti che costellano la sezione sotterranea dell'edificio. Il La­bo­ra­to­rio è un enor­me cu­bo piaz­za­to in mez­zo al nul­la del de­ser­to: tre quarti di uffici con lu­ce na­tu­ra­le, e il resto blin­da­to sotto terra su cin­que li­vel­li di si­cu­rez­za.

    John sa che è not­te.

    Da quan­do l’han­no pre­so, per au­men­ta­re il suo sen­so di smar­ri­men­to e ren­der­lo più do­ci­le, gli ren­do­no im­pos­si­bi­le l’ac­ces­so agli oro­lo­gi. Lui, co­mun­que, ha im­pa­ra­to a orien­tar­si mol­to be­ne: quan­do non rie­sce a co­glier­lo nel­le lo­ro men­ti, trae in­di­zi da comportamenti abituali e brandelli di conversazione; correla i test a cui lo sottopongono durante la settimana e le scadenze dei sedativi, che gli somministrano ogni giorno, con i cambi turno del personale, e sa che ades­so so­no più o me­no le 4:00 di not­te.

    L’ul­ti­mo sorvegliante se n’è an­da­to e il nuo­vo è ve­nu­to a con­trol­la­re di persona la sua cella, prima di tornare nella stanza adiacente da dove lo controllano attraverso un vetro unidirezionale. Una bre­ve oc­chia­ta ed è usci­to. In teo­ria, ta­le ispezione non sa­reb­be ne­ces­sa­ria, per­ché John vie­ne dro­ga­to ab­bon­dan­te­men­te la se­ra, per in­dur­lo in un son­no pro­fon­do ed evi­ta­re pro­ble­ma­ti­che pro­prio nel­le ore not­tur­ne, du­ran­te le qua­li il Laboratorio è più sguar­ni­to. Que­sto in teo­ria. Per­ché John ha im­pa­ra­to a di­sfar­si del­la dro­ga sen­za che lo­ro se ne ac­cor­ga­no: la ne­bu­liz­za in mi­cro­mo­le­co­le e la eli­mi­na dal­la pel­le at­tra­ver­so il su­do­re.

    Quel­la se­ra ha di­spo­sto il cu­sci­no sot­to le co­per­te per in­gan­na­re lo svo­glia­to sorvegliante, e riu­sci­re a sgat­ta­io­la­re fuo­ri al­le sue spal­le, pri­ma che richiudesse la por­ta.

    Ora cam­mi­na ra­pi­do per il lun­go cor­ri­do­io. La sua men­te la­vo­ra feb­bri­le. Ci so­no te­le­ca­me­re ovun­que, in­stal­la­te al­le pa­re­ti, e ogni por­ta è bloc­ca­ta da ve­ri­fi­che di­gi­ta­li e vo­ca­li. Per il mo­men­to, non se ne cu­ra. Rin­gra­zia Dio di es­se­re riu­sci­to a di­sin­tos­si­car­si da tut­ti i far­ma­ci con cui lo im­bot­ti­sco­no, al­tri­men­ti non riu­sci­reb­be a fa­re ciò che sta fa­cen­do in que­sto mo­men­to. Ha este­so la sua men­te a tut­to il cor­po e ac­ce­le­ra­to la vi­bra­zio­ne ato­mi­ca. In po­che pa­ro­le: si è re­so in­vi­si­bi­le.

    È que­sto ciò che lo ren­de spe­cia­le. Que­sto il mo­ti­vo per cui si ri­tro­va pri­gio­nie­ro nel cu­bo. Sa ma­ni­po­la­re la ma­te­ria con la men­te da quan­do è na­to. Far­lo, pe­rò, gli co­sta ener­gia. E il suo cor­po è in­de­bo­li­to da an­ni di pri­gio­nia. Se fos­se sta­to per lui, si sa­reb­be la­scia­to an­da­re già da tem­po, ha lot­ta­to finora so­lo per sua so­rel­la. La sua so­rel­li­na di ot­to an­ni, re­clu­sa an­che lei nel La­bo­ra­to­rio.

    Si ac­co­sta al­la pri­ma por­ta di bloc­co, trat­tie­ne il re­spi­ro, sal­da be­ne a sé ogni mo­le­co­la del suo cor­po ed esten­de an­co­ra di più le di­stan­ze ato­mi­che. At­tra­ver­sa quella superficie blindata co­me fos­se fat­ta di bur­ro. Sod­di­sfat­to, pro­se­gue. Al­lar­ga le sue per­ce­zio­ni, cer­can­do di vi­sua­liz­za­re con più chia­rez­za la ma­te­ria tutt'in­tor­no. Do­po qual­che se­con­do ha da­van­ti agli oc­chi la map­pa dell’in­te­ro La­bo­ra­to­rio: ot­to pia­ni di edi­fi­cio, di cui cin­que sot­ter­ra­nei.

    Chiu­de gli oc­chi e cer­ca di con­cen­trar­si: la sua men­te di­ven­ta uno scan­ner af­fi­la­to e pre­ci­so, av­ver­te in sé la pre­sen­za vi­ta­le di ogni di­pen­den­te del La­bo­ra­to­rio, si trat­ta di una cin­quan­ti­na di per­so­ne che la­vo­ra­no al tur­no di not­te (scien­zia­ti, in­ser­vien­ti, im­pie­ga­ti, agen­ti di si­cu­rez­za, ana­li­sti). Ne per­ce­pi­sce il re­spi­ro, sfio­ra i lo­ro pen­sie­ri, sen­te le emo­zio­ni, ascol­ta il pul­sa­re dei lo­ro cuo­ri. Tut­to que­sto gli fa ma­le. Col­pi­sce la sua men­te co­me un mar­tel­lo pneu­ma­ti­co. Ma non può mol­la­re. Non se vuo­le tro­va­re sua so­rel­la.

    An­na ha una spe­ci­fi­ca im­pron­ta, un pro­fu­mo del­la men­te. L’ha sem­pre avu­to, da quan­do è na­ta. E lui sa co­me ri­co­no­scer­la. Tra tut­ti quei bat­ti­ti di cuo­re, che rim­bom­ba­no in lui am­pli­fi­ca­ti co­me bas­si in una cas­sa da con­cer­to, c’è quel­lo di sua so­rel­la, che vi­bra so­li­ta­rio e uni­co, qua­si inu­di­bi­le, so­vra­sta­to dal ru­mo­re di fon­do.

    Ria­pre gli oc­chi. La sua an­da­tu­ra ades­so è più si­cu­ra. Il pas­so si af­fret­ta, per­ché sa di non ave­re tem­po. In ogni stan­za ci so­no te­le­ca­me­re a in­fra­ros­si con ri­le­va­to­ri di ca­lo­re e mo­vi­men­to, non ci vor­rà mol­to pri­ma che qual­cu­no si ac­cor­ga del suo sot­ter­fu­gio. Per for­tu­na, nes­su­no ha ri­te­nu­to di met­te­re quei ri­le­va­to­ri an­che nei cor­ri­doi. De­vo­no ave­re pen­sa­to che non fos­se ne­ces­sa­rio. E que­sto gli dà re­spi­ro. 

    Pro­se­gue ve­lo­ce da un li­vel­lo all’al­tro, cer­can­do di igno­ra­re il pa­ni­co che gli strin­ge lo sto­ma­co, ma non passa molto tempo che, co­me a ri­spon­de­re al­le sue pau­re, scat­ta il pri­mo cam­pa­nel­lo di al­lar­me.

    Il ru­mo­re si dif­fon­de nel­la strut­tu­ra, as­sor­dan­te e me­tal­li­co. L’in­te­ro edi­fi­cio sem­bra ria­ni­mar­si e agen­ti del­la si­cu­rez­za, ar­ma­ti fi­no ai den­ti, si ri­ver­sa­no nei cor­ri­doi co­me for­mi­che sul mie­le. John cer­ca di man­te­ne­re la con­cen­tra­zio­ne e si osti­na a pas­sa­re da un am­bien­te all’al­tro co­me se nuo­tas­se nel­la me­las­sa. L’ul­ti­mo mu­ro che at­tra­ver­sa lo por­ta in una pic­co­la stan­za, do­ve tro­va sua so­rel­la. È se­du­ta sul let­to, ve­sti­ta con un pi­gia­mi­no ro­sa con al­cu­ni pan­da di­se­gna­ti, ha gli oc­chi chiu­si e si sta tap­pan­do le orec­chie per il fra­stuo­no. John si ren­de vi­si­bi­le e si av­vi­ci­na cau­to per non spa­ven­tar­la. È da più di un an­no che non si ve­do­no. Non ha idea del­la rea­zio­ne che avrà, non sa se sia­no riu­sci­ti a met­ter­glie­la con­tro, non sa se sia dro­ga­ta o ma­la­ta. La chia­ma per no­me.

    Al suo­no del­la sua vo­ce, lei si vol­ta e sor­pren­den­te­men­te si il­lu­mi­na. – John, John… – an­si­ma. Cer­ca di rag­giun­ger­lo, di al­zar­si in pie­di, ma il sor­ri­so si spe­gne e crol­la iner­me fra le sue brac­cia. John la strin­ge a sé, ter­ro­riz­za­to. Sen­te un odo­re par­ti­co­la­re nel suo re­spi­ro, lo ri­co­no­sce e ca­pi­sce che è sta­ta dro­ga­ta. Tra­fu­ga un istan­te per ra­gio­na­re e ri­pren­de­re il con­trol­lo del­le sue emo­zio­ni. È fu­rio­so per quel­lo che le han­no fat­to, per l’in­giu­sti­zia che ha su­bì­to, per la lo­ro vi­gliac­che­ria.

    Vor­reb­be di­strug­ge­re tut­to, vor­reb­be fa­re spro­fon­da­re l’in­te­ro La­bo­ra­to­rio al cen­tro del­la Ter­ra e, per un mo­men­to, sen­te che po­treb­be far­lo, che è in suo po­te­re, che nul­la glie­lo im­pe­di­reb­be. A co­sto del­la vi­ta, s’in­ten­de, ma for­se ne var­reb­be la pe­na.

    Ci met­te qual­che mi­nu­to per ri­tro­va­re il nu­cleo di uma­ni­tà che c’è den­tro di lui, e si ren­de con­to che ha spre­ca­to del tem­po pre­zio­so. Una de­ci­na di guar­die scel­te, agen­ti su­per ad­de­stra­ti, saet­ta­no per il cor­ri­do­io e ir­rom­po­no nel­la stan­za, spa­ran­do raf­fi­che di pro­iet­ti­li tran­quil­lan­ti. Ma ogni mu­ni­zio­ne rim­bal­za inu­til­men­te con­tro la bar­rie­ra men­ta­le che John ha im­me­dia­ta­men­te eret­to da­van­ti a sé.

    Due agen­ti cor­pu­len­ti vi si sca­glia­no con­tro con ta­le vio­len­za che il pa­vi­men­to sus­sul­ta, quan­do ci rim­bal­za­no e rovinano a ter­ra, tra­mor­ti­ti. John strin­ge i den­ti la­scian­dosi sfug­gi­re un ge­mi­to di do­lo­re. È sfi­ni­to e ca­pi­sce che non po­trà re­si­ste­re a lun­go.

    Ser­ra le brac­cia at­tor­no ad An­na, e ri­ver­sa den­tro la men­te ogni sin­go­la cel­lu­la del suo cor­pi­ci­no; sal­da e trat­tie­ne tut­to. Ab­brac­cia l’edi­fi­cio, vi si àn­co­ra, vi­sua­liz­za poi il ter­ri­to­rio de­ser­ti­co at­tor­no al­la strut­tu­ra, fis­sa un pun­to nel­lo spa­zio e co­min­cia a ti­ra­re… men­tre gli scien­zia­ti, che so­no ap­pe­na en­tra­ti, e han­no ca­pi­to co­sa sta suc­ce­den­do, gri­da­no in­sen­sa­ta­men­te per­ché qual­cu­no lo fer­mi. Nel guardare quei volti, fol­li di avi­di­tà e fe­ro­cia, il cuo­re gli fi­bril­la nel pet­to. Per un mi­cro­se­con­do i lo­ro due cor­pi ab­brac­cia­ti coe­si­sto­no in due pun­ti di­ver­si del­lo spa­zio: la cel­la e il de­ser­to. La ten­sio­ne di­vie­ne ter­ri­bi­le. In­so­ste­ni­bi­le. Non c’è al­tro che la sua vo­lon­tà a fa­re in­cli­na­re quell’im­ma­ne ener­gia ver­so l’ester­no, fuo­ri dall’edi­fi­cio. Lon­ta­no da tut­ti lo­ro.

    La bar­rie­ra in­vi­si­bi­le ce­de. Una ma­no si al­lun­ga ad ar­ti­glio per af­fer­rar­lo. Ma an­na­spa nel vuo­to. Ruz­zo­la­no en­tram­bi nel­la ter­ra pol­ve­ro­sa. John an­si­ma rau­co, rac­co­glien­do il cor­po del­la so­rel­la e cer­can­do di non sve­ni­re per il do­lo­re che ha nel pet­to. Al­za gli oc­chi al cie­lo not­tur­no e, per un at­ti­mo, di­men­ti­ca tut­to. 

    Ha tre­di­ci an­ni e non ve­de le stel­le da quan­do ne ave­va set­te.

    002

    È co­sì stan­co che vor­reb­be met­ter­si a dor­mi­re lì, sul­la ter­ra sab­bio­sa, as­sa­po­ran­do il pro­fu­mo del ven­to not­tur­no e gu­stan­do la mae­sto­si­tà del cie­lo. Ma sa che, se si at­tar­da an­co­ra per qual­che istan­te, le guar­die lo pren­de­ran­no. Si tro­va, in­fat­ti, a una ven­ti­na di me­tri dal pe­ri­me­tro ester­no del cu­bo. Le lu­ci di sor­ve­glian­za at­tor­no al­la strut­tu­ra si stan­no ac­cen­den­do feb­bril­men­te e già ve­de al­cu­ni agen­ti mon­ta­re in macchina per usci­re a cer­car­li.

    An­na si sve­glia e mor­mo­ra de­bol­men­te qual­co­sa. – Ti pre­go, pic­co­la, fi­da­ti di me. Ti por­te­rò al si­cu­ro. Sa­re­mo al si­cu­ro. – So­no pa­ro­le vuo­te, non ci cre­de del tut­to nem­me­no lui, ma pro­nun­ciar­le gli dà la for­za ne­ces­sa­ria per fa­re un al­tro sal­to. Riag­gan­cia i lo­ro cor­pi e li pro­iet­ta in un luo­go che ha vi­sto in un pro­gram­ma te­le­vi­si­vo, gior­ni pri­ma. Le lu­ci del­le au­to lo in­ve­sto­no un mo­men­to pri­ma che en­tram­bi sva­ni­sca­no nuo­va­men­te nel nul­la.

    Sci­vo­la­no a ter­ra ritrovandosi in un cam­po, un va­stis­si­mo cam­po in­col­to, ri­co­per­to da al­ta e fit­ta ster­pa­glia. Le ombre lentamente diradano e si inizia a udire il cinguettio di qualche uccello dal boschetto vicino, men­tre un debole so­le comincia a inondare la cam­pa­gna di una dol­ce lu­ce sof­fu­sa. Sta al­beg­gian­do.

    An­na si stro­pic­cia gli oc­chi. E chie­de: – Do­ve sia­mo?

    – In Kan­sas. 

    Han­no at­tra­ver­sa­to due Sta­ti, Utah e Co­lo­ra­do, in po­co me­no di un se­con­do.

    – E co­sa ci fac­cia­mo qui?

    John sor­ri­de al pi­glio pra­ti­co di An­na. – Non lo so, mi pia­ce­va il pa­no­ra­ma!

    Scop­pia­no a ri­de­re ed è co­me se non si fos­se­ro mai se­pa­ra­ti. Co­me se nien­te al mon­do po­tes­se met­te­re in dub­bio la for­za del lo­ro le­ga­me. John cer­ca di pro­lun­ga­re quel­la ri­sa­ta il più pos­si­bi­le ma, ine­vi­ta­bil­men­te, non ci rie­sce. Quan­do no­ta le oc­chia­ie li­vi­de sul vol­to di sua so­rel­la, per­de per un at­ti­mo la ma­sche­ra di se­re­ni­tà che si è di­pin­to in vol­to fi­no a quel mo­men­to, e lei se ne ac­cor­ge. I suoi oc­chi si adom­bra­no e gli si strin­ge ad­dos­so, scop­pian­do in sin­ghioz­zi di­spe­ra­ti. Il suo pic­co­lo cor­po è scos­so da tre­mi­ti co­sì vio­len­ti che John è pre­so dal pa­ni­co. Non rie­sce a cal­mar­la né a con­so­lar­la. Rie­sce so­lo a cul­lar­la, te­nen­do­la stret­ta a sé con tut­ta la po­ca for­za che gli è ri­ma­sta.

    Do­po un’eter­ni­tà, il pian­to si as­sot­ti­glia e si pla­ca. – Co­sa fac­cia­mo ades­so? Do­ve an­dia­mo?

    John trae un so­spi­ro e de­ve na­scon­de­re una fit­ta lan­ci­nan­te al to­ra­ce, che lo at­tra­ver­sa co­me una sca­ri­ca elet­tri­ca. Si sen­te esau­ri­to e svuo­ta­to co­me una bat­te­ria sca­ri­ca. Co­sa fa­re? Do­ve an­da­re? Non han­no do­cu­men­ti, so­no en­tram­bi mi­no­ren­ni e non han­no nes­su­no al mon­do. Nes­sun ami­co, nes­sun pa­ren­te da cui ri­fu­giar­si. E non pos­so­no nem­me­no an­da­re al­la po­li­zia, per­ché il La­bo­ra­to­rio fa par­te di un agen­zia se­gre­ta­ta che ha ac­ces­so a ogni da­ta­ba­se, con­ver­sa­zio­ne te­le­fo­ni­ca e te­le­ca­me­ra pub­bli­ca. Nel mo­men­to in cui met­tes­se­ro pie­de in una sta­zio­ne di Po­li­zia, ver­reb­be­ro di cer­to ri­cat­tu­ra­ti. So­no en­tram­bi in pi­gia­ma, scal­zi, la­ce­ri e sfi­ni­ti. È una si­tua­zio­ne sen­za spe­ran­za. Ma John non può, non ha il di­rit­to di la­sciar­si an­da­re. Non di fron­te al­lo sguar­do pie­no di fi­du­cia che sua so­rel­la gli sta lanciando.

    Cer­ca di pen­sa­re lu­ci­da­men­te, di ri­cor­da­re se ci fos­se sta­to un pia­no nel­la sua te­sta. Ma non tro­va nul­la. In real­tà, il pia­no era di fug­gi­re. Non ha mai ve­ra­men­te pen­sa­to al do­po.

    Si guar­da in­tor­no e la va­sti­tà di quel cam­po lo im­pau­ri­sce. Si sen­te so­lo. Ter­ri­bil­men­te so­lo. Cer­ca di man­te­ne­re un’espres­sio­ne neu­tra di fron­te a sua so­rel­la, per­ché non vuo­le che ca­pi­sca quan­to sia di­spe­ra­ta la lo­ro si­tua­zio­ne. In­go­ia a for­za il no­do che ha in go­la. E trae un re­spi­ro con la par­te al­ta del to­ra­ce. Leg­ger­men­te. Per­ché sa che, se re­spi­ras­se più a fon­do, ur­le­reb­be di do­lo­re. – Per pri­ma co­sa, – di­ce in to­no leg­ge­ro, – dob­bia­mo dar­ci una si­ste­ma­ta. Se qual­cu­no ci ve­des­se in que­sto sta­to, chia­me­reb­be su­bi­to i ser­vi­zi so­cia­li. E poi dob­bia­mo man­gia­re… e dor­mi­re.

    An­na si guar­da in­tor­no. – Ma co­me fac­cia­mo? Non ab­bia­mo un sol­do.

    John si mor­de il lab­bro in­fe­rio­re ed espi­ra pia­no, cer­can­do di sor­ri­de­re. – Se non sba­glio qui vi­ci­no c'è una fat­to­ria. Non do­vreb­be es­se­re dif­fi­ci­le sgat­ta­io­la­re den­tro e pren­de­re quel­lo che ci ser­ve.

    Gli oc­chi di An­na si ac­cen­do­no. – Dav­ve­ro pos­sia­mo? Ma se ci ve­do­no? – John le ac­ca­rez­za la te­sta sca­pi­glia­ta, fa­cen­do­le l’oc­chio­li­no. – Non ci ve­dran­no, per­ché sa­re­mo in­vi­si­bi­li.

    La fat­to­ria c’è dav­ve­ro. John e An­na ri­man­go­no na­sco­sti per un’ora in­te­ra os­ser­van­do i mo­vi­men­ti dei pro­prie­ta­ri. So­no una cop­pia an­zia­na con tre fi­gli ro­bu­sti, una don­na con una bam­bi­na dell’età di An­na e una man­cia­ta di ca­ni da guar­dia, che scor­raz­za­no tutt’in­tor­no. Dei fi­gli, due si al­lon­ta­na­no ver­so i cam­pi, il ter­zo fa sa­li­re i ge­ni­to­ri e la don­na in un vec­chio fur­gon­ci­no e tutti insieme si di­ri­go­no ver­so nord.

    John fa se­gno ad An­na che è il mo­men­to. Sfrut­ta i suoi po­te­ri per ren­der­e entrambi in­vi­si­bi­li e im­per­cet­ti­bi­li per­fi­no ai ca­ni. Quan­do so­no den­tro, si di­vi­do­no i com­pi­ti. Men­tre sua so­rel­la si rin­fre­sca in ba­gno, John va in cer­ca di abi­ti cal­di e di uno zai­no. Poi si scam­bia­no i ruo­li. Men­tre lui va a la­var­si, la pic­co­la sac­cheg­gia la di­spen­sa sen­za al­cu­na pie­tà, tro­va an­che al­cu­ni sol­di e li in­ta­sca ra­pi­da­men­te. John si è fer­ma­to a guar­dar­la e odia se stes­so per quel­lo che è di­ven­ta­ta. Ha ot­to an­ni e nes­su­no scru­po­lo a ru­ba­re in ca­sa d’al­tri. D’al­tron­de, co­me po­treb­be giu­di­car­la? Lui, che in­dos­sa ora i ve­sti­ti e le scar­pe di uno sco­no­sciu­to! – An­dia­mo, – di­ce. E lei lo se­gue di cor­sa.

    Bi­vac­ca­no sul cam­po, sen­ten­do­si al si­cu­ro. An­na co­min­cia a ri­pren­de­re vi­go­re, ma è sem­pre mor­tal­men­te pal­li­da. De­ve di­sin­tos­si­car­si da an­ni di pri­gio­nia e far­ma­ci in­dot­ti. Dor­mo­no all’ad­diac­cio, tra gli ster­pi, av­vol­ti nel­le co­per­te sot­trat­te al­la ca­me­ra da let­to pa­dro­na­le.

    003

    John quel­la not­te so­gna. Nel so­gno ve­de gli agen­ti la­vo­ra­re feb­bril­men­te al­la lo­ro ri­cer­ca. As­si­ste a una sce­na di iste­ri­smo tra gli scien­zia­ti. Nes­su­no im­ma­gi­na­va la por­ta­ta del suo po­te­re. Uno di lo­ro avan­za l’ipo­te­si che lui sia sal­ta­to in un posto che co­no­sce­va, che po­te­va ave­re vi­sto e di cui aveva una chiara immagine tridimensionale; escludono a priori i luoghi della sua infanzia (sarebbe stato troppo scontato ritornarci) e quelli indicati nelle foto dei libri; passano quindi al setaccio tut­ti pro­gram­mi te­le­vi­si­vi che ha guar­da­to di re­cen­te nella loro televisione a circuito chiuso: so­no so­lo una man­cia­ta, per­ché la tv gli era vie­ta­ta per la mag­gior par­te del tem­po. Se­tac­cia­no i vi­deo che lo ri­pren­do­no men­tre os­ser­va le trasmissioni, ana­liz­za­no le sue rea­zio­ni, la di­la­ta­zio­ne del­le pu­pil­le, cer­ca­no di co­glie­re qua­le pos­sa es­se­re il luo­go che lo at­ti­ra­va. E strin­go­no il cam­po a una decina di possibilità. Una delle qua­li è la zona do­ve si tro­va­no ades­so. In­ter­cet­ta­no poi la te­le­fo­na­ta di una fat­to­ria che ha su­bì­to un fur­to in ca­sa. Non ser­ve al­tro per far­li par­ti­re all’azio­ne.

    Si sve­glia di so­pras­sal­to. E ca­pi­sce che quel so­gno è, in real­tà, un av­ver­ti­men­to del­la sua men­te iper­sen­si­bi­le. È an­co­ra not­te e An­na dor­me fi­du­cio­sa al suo fian­co. John non sa se è so­lo una pau­ra in­fon­da­ta, ma sen­te che de­vo­no al­lon­ta­nar­si da lì a tut­ti i co­sti. Non ha pe­rò il cuo­re di sve­glia­re sua so­rel­la. Per­so tra mil­le pen­sie­ri, la stringe fra le braccia cacciando la testa dentro il bozzolo di coperte che li avvolge, e sci­vo­la an­che lui in un son­no esau­sto e pro­fon­do.

    Vie­ne sve­glia­to bru­sca­men­te da alcune vo­ci. Non sa per quan­to ha dor­mi­to. È po­me­rig­gio inol­tra­to, a giu­di­ca­re dall’al­tez­za del so­le, ed è fred­do per­ché è pie­no in­ver­no e il ge­lo del­la not­te gli è pe­ne­tra­to nel­le os­sa. Si sen­te do­lo­ran­te co­me se lo aves­se­ro pre­so a bot­te. Fa per al­zar­si ma si ac­cuc­cia su­bi­to. La ve­ge­ta­zio­ne è co­sì al­ta che li na­scon­de, ma ci so­no de­gli uo­mi­ni nel cam­po, e so­no ar­ma­ti.

    John met­te una ma­no sul­la boc­ca di An­na, quan­do la sve­glia, per im­pe­dir­le di fa­re ru­mo­re. Lei ca­pi­sce all’istan­te e si quie­ta, te­sa co­me una cor­da di vio­li­no. Le vo­ci so­no co­sì vi­ci­ne che John è pre­so dal pa­ni­co. Si spor­ge, e a una cin­quan­ti­na di me­tri, a bor­do cam­po sul­la stra­da ster­ra­ta, ve­de un’au­to del­la po­li­zia con i lam­peg­gian­ti ac­ce­si, poi il ti­pi­co com­ple­to gri­gio ce­ne­re di al­cu­ni agen­ti del La­bo­ra­to­rio, che si stan­no guar­da­no at­tor­no.

    An­che An­na si af­fac­cia, ap­pog­gian­do­si al­la sua schie­na ma, quan­do ri­co­no­sce gli agen­ti, fa qual­co­sa di im­pre­ve­di­bi­le: si met­te a ur­la­re. Un suo­no acu­tis­si­mo, la­ce­ran­te e ma­la­to. Ur­la con quan­to fia­to ha in go­la. In quel ma­re di ar­bu­sti e vec­chi mac­chi­na­ri agri­co­li in di­su­so, che an­co­ra li te­ne­va na­sco­sti, è co­me un enor­me fa­ro pun­ta­to su di lo­ro.

    John si gi­ra a guar­dar­la stu­pe­fat­to, av­ver­te di­stin­ta­men­te il vo­cia­re con­ci­ta­to de­gli uo­mi­ni e, con la co­da dell’oc­chio, co­glie lo scat­to ra­pi­do de­gli agen­ti in gri­gio che si pre­ci­pi­ta­no ver­so di lo­ro, ma la sua at­ten­zio­ne è tut­ta con­cen­tra­ta su sua so­rel­la, sul suo vol­to li­vi­do e pal­li­do, gli oc­chi ri­col­mi di la­cri­me e la boc­ca spa­lan­ca­ta, da cui esce ora un suo­no rau­co, sfi­ni­to, ma co­stan­te: un la­men­to atro­ce, im­po­ten­te, che non ac­cen­na a fer­mar­si. È co­me se den­tro di lei si fos­se spez­za­to qual­co­sa.

    – An­na, – sus­sur­ra scioc­ca­to. All’udi­re il suo no­me, la bam­bi­na chiu­de gli oc­chi e crol­la su di lui co­me una bam­bo­la rot­ta.

    John fa so­lo in tem­po a rac­co­glier­la fra le brac­cia che ve­de gli agen­ti com­pa­ri­re  a po­chi me­tri da lo­ro. Non è nel­le con­di­zio­ni di met­ter­si a cor­re­re e tra­spor­ta­re An­na di pe­so, non è nem­me­no in gra­do di al­zar­si sul­le sue gam­be, fa l’uni­ca co­sa pos­si­bi­le: ri­chia­ma il po­te­re e si pre­pa­ra per il sal­to. La ve­lo­ci­tà con cui scom­pa­io­no dal cam­po è di una ta­le vio­len­za che, per un istan­te, la vi­sta gli si oscu­ra com­ple­ta­men­te.

    Rie­mer­go­no in un vi­co­lo af­fian­ca­to da al­ti pa­laz­zi. Il ru­mo­re del traf­fi­co so­vra­sta ogni co­sa, an­che il de­bo­le la­men­to di An­na, che an­co­ra non si fer­ma. Le si av­vi­ci­na e cer­ca di pla­car­la. Le ac­ca­rez­za il vi­so, l’ab­brac­cia, ma lei non rea­gi­sce. Ha gli oc­chi ve­la­ti, spen­ti. Le brac­cia iner­ti, ab­ban­do­na­te. Com­ple­ta­men­te ca­ta­to­ni­ca.

    Per John è co­me ri­sve­gliar­si in un in­cu­bo peg­gio­re del pre­ce­den­te. Si era il­lu­so che la pri­gio­nia non l'aves­se in­tac­ca­ta, sa­pe­va che i tu­to­ri l’ave­va­no trat­ta­ta con un cer­to ri­guar­do, con­si­de­ran­do la sua età, ma, dal­la sua rea­zio­ne, è evi­den­te che quell’at­ten­zio­ne anaf­fet­ti­va non è sta­ta suf­fi­cien­te. For­se, se non aves­se vi­sto gli agen­ti, quell'uni­co fi­lo che la te­ne­va an­co­ra­ta al­la nor­ma­li­tà non si sa­reb­be spez­za­to.

    È pre­so dal pa­ni­co. Non sa co­sa fa­re. Guar­da le au­to che sfrec­cia­no nel via­le in fon­do al vi­co­lo e i pas­san­ti che si af­fret­ta­no in ogni di­re­zio­ne, e pen­sa all’in­dif­fe­ren­za di un mon­do che la­scia che due ra­gaz­zi ven­ga­no ra­pi­ti e tor­tu­ra­ti sen­za fa­re nul­la per sal­var­li. Vor­reb­be ur­la­re an­che lui ades­so, pro­prio co­me An­na: sdra­iar­si a ter­ra, chiu­de­re gli oc­chi e aspet­ta­re che il ca­mion dei ri­fiu­ti li rac­col­ga.

    Av­ver­te un im­prov­vi­so ca­lo­re al to­ra­ce, un bru­cio­re che di­vam­pa co­me un in­cen­dio mo­le­sto e gli ar­ri­va al­la go­la. An­si­ma e si pie­ga in avan­ti. Il suo cor­po è scos­so da un tre­mi­to vio­len­to. Ha un co­na­to di vo­mi­to e spu­ta un get­to di san­gue. Gli si an­neb­bia la vi­sta men­tre ten­ta di so­ste­ner­si con le ma­ni sull’asfal­to su­di­cio. Sua so­rel­la non ha al­cu­na rea­zio­ne, non lo guar­da nep­pu­re, fis­sa un pun­to di fron­te a lei, ma al­me­no ha smes­so di la­men­tar­si.

    John si pu­li­sce la boc­ca e an­si­ma avi­da­men­te, co­me se l’aria che re­spi­ra non aves­se ab­ba­stan­za os­si­ge­no per i suoi pol­mo­ni. Si ren­de con­to di ave­re sfrut­ta­to trop­po il suo po­te­re di te­le­ci­ne­si e che han­no en­tram­bi il di­spe­ra­to bi­so­gno di un ri­fu­gio, al­me­no per po­che ore.

    Sa do­ve si tro­va­no. Nel pa­ni­co, po­co pri­ma, ha vi­sua­liz­za­to l’ospe­da­le in cui era sta­to ri­co­ve­ra­to da pic­co­lo a New York, quan­do si era rot­to una ca­vi­glia. Un ri­cor­do emer­so di pre­po­ten­za: una finestra che si è spalancata solo per un istante sulle neb­bie del suo pas­sa­to per poi richiudersi bruscamente, non lasciando altro che vuote domande. Si al­za a fa­ti­ca e fa sol­le­va­re an­che An­na. La pren­de per ma­no e lei, do­cil­men­te, lo se­gue.

    Quan­do sbu­ca­no dal vi­co­lo, la sa­go­ma bian­ca dell’ospe­da­le cam­peg­gia die­tro al­cu­ni bas­si edi­fi­ci. Qual­che pas­san­te si gi­ra a guar­dar­li men­tre at­tra­ver­sa­no la stra­da. John si ti­ra il cap­puc­cio del­la fel­pa sul vol­to e fa lo stes­so con il giac­chi­no di An­na. Sa di ri­schia­re a cam­mi­na­re in pie­no cen­tro cit­ta­di­no, sot­to le te­le­ca­me­re pub­bli­che, ma non ha scel­ta. Di cer­to, le lo­ro fo­to se­gna­le­ti­che so­no già sta­te tra­smes­se a ogni sta­zio­ne di Po­li­zia del Pae­se, ma spe­ra che ri­man­ga­no im­pi­la­te sot­to le al­tre cen­ti­na­ia di mi­glia­ia di se­gna­la­zio­ni di mi­no­ri scom­par­si, che riem­pio­no gli ar­chi­vi dei ser­vi­zi pub­bli­ci. Del re­sto, non ci so­no mol­te so­lu­zio­ni. 

    En­tra­no nell’hall dell’ospe­da­le, su­pe­ran­do ra­pi­di il ban­co del­le in­for­ma­zio­ni, e si di­ri­go­no con si­cu­rez­za ai re­par­ti. John spe­ra che, ve­den­do­li co­sì spe­di­ti, nes­su­no li fer­mi.

    Sfrut­ta nuo­va­men­te il suo po­te­re, que­sta vol­ta vi­sua­liz­zan­do una map­pa pre­ci­sa dell’ospe­da­le. In­di­vi­dua una zo­na che non è fre­quen­ta­ta in quel mo­men­to, do­ve so­no di­slo­ca­ti gli spor­tel­li per le pre­no­ta­zio­ni del­le vi­si­te, il ri­la­scio del­le car­tel­le cli­ni­che e gli uf­fi­ci di as­si­sten­za so­cia­le, che ora so­no de­ser­ti per­ché aper­ti so­lo al mat­ti­no. Si sie­do­no in una pic­co­la sa­la d’at­te­sa per ri­pren­de­re fia­to. An­na lo se­gue sen­za di­re una pa­ro­la. John si rial­za do­po qual­che se­con­do e l’ac­com­pa­gna in ba­gno. I lo­ca­li so­no pu­li­tis­si­mi, per­ché gli in­ser­vien­ti so­no ap­pe­na pas­sa­ti. Guar­da l’ora: so­no le set­te di se­ra.

    An­na sbri­ga le sue ne­ces­si­tà ra­pi­da­men­te, in si­len­zio. Si la­va le ma­ni e sosta nell’atrio, im­mo­bi­le, guar­dan­do nel vuo­to. An­che John è riu­sci­to nel frat­tem­po a rin­fre­scar­si; quei po­chi istan­ti di quie­te so­no vi­ta­li per lui.

    Esce rapido, ri­pren­den­do sua so­rel­la per ma­no. La con­du­ce in una sa­let­ta co­mu­ne per il per­so­na­le sa­ni­ta­rio, che nel frat­tem­po ha in­di­vi­dua­to lì vi­ci­no, do­ve c’è un an­go­lo cu­ci­na, un ba­gno con doc­cia e un vec­chio di­va­net­to a due po­sti. La por­ta di ac­ces­so è ov­via­men­te chiu­sa a chia­ve, e John non ha al­cun pro­ble­ma a var­car­la.

    Si­ste­ma An­na sul di­va­no, la co­pre con al­cu­ni asciu­ga­ma­ni che ha tro­va­to in un ar­ma­diet­to. Pren­de an­che una giac­ca, che qual­cu­no vi ha la­scia­to ap­pe­sa, e glie­la met­te sul­le spal­le... tre­ma­va fi­no a po­co pri­ma, nonostante gli strati di vestiti rubati che indossa. L’ab­brac­cia stretta, cer­can­do di tra­smet­ter­le tut­to il ca­lo­re re­si­duo che ri­ma­ne nel suo cor­po. Han­no per­so tut­to nel­la fu­ga: il lo­ro zai­no con i vi­ve­ri e i sol­di. John si chie­de stor­di­ta­men­te co­me fa­ran­no ora. Che ne sa­rà di lo­ro.

    An­na smet­te di tre­ma­re e il suo re­spi­ro si fa pe­san­te. Le ri­ma­ne vi­ci­no fin­ché non è si­cu­ro che stia dor­men­do pro­fon­da­men­te. Poi si sfi­la pia­no e va in ba­gno a far­si una doc­cia cal­da. Il suo cor­po avan­za scric­chio­lan­do co­me un oro­lo­gio rot­to, pro­va do­lo­re ovun­que. Per­si­no il con­tat­to dell’ac­qua sul­la pel­le gli fa ma­le. Ma si ob­bli­ga a la­var­si. E men­tre l’ac­qua e il sa­po­ne sci­vo­la­no via, spe­ra che si por­ti­no die­tro an­che tut­ta la spor­ci­zia con cui è sta­ta im­brat­ta­ta la sua vi­ta.

    Va al cu­ci­ni­no e sco­pre una pic­co­la di­spen­sa for­ni­ta di crac­ker e bar­ret­te al cioc­co­la­to, ci so­no be­van­de al­la frut­ta e per­fi­no del­la car­ne in sca­to­la.

    Al­le­sti­sce una pic­co­la ce­na e sve­glia An­na, cer­can­do di far­la man­gia­re. La pic­co­la non si muo­ve e John è co­stret­to a im­boc­car­la, ma per­lo­me­no in­ge­ri­sce. Do­po il pa­sto la por­ta in ba­gno, l’aiu­ta sgro­vi­glia­re i ca­pel­li e la­var­si il vi­so, quin­di la riac­com­pa­gna al di­va­no te­nen­do­la fra le brac­cia e cul­lan­do­la un po'. – Sei al si­cu­ro, ades­so. Non per­met­te­rò a nes­su­no di far­ti del ma­le. – Non sa co­sa fa­re per spez­za­re il suo si­len­zio. – Ti pre­go, An­na, par­la­mi, – sus­sur­ra, sen­ten­do­si im­po­ten­te di fron­te a quel do­lo­re mu­to. La­cri­me gli sgor­ga­no da­gli oc­chi, aci­de e ama­re. Pian­ge sen­za fa­re ru­mo­re, per An­na, per se stes­so, per l’in­fan­zia che è sta­ta ru­ba­ta a en­tram­bi.

    Si ad­dor­men­ta sfi­ni­to, re­spi­ran­do il pro­fu­mo dei suoi ca­pel­li.

    004

    – Ehi, ra­gaz­zi­no, che ci fai qui?!

    Il son­no gli vie­ne sot­trat­to bru­sca­men­te. La don­na che ha di fron­te lo sta guar­dan­do con pi­glio stu­pi­to e se­ve­ro. In­dos­sa la di­vi­sa da in­fer­mie­ra. Al suo fian­co, la for­te lu­ce del mat­ti­no fil­tra dal­le ve­ne­zia­ne del­la fi­ne­stra.

    John si guar­da at­tor­no e non ve­de An­na. Bal­za in pie­di, igno­ran­do le do­man­de del­la don­na, bar­col­la, va nel ba­gno, tor­na in­die­tro. Si pre­ci­pi­ta fuo­ri e scru­ta i cor­ri­doi, ma sa già la ri­spo­sta: An­na è spa­ri­ta. Qual­cu­no de­ve ave­re sbloc­ca­to la ser­ra­tu­ra, sen­za pe­rò en­tra­re, per­met­ten­do­le di sgat­ta­io­la­re fuo­ri in­di­stur­ba­ta. L’in­fer­mie­ra esce dal­la sa­let­ta e gli di­ce qual­co­sa, ma lui non l’ascol­ta. Si lan­cia lun­go il cor­ri­do­io e spa­ri­sce dal­la sua vi­sta.

    Si fer­ma, na­scon­den­do­si in un ri­po­sti­glio ri­ma­sto aper­to; il cuo­re gli per­fo­ra fe­ro­ce­men­te il pet­to. Co­me ha po­tu­to, si chie­de, co­me ha fat­to a non ac­cor­ger­si che An­na si era al­lon­ta­na­ta? E per qua­le mo­ti­vo ades­so non la sen­te?

    Pre­me i pu­gni sul­la fron­te per fa­re tor­na­re a fuo­co la vi­sta. Un ge­mi­to rau­co fuo­rie­sce dal­le sue lab­bra. Gli tre­ma­no le gam­be e de­ve reg­ger­si al­la pa­re­te per non crol­la­re a ter­ra. – An­na, – le sue lab­bra si muo­vo­no in si­len­zio, – do­ve sei?

    Si sin­to­niz­za sulla pul­sa­zio­ne car­dia­ca di ogni es­se­re vi­ven­te all’in­ter­no dell’ospe­da­le. Sa­ran­no un mi­glia­io di per­so­ne, tra pa­zien­ti, vi­si­ta­to­ri e per­so­na­le sa­ni­ta­rio. E cer­ca, cer­ca di­spe­ra­ta­men­te.

    Al­la fi­ne lo tro­va, il bat­ti­to in­con­fon­di­bi­le: quel pro­fu­mo del­la men­te che è co­sì si­mi­le al suo. L’ag­gan­cio è co­sì de­fi­ni­ti­vo e to­ta­le, che non può fa­re a me­no di met­ter­si a cor­re­re co­me un paz­zo per cor­ri­doi e sa­lo­ni, bar­col­lan­do e ur­tan­do chiunque incontri. Quan­do la rag­giun­ge, il suo cuo­re per­de un bat­ti­to.

    An­na è nell’hall dell’in­gres­so prin­ci­pa­le, in pie­di, ac­can­to a un uo­mo e una don­na. I due stan­no di­scu­ten­do. La don­na in­dos­sa un ca­mi­ce bian­co da me­di­co e sta di­cen­do che An­na sem­bra in sta­to di shock e che vor­reb­be vi­si­tar­la. L’uo­mo è un po­li­ziot­to e sta ri­spon­den­do che pri­ma do­vrà por­tar­la al­la Cen­tra­le per l’iden­ti­fi­ca­zio­ne; la tie­ne per ma­no e so­vra­sta su di lei co­me un grizz­ly su una mar­ghe­ri­ta. An­na ri­ma­ne as­sen­te. Non pian­ge, non pro­te­sta. Non cer­ca di scap­pa­re.

    – An­na! – John si ri­tro­va a gri­da­re il suo no­me pri­ma an­co­ra di ca­pi­re co­sa voglia fa­re, l’istin­to lo con­du­ce in avan­ti e si get­ta su di lei in un ab­brac­cio con­vul­so. Il po­li­ziot­to lo respin­ge in­die­tro: – Chi sei, ra­gaz­zi­no?

    – So­no suo fra­tel­lo! An­na, per­ché te ne sei an­da­ta? Ti ho cer­ca­ta dap­per­tut­to! Mi hai fat­to pre­oc­cu­pa­re. – John non si ren­de con­to di quan­to gli stia tre­man­do la vo­ce, se non quando intercetta ­lo sguar­do per­ples­so che gli lan­cia­no i due adul­ti. Ve­de se stes­so at­tra­ver­so i lo­ro oc­chi e ca­pi­sce che stan­no traen­do del­le con­clu­sio­ni sba­glia­te.

    – Tua so­rel­la non sta be­ne, te ne sei ac­cor­to? È ca­ta­to­ni­ca, sem­bra sot­to shock.

    John la strap­pa let­te­ral­men­te dal­le ma­ni del po­li­ziot­to e la cir­con­da protettivo fra le brac­cia. – Sof­fre di au­ti­smo, – replica, di­cen­do la pri­ma co­sa che il suo cer­vel­lo esau­ri­to rie­sce a in­ven­ta­re.

    – Beh, sta­va gi­ron­zo­lan­do sen­za me­ta per l’ospe­da­le, l’han­no tro­va­ta die­tro al ban­co del bar all’in­gres­so, che sgra­noc­chia­va un pac­chet­to di pa­ta­ti­ne tra­fu­ga­to da­gli espo­si­to­ri, e me l’han­no por­ta­ta, – spie­ga la dot­to­res­sa. – Mi oc­cu­po di pe­dia­tria ma non so­no una ba­by­sit­ter, l’as­si­sten­te so­cia­le og­gi è in per­mes­so e quin­di ho chia­ma­to la si­cu­rez­za. – Sem­bra giu­sti­fi­car­si di fron­te al­lo sguar­do di John.

    – Do­ve so­no i vo­stri ge­ni­to­ri? – chie­de il po­li­ziot­to in mo­do bru­sco. 

    John cer­ca di ri­flet­te­re, il suo cer­vel­lo gi­ra a vuo­to per qual­che se­con­do. Sen­te che sta per sve­ni­re e bar­col­la vi­sto­sa­men­te. – I no­stri ge­ni­to­ri… so­no in vi­si­ta a dei pa­ren­ti qui in ospe­da­le, – rie­sce a bia­sci­ca­re. Il po­li­ziot­to non se la be­ve, as­sot­ti­glia gli oc­chi e di­ce: – Be­ne, al­lo­ra por­ta­mi da lo­ro che gli de­vo par­la­re.

    – Ci han­no det­to di aspet­tar­li qui, – esa­la di­spe­ra­ta­men­te.

    – Al­lo­ra tu dov’eri an­da­to? Per­ché hai la­scia­to da so­la tua so­rel­la?

    John in­ter­cet­ta lo sguar­do del­la dot­to­res­sa, che ha ca­pi­to, de­ve ave­re ca­pi­to che lui è nei guai, nei guai se­ri, e sta ten­tan­do di ar­ram­pi­car­si su­gli spec­chi. Gli lan­cia un’oc­chia­ta pie­na di pie­tà. For­se pen­sa che sia fug­gi­to di ca­sa, o peg­gio.

    Pri­ma che John ri­spon­da, il po­li­ziot­to af­fer­ra An­na per una spal­la e, strat­to­nan­do­la, glie­la sfi­la dal­le brac­cia. – Sai co­sa pen­so? Pen­so che tu stia di­cen­do un muc­chio di bu­gie, ma­ga­ri que­sta bam­bi­na non è nem­me­no tua so­rel­la, ma­ga­ri sei sta­to tu a far­le del ma­le. Sem­bra dro­ga­to, – fa ri­vol­gen­do­si al­la dot­to­res­sa, – no­ta le pu­pil­le di­la­ta­te? Ades­so an­dia­mo tut­ti in­sie­me al­la Cen­tra­le di Po­li­zia e co­sì chia­ria­mo tut­to.

    John ha so­lo un fia­to in cor­po ri­ma­sto, uno so­lo, e lo fa esplo­de­re in un no, co­sì sec­co e de­ci­so da fa­re in­cri­na­re la per­fet­ta si­cu­rez­za del po­li­ziot­to. Al­lun­ga una ma­no e An­na l’af­fer­ra di cor­sa tor­nan­do al suo fian­co. Non lo guar­da, non ha al­tra rea­zio­ne, ma gli re­sta vi­ci­na.

    John è con­sa­pe­vo­le che in quel mo­men­to si tro­va cir­con­da­to da de­ci­ne di per­so­ne, ri­pre­so da te­le­ca­me­re di sor­ve­glian­za, e si tro­va da­van­ti a un po­li­ziot­to che po­trà iden­ti­fi­car­lo in fu­tu­ro, co­sì co­me de­scri­ve­re ogni sua azio­ne di quel gior­no. Sa an­che che, tra po­chi se­con­di, crol­le­rà esa­ni­me sul pa­vi­men­to, la­scian­do en­tram­bi nel­le ma­ni de­gli agen­ti del La­bo­ra­to­rio. Di nuo­vo. Per chis­sà quan­ti an­ni an­co­ra. For­se per sem­pre. Ed è un’op­zio­ne in­so­ste­ni­bi­le. Per­ciò, con tut­ta la for­za che gli è ri­ma­sta, ag­gan­cia An­na co­me un ma­gne­te e pro­iet­ta i lo­ro cor­pi il più lon­ta­no pos­si­bi­le da lì.

    Scom­pa­io­no nel nul­la di fron­te al­lo stu­po­re ge­ne­ra­le.

    005

    Riap­pa­io­no in una zona boschiva, accanto a una cascata circondata da grandi rocce scure. John si sen­te ca­de­re e af­fon­da­re in qual­co­sa di ge­li­do e sof­fi­ce. Non rie­sce a muo­ver­si, non rie­sce a rial­zar­si. C’è ne­ve ovun­que in­tor­no a lui. Sa­rà al­ta oltre mez­zo me­tro. Chia­ma An­na e sen­te uno scal­pic­cio fa­ti­co­so, poi ve­de il suo vi­set­to sbu­ca­re dall’al­to. Il suo sguar­do è sem­pre ve­la­to. Di­stan­te. – An­na… – so­spi­ra rau­co. Cer­ca di far­si for­za sui go­mi­ti, si gi­ra un po­co per pun­ta­re le gam­be e fa­re le­va, ma un tre­mi­to con­vul­so lo scuo­te, tos­si­sce vio­len­te­men­te e vo­mi­ta san­gue. Ri­ca­de all’in­die­tro, ran­to­lan­do stre­ma­to. Sen­te il mon­do vor­ti­ca­re im­paz­zi­to in­tor­no a lui e gli vie­ne di nuo­vo da vo­mi­ta­re. Ha un sin­gul­to e dell’al­tro san­gue gli co­la dal­le lab­bra esan­gui. – An­na… – or­mai la sua vo­ce è lie­ve co­me un so­spi­ro.

    La bam­bi­na sus­sul­ta e lo guar­da ne­gli oc­chi. Si met­te a sca­va­re la ne­ve con le ma­ni, a ge­sti for­ti e ve­lo­ci, sca­va e spo­sta muc­chiet­ti di ne­ve fre­sca fin­ché non rie­sce ad ar­ri­var­gli a fian­co, poi co­min­cia a sol­le­var­gli la te­sta, pun­ta i pie­di­ni a ter­ra e spin­ge da die­tro, sul­la schie­na, per far­lo rad­driz­za­re. John on­deg­gia a vuo­to per qual­che istan­te, quindi rie­sce a tro­va­re la for­za di muo­ver­si da so­lo. Si rial­za con enor­me fa­ti­ca, ap­pog­gian­do­si al cor­po del­la so­rel­la, che lo sor­reg­ge con tut­ta la for­za che può ave­re una bam­bi­na di ot­to an­ni.

    John non ve­de chia­ra­men­te, ha la vi­sta an­neb­bia­ta. Mappa la zona con la mente, percepisce un sentiero di alcuni chilometri e una zona residenziale più lontano. 

    Sta ne­vi­can­do ed è pri­mo po­me­rig­gio. De­vo­no raggiungere il cen­tro abi­ta­to pri­ma di se­ra, al­tri­men­ti, stan­chi co­me so­no, mo­ri­ran­no con­ge­la­ti. Ap­pog­gia una ma­no sul­la spal­la di sua so­rel­la, men­tre con l’al­tra le ag­giu­sta il giac­chet­to. Si spo­glia del suo e, no­no­stan­te sia ba­gna­to fra­di­cio, glie­lo av­vol­ge al­le spal­le. – Me­glio di nien­te, – mor­mo­ra.

    An­na non ri­spon­de, ma pie­ga la boc­ca in un sor­ri­so che gli ri­scal­da il cuo­re. Pro­se­guo­no in­ce­spi­can­do, reg­gen­do­si l’uno all’al­tra, e rie­sco­no ad ar­ri­va­re pri­ma che sia not­te. Quel­la se­ra tro­va­no ri­pa­ro nel ga­ra­ge di una vil­let­ta con giar­di­no. John ro­vi­na nel son­no co­me fos­se mor­to. Ma si ri­sve­glia ab­ba­stan­za ri­po­sa­to per ri­pren­de­re il cam­mi­no.

    Nei gior­ni suc­ces­si­vi pas­sa­no da una ca­sa all’al­tra, sac­cheg­gian­do all’oc­cor­ren­za vi­ve­ri, sol­di e ve­stia­rio. Evi­ta­no le stra­de trop­po fre­quen­ta­te e i po­sti pub­bli­ci co­me bar, ne­go­zi e dor­mi­to­ri. John ha per­so il con­to di quan­ti chi­lo­me­tri ab­bia­no fat­to a pie­di da quan­do so­no scap­pa­ti. Or­mai avan­za co­me un au­to­ma: un pas­so da­van­ti all’al­tro.

    La vi­sta gli è peg­gio­ra­ta e ora si af­fi­da ad An­na per di­ver­se co­se. Sua so­rel­la non ha an­co­ra ri­pre­so a par­la­re, ma è de­ci­sa­men­te più reat­ti­va. Ca­pi­sce e lo aiu­ta quan­do ce n’è bi­so­gno. Si chie­de stor­di­ta­men­te come abbiano fatto a sopravvivere a quell'ultimo salto, perché a guidarlo non è stato altro che il fotogramma confuso di un sogno fatto la sera prima: una bambina che lascia la sua mano per correre verso un uomo voltato di spalle, affiancato da una cascata. Una bambina che somiglia a sua sorella. Un uomo che non conosce. Una cascata che scopre esistere davvero e trovarsi in Canada, dove lui non è mai stato... Spe­ra di non ave­re con­dan­na­to en­tram­bi a cau­sa del suo istinto. 

    Se non altro è certo che quel­lo sia l’ul­ti­mo luo­go do­ve gli agenti del Laboratorio po­treb­be­ro cer­car­li.

    La ne­ve con­ti­nua a ca­de­re da gior­ni, e da gior­ni con­ti­nua­no a cam­mi­na­re, at­tra­ver­san­do una cit­ta­di­na do­po l’al­tra. È il pe­rio­do na­ta­li­zio e ogni ca­sa è ad­dob­ba­ta da qual­che lu­ci­na o fe­sto­ne. An­na co­min­cia a star­nu­ti­re. Le co­la il na­so, si è pre­sa un brut­to raf­fred­do­re. È co­sì ma­gra che i pan­ta­lo­ni le so­no di­ven­ta­ti lar­ghi e de­ve ti­rar­li su in con­ti­nua­zio­ne.

    John la pren­de in brac­cio e la tra­spor­ta per un pa­io di chi­lo­me­tri, vuo­le rag­giun­ge­re una far­ma­cia, aspet­ta­re il tur­no di chiu­su­ra e pren­de­re le me­di­ci­ne, ma­ga­ri bi­vac­can­do­ci per la not­te. Ma il suo pia­no sva­ni­sce co­me una bol­la di sa­po­ne, per­ché all’im­prov­vi­so gli ce­do­no le gam­be ed en­tram­bi ruz­zo­la­no gof­fa­men­te a terra. Si por­ta una ma­no al to­ra­ce e vo­mi­ta san­gue. Ca­de di fian­co, in­ca­pa­ce di spo­star­si anche di un so­lo mil­li­me­tro.

    An­na gli si fa vi­ci­na, lo scuo­te, ag­grap­pan­do­si al suo giac­co­ne. Per la pri­ma vol­ta da gior­ni, lo chia­ma per no­me. Ap­pa­re tur­ba­ta, per­ché John non rea­gi­sce su­bi­to. È con­fu­so, stor­di­to. Per al­cu­ni mi­nu­ti non ca­pi­sce do­ve si tro­va. Si rial­za, co­me sem­pre, per lei. Per non ab­ban­do­nar­la, per dar­le spe­ran­za. Ma si sen­te co­me un pu­paz­zo di strac­ci: non c’è più nien­te di so­li­do den­tro di lui. Lan­cia uno sguar­do a sua so­rel­la e no­ta che sta fis­san­do, as­sor­ta, una vil­let­ta il­lu­mi­na­ta da tan­te pic­co­le lu­ci­ne na­ta­li­zie. Dal­le fi­ne­stre si in­trav­ve­do­no per­so­ne all’in­ter­no che ri­do­no e can­ta­no. E ne sem­bra at­trat­ta.

    John de­ci­de di ri­schia­re. Non ce la fa più e, se use­rà un’al­tra vol­ta il suo po­te­re, cre­de che mo­ri­rà. Pren­de An­na per ma­no e la conduce sul­la so­glia. Bus­sa al­la por­ta; col­pi­sce più vol­te per­ché il fra­stuo­no all’in­ter­no so­vra­sta il suo­no del suo bus­sa­re. 

    Quan­do la por­ta si apre, un fiot­to di lu­ce e ca­lo­re lo stor­di­sco­no per un istan­te. C’è un uo­mo sul­la so­glia. È al­to e atle­ti­co, sul­la tren­ti­na. Ab­brac­cia John e An­na con un’uni­ca oc­chia­ta. Ha un’espres­sio­ne aper­ta, gio­via­le e ri­las­sa­ta, co­me di una per­so­na pron­ta al sor­ri­so. – Sì?

    John non par­la da gior­ni e ha il to­ra­ce in fiam­me. Cer­ca di di­re qual­co­sa, ma de­ve schia­rir­si la vo­ce per riu­sci­re a ti­ra­re fuo­ri un suo­no. Stra­na­men­te l’uo­mo non l’in­cal­za, at­ten­de con pa­zien­za che lui par­li. – Sia­mo… sia­mo ri­ma­sti fuo­ri, io e mia so­rel­la, un im­pre­vi­sto… non sap­pia­mo do­ve an­da­re.

    – È uno scher­zo? – John no­ta che l’uo­mo au­men­ta la pre­sa sul­la por­ta e sem­bra ab­bia vo­glia di chiu­der­la. Qual­cu­no lo chia­ma dal sa­lot­to. – Ro­bert, al­lo­ra vie­ni? Ci so­no da apri­re i re­ga­li!

    John sol­le­va en­tram­be le ma­ni tre­man­do, non sa co­sa di­re, non ha nem­me­no una sto­ria pron­ta per giu­sti­fi­ca­re la lo­ro pre­sen­za a quell’ora tar­da, e non si sen­te in gra­do di in­ven­tar­ne una sul mo­men­to. Ha pau­ra, una ter­ri­bi­le pau­ra che quel­la por­ta si chiu­da, per­ché non ha dav­ve­ro più nes­su­na for­za den­tro di sé, né fi­si­ca né mo­ra­le, per tra­sci­na­re se stes­so e sua so­rel­la da qual­che al­tra par­te, per pro­teg­ger­la e ga­ran­tir­le un po­sto cal­do do­ve sta­re per la not­te. Se quel­la por­ta si chiu­de, An­na mo­ri­rà, e lui non lo può per­met­te­re. – No, la pre­go… al­me­no mia so­rel­la… cre­do ab­bia l’in­fluen­za, se può ac­co­glier­la, so­lo per que­sta not­te. Io re­ste­rò fuo­ri, non le da­rò fa­sti­dio.

    Spin­ge de­li­ca­ta­men­te An­na in avan­ti, consapevole che, co­sì fa­cen­do, si con­dan­na a mor­te da so­lo per­ché, non ap­pe­na l’uo­mo l’ac­co­glie­rà in ca­sa, lui crol­le­rà a ter­ra sul­la ne­ve. – An­na, que­sto si­gno­re ti fa­rà dor­mi­re al cal­do. Non pre­oc­cu­par­ti.

    Fa per an­dar­se­ne, ma l’uo­mo lo bloc­ca: – Un mo­men­to!

    John si gi­ra a guar­dar­lo. L’uo­mo lo fis­sa a lun­go e con ci­pi­glio. I suoi oc­chi so­no co­me car­bo­nel­le: ne­ri ma cal­di. Sbatte gli occhi un momento, pensando che possa trattarsi dell'uomo voltato di spalle del suo sogno, ma la sensazione che proviene da lui non è affatto la stessa.

    – Co­me ti chia­mi?

    – John.

    – So­lo John?

    – Sì.

    – Va be­ne. E tua so­rel­la si chia­ma An­na, giu­sto? – Si ri­vol­ge a lei, ma la pic­co­la evi­ta il suo sguar­do e si strin­ge al fratello, in­ve­ce.

    – Ha la feb­bre?

    John scuo­te la te­sta, non lo sa.

    – Quan­ti an­ni hai?

    – Tre­di­ci… cre­do.

    L’uo­mo la­scia la por­ta aper­ta e fa un pas­so ver­so di lo­ro, si chi­na e cau­ta­men­te, con una de­li­ca­tez­za qua­si inu­ma­na, sfio­ra la fron­te di An­na, – Uhm, sem­bra ab­bia so­lo un po' di al­te­ra­zio­ne. Ve­ni­te den­tro, che qui si ge­la! – Ri­pe­te poi lo stes­so in­vi­to, no­tan­do la lo­ro esi­ta­zio­ne.

    Quan­do John var­ca la so­glia vie­ne av­vol­to da un’on­da­ta di ca­lo­re co­sì in­ten­so da fargli girare la te­sta. Ri­ma­ne nell’atrio pa­ra­liz­za­to, co­me un le­prot­to ab­ba­glia­to dai fa­ri di un’au­to. Per­ché quel­la ca­sa, se era bel­la all’ester­no, den­tro sem­bra dav­ve­ro es­se­re usci­ta da una fia­ba. Sul­la si­ni­stra scor­ge una cu­ci­na, men­tre a de­stra l’in­gres­so si apre in un gran­de sa­lot­to ar­re­da­to in to­ni cal­di: le pa­re­ti a pan­nel­li di le­gno, il pa­vi­men­to ru­sti­co, gli ad­dob­bi na­ta­li­zi, il ca­mi­net­to ac­ce­so. Ci so­no pol­tro­ne e cu­sci­ni ovun­que.

    L’uo­mo di no­me Ro­bert in­ter­cet­ta il suo stu­po­re e lo spin­ge dol­ce­men­te in avan­ti. Lo ste­reo è ac­ce­so e dif­fon­de vec­chie stren­ne na­ta­li­zie, il te­le­vi­so­re man­da avan­ti un vi­deo con le pa­ro­le del­le can­zo­ni. Cin­que per­so­ne, con in ma­no mi­cro­fo­ni da ka­rao­ke, si gi­ra­no ver­so di lo­ro in­cu­rio­si­te e for­se leg­ger­men­te sec­ca­te da quell’in­ter­ru­zio­ne. Ca­la un si­len­zio sor­pre­so.

    John si ren­de con­to che stan­no sgoc­cio­lan­do sul pa­vi­men­to, ba­gna­ti e spor­chi co­me ca­gno­li­ni ran­da­gi. E che la lo­ro pre­sen­za ri­suo­na in quell’am­bien­te co­me una no­ta sto­na­ta. 

    Una dei pre­sen­ti, una don­na dall’aria si­cu­ra, di­ce in to­no dif­fi­den­te:  – Bob, chi so­no que­sti ra­gaz­zi?

    L’uo­mo esi­bi­sce un lar­go sor­ri­so, men­tre cir­con­da le spal­le di John con un brac­cio. – Ah, non ve l’ave­vo det­to? Me ne so­no scor­da­to. So­no i fi­gli di un mio lon­ta­no cu­gi­no. Do­ve­va­no ar­ri­va­re in que­sti gior­ni, ma non sa­pe­vo la da­ta pre­ci­sa. Han­no per­so la coin­ci­den­za dell’au­to­bus e si so­no do­vu­ti ar­ran­gia­re a ve­ni­re a pie­di.

    La don­na strin­ge gli oc­chi. – Do­ve so­no i lo­ro ba­ga­gli, Bob? Ti aiu­to a por­tar­li den­tro.

    – Non ser­ve, li han­no la­scia­ti al­la sta­zio­ne, an­drò a re­cu­pe­rar­li do­ma­ni mat­ti­na. So­no stan­chi mor­ti, li por­to a dor­mi­re e tor­no da voi, in­tan­to con­ti­nua­te. Di­ver­ti­te­vi.

    Men­tre gli ospi­ti ri­pren­do­no a can­ta­re, l’uo­mo ac­com­pa­gna John e An­na al pia­no di so­pra, do­ve un lun­go cor­ri­do­io si apre su di­ver­se stan­ze. Li fa en­tra­re nel­la pri­ma ca­me­ra a de­stra.

    Quan­do ac­cen­de la lu­ce, John sen­te su­bi­to un for­te odo­re di chiu­so. Ci so­no un pa­io di cas­set­to­ni a si­ni­stra e, di fron­te a es­si, un let­to ma­tri­mo­nia­le; sul fon­do, una gran­de fi­ne­stra con i bat­ten­ti chiu­si e sul­la de­stra una por­ta che con­du­ce a un ba­gnet­to pri­va­to.

    – Mi di­spia­ce per la si­ste­ma­zio­ne, que­sta do­vreb­be es­se­re la stan­za de­gli ospi­ti ma, co­me ben ca­pi­te, non ne ho mol­ti di so­li­to. – Si di­ri­ge ver­so i ter­mo­si­fo­ni e gi­ra le ma­no­po­le per ac­cen­der­li, poi apre i cas­set­to­ni e ti­ra fuo­ri len­zuo­la e co­per­te pu­li­te. Pren­de an­che al­cu­ni asciu­ga­ma­ni e ap­pog­gia tut­to sul co­pri­let­to a fio­ri gial­li. – La stan­za si ri­scal­de­rà su­bi­to, non te­me­te. Nel frat­tem­po met­te­te­vi co­mo­di, usa­te tran­quil­la­men­te il ba­gno. Tor­no fra po­co.

    Non aspet­ta la lo­ro ri­spo­sta. Non chie­de nul­la. John è stor­di­to, non sa co­me pren­de­re que­sta ac­co­glien­za. Non sa se quell’uo­mo sia an­da­to a te­le­fo­na­re al­la po­li­zia per de­nun­ciar­li. Ma or­mai non ha più la for­za di rea­gi­re. Va in ba­gno, dà una rin­fre­sca­ta ai sa­ni­ta­ri e riem­pie di ac­qua cal­da la va­sca, poi in­vi­ta An­na a en­tra­re, in­di­can­do­le do­ve sia il sa­po­ne. Soc­chiu­de la por­ta tor­nan­do nel­la camera e si ap­pre­sta a fa­re il let­to.

    L’uo­mo tor­na con le brac­cia ri­col­me di ve­stia­rio e lo ap­pog­gia sui cas­set­to­ni. Al­lo sguar­do di John ri­spon­de: – Sie­te ba­gna­ti fra­di­ci, fin­ché non si asciu­ga­no i vo­stri ve­sti­ti vi pre­sto i miei, non è mol­to, ma qual­co­sa do­vreb­be an­dar­vi be­ne, cer­to la bam­bi­na do­vrà adat­tar­si.

    – Gra­zie, – di­ce in un sus­sur­ro.

    L’uo­mo lo fis­sa di nuo­vo. Sem­bra stia per di­re qual­co­sa, ma si trat­tie­ne. La sua boc­ca si apre in un sor­ri­so: – Vi por­to qual­co­sa da man­gia­re, poi vi la­scio in pa­ce.

    An­na ter­mi­na di fa­re il ba­gno, John le fa in­dos­sa­re una ca­not­tie­ra da uo­mo a ma­ni­che lun­ghe e un ma­glio­ne che le fa da ve­sti­to. La sten­de a let­to e le in­fi­la due cal­zet­to­ni che le ar­ri­va­no al­le gi­noc­chia. La co­pre e le ac­ca­rez­za la fron­te. Ha le guan­ce ar­ros­sa­te e un de­bo­le sor­ri­so le in­cor­ni­cia il vol­to di por­cel­la­na. John si china ad appoggiarle un ba­cio sul­la fron­te.

    L’uo­mo ar­ri­va in quel mo­men­to, regge un vas­so­io con una broc­ca di lat­te cal­do e due piat­ti con pa­ne fat­to in ca­sa, pa­stic­cio di car­ne, for­mag­gio e ver­du­re al­la gri­glia. C’è an­che una sca­to­let­ta co­lo­ra­ta, che por­ge a John. – Que­sto è un leg­ge­ro an­ti­pi­re­ti­co, – spiega, – dal­le mez­za pa­sti­glia, do­vreb­be ba­sta­re per un’in­fred­da­tu­ra. A sto­ma­co pie­no, mi rac­co­man­do. Ades­so tor­no giù dai miei ami­ci, – dice, – ma se ti ser­ve qual­co­sa, qual­sia­si co­sa, non far­ti pro­ble­mi a chie­de­re. – Fa per an­dar­se­ne ed esi­ta un at­ti­mo, poi aggiunge: – Se ti sen­ti più si­cu­ro, chiu­di pu­re a chia­ve la por­ta, non mi of­fen­do. In fon­do, ti tro­vi a ca­sa di uno sco­no­sciu­to.

    John lo fis­sa con oc­chi a pal­la, è co­me se par­las­se in un’al­tra lin­gua. Non sa co­sa ri­spon­de­re. Non sa co­me com­por­tar­si di fron­te a tan­ta ospi­ta­li­tà. L’uo­mo non at­ten­de una sua rea­zio­ne e, sen­za di­re al­tro, si chiu­de la por­ta al­le spal­le. John lo sen­te scen­de­re le sca­le e unir­si ai suoi ami­ci nei fe­steg­gia­men­ti na­ta­li­zi.

    Fa man­gia­re qual­co­sa ad An­na, che rie­sce a ter­mi­na­re tut­to il pa­stic­cio di car­ne nel suo piat­to e a ber­si un in­te­ro bic­chie­ro­ne di lat­te. La co­pre con le co­per­te e ri­ma­ne con lei fi­no a quan­do non si ad­dor­men­ta. Poi va in ba­gno, si im­mer­ge nell’ac­qua or­mai tie­pi­da e si la­va con cal­ma. De­ci­de di usu­frui­re del ve­stia­rio an­che lui: in­dos­sa un pa­io di pan­ta­lo­ni da tu­ta e una gros­sa fel­pa a col­lo al­to, che de­ve rim­boc­ca­re più vol­te per ag­giu­star­la sul suo cor­po ma­gro.

    Non ha fa­me, an­che se so­no di­ver­si gior­ni che non toc­ca ci­bo. Be­ve so­lo un bic­chie­re di lat­te a lente sorsate, gustandolo come se non ne avesse mai sentito il sapore.

    Il te­po­re del ri­scal­da­men­to, le vo­ci fe­sto­se al pia­no di sot­to, il re­spi­ro ri­las­sa­to di An­na gli re­ga­la­no un istan­te di me­ra­vi­glio­sa se­re­ni­tà. È una sen­sa­zio­ne che non ri­cor­da di ave­re mai pro­va­to. E, an­che se ef­fi­me­ra, cer­ca di trat­te­ner­la.

    Si sie­de sul let­to cer­can­do di ri­cor­da­re se abbia sca­ri­ca­to l’ac­qua del­la va­sca, non vuo­le la­scia­re di­sor­di­ne. Sta per al­zar­si, ma d’un trat­to la te­sta gli si fa in­sop­por­ta­bil­men­te pe­san­te.

    Si sen­te ca­de­re di la­to e spro­fon­da­re su quel­le sof­fi­ci co­per­te, che san­no di te­po­re e naf­ta­li­na.

    006

    Si ri­sve­glia al­la lu­ce del gior­no, che fil­tra pre­po­ten­te dai bat­ten­ti del­la fi­ne­stra. Non tro­va An­na al suo fian­co, ma la per­ce­pi­sce al pia­no di sot­to e si ras­si­cu­ra su­bi­to. Un’al­tra co­sa che lo tran­quil­liz­za è che non c’è al­cu­na au­to del­la po­li­zia nei din­tor­ni. L’uo­mo non li ha tra­di­ti.

    Con­trol­la i suoi ve­sti­ti e, trovandoli asciut­ti, li in­dos­sa; ri­pie­ga gli indumenti prestati, pu­li­sce il ba­gno e ri­fà il let­to. Poi scen­de dab­bas­so.

    Tro­va An­na in­ten­ta a di­vo­ra­re man­cia­te di frit­tel­le al­lo sci­rop­po d’ace­ro. La cu­ci­na è in­va­sa dal profumo di dolci e dal­la lu­ce che i mo­bi­li in le­gno bian­co ri­flet­to­no e ac­cen­tua­no an­co­ra di più. Le pa­re­ti so­no in­cor­ni­cia­te da gran­di fi­ne­stre su due la­ti. C’è un’iso­la al cen­tro, cir­con­da­ta da al­cu­ni sga­bel­li. L’uo­mo sta la­van­do i piat­ti al la­vel­lo, An­na è se­du­ta al suo fian­co, dan­do le spal­le al­la fi­ne­stra. La lu­ce del so­le le av­vol­ge i ca­pel­li ne­ri co­me una ca­rez­za. 

    – Ti sei sve­glia­to.

    – Ho dor­mi­to trop­po?

    – So­lo do­di­ci ore, – risponde l’uo­mo sorridendo. – Ti uni­sci a noi, fai co­la­zio­ne?  

    Ora che John rie­sce a os­ser­var­lo me­glio, no­ta che ha le spal­le lar­ghe e gli oc­chi gran­di e ton­di, si muo­ve in cu­ci­na co­me un gi­gan­te buo­no e un po' im­pac­cia­to. Va verso sua sorella, che è tut­ta in­ten­ta a im­pre­gna­re di sci­rop­po ogni cen­ti­me­tro qua­dro dei suoi pan­ta­lo­ni. Le ac­ca­rez­za i ca­pel­li, chi­nan­do­si a dar­le un ba­cio sul­la te­sta. Le sfio­ra la fron­te, sen­ten­do che è fre­sca co­me una ro­sa. La pic­co­la non di­ce nul­la, ma ap­pog­gia bre­ve­men­te una tem­pia sul suo ma­glio­ne, per poi tor­na­re al­le frit­tel­le di cui si riem­pie la boc­ca.

    L’uo­mo os­ser­va la sce­na sen­za com­men­ta­re. Por­ge a John una taz­za di lat­te cal­do, do­ve ha spruz­za­to del­la cioc­co­la­ta.

    John pren­de la taz­za e l’ap­pog­gia sul ta­vo­lo. – La rin­gra­zio per quan­to ha fat­to per noi, ma ades­so dob­bia­mo an­da­re. An­na, fi­ni­sci di man­gia­re e poi cam­bia­ti. I tuoi ve­sti­ti so­no già asciut­ti in ca­me­ra.

    Lei si af­fret­ta a in­ghiot­ti­re e pren­de un’al­tra frit­tel­la. L’uo­mo fis­sa John per un lun­go istan­te. – Chia­ma­mi Rob, fi­glio­lo. Na­tu­ral­men­te ve ne po­te­te an­da­re quan­do vo­le­te, ma che ne di­ci se la­scia­mo An­na ri­po­sa­re an­co­ra un po­co? Ho del­le vec­chie vi­deo­cas­set­te di car­to­ni ani­ma­ti di là in sa­lot­to. In­tan­to, ma­ga­ri, pos­sia­mo scam­bia­re due pa­ro­le tra uo­mi­ni, ti va?

    Il suo to­no di vo­ce è cal­mo, se­re­no. Nel par­la­re ha con­ti­nua­to a ras­set­ta­re la cu­ci­na co­me nien­te fos­se.

    Al si­len­zio di John, sol­le­va lo sguar­do e spa­lan­ca le lab­bra in un sor­ri­so cal­do e sin­ce­ro. – Dav­ve­ro, ve ne po­te­te an­da­re an­che su­bi­to, se vo­le­te, ma fran­ca­men­te mi di­spia­ce­reb­be tan­to: amo un po' di com­pa­gnia in ca­sa. E poi ho tan­ta ro­ba da man­gia­re avan­za­ta dal­la fe­sta di ie­ri. Po­tre­ste fer­mar­vi per pran­zo.

    John guar­da An­na pen­sie­ro­so. – Ti va di ve­de­re i car­to­ni? – Per tut­ta ri­spo­sta la pic­co­la scen­de dal­la se­dia e si di­ri­ge in sa­lot­to a cer­ca­re le vi­deo­cas­set­te. Ro­bert la rag­giun­ge e ne in­se­ri­sce una nel let­to­re. Quan­do tor­na, esor­ta John a sedersi, visto che è an­co­ra in pie­di; ag­guan­ta una taz­za di caf­fè lun­go e si ac­co­mo­da all’iso­la da­van­ti a lui, di spal­le al­la fi­ne­stra.

    John im­ma­gi­na che ades­so co­min­ci ad as­sa­lir­lo con le do­man­de, le­ci­te, di un pa­dro­ne di ca­sa che ac­co­glie di se­ra due mi­no­ri fug­gia­schi, in­ve­ce co­min­cia a par­la­re di sé, ri­gi­ran­do la taz­za tra le di­ta e sor­seg­gian­do con cal­ma il suo caf­fè. Gli rac­con­ta di es­se­re ri­ma­sto ve­do­vo da po­co: – Mia mo­glie e io ave­va­mo com­pra­to que­sta ca­sa pen­san­do a tut­ti i fi­gli che avrem­mo avu­to. Sai, vo­le­va­mo una fa­mi­glia gran­de e ru­mo­ro­sa, con ca­ni, gat­ti, cri­ce­ti e co­ni­gliet­ti a scor­raz­za­re per ca­sa...

    John non può fa­re a me­no di sor­ri­de­re.

    L’uo­mo so­spi­ra. – Ma pur­trop­po la mia lei ha de­ci­so di far­si por­ta­re via da un tu­mo­re. È sta­to co­sì ra­pi­do… e ades­so mi ri­tro­vo a vi­ve­re in que­sta enor­me vil­la, do­ve le stan­ze ac­cu­mu­la­no pol­ve­re a pa­la­te. Per­ciò mi fa pia­ce­re fa­re co­la­zio­ne insieme. Con il mio la­vo­ro non ho mol­to tem­po per fa­re con­ver­sa­zio­ne.

    – Che la­vo­ro fa, Rob? – chie­de in­cu­rio­si­to.

    – So­no il ca­po del­la Di­vi­sio­ne In­ve­sti­ga­ti­va della Po­li­zia di Van­cou­ver.

    John smet­te di re­spi­ra­re e sbian­ca di col­po.

    – Non de­vi spa­ven­tar­ti, – fa Robert tran­quil­lo, continuando a sorseggiare il suo caf­fè. – Non ti ho men­ti­to pri­ma: se vuoi an­dar­te­ne an­che ades­so, puoi far­lo. Non so­no in ser­vi­zio e quin­di non so­no te­nu­to a sa­pe­re nul­la di voi due. Ho ca­pi­to che sie­te in dif­fi­col­tà. Ma sap­pi che, se sie­te nei guai, pos­so aiu­tar­vi. Con­cre­ta­men­te. – Al silenzio che segue, si acciglia preoccupato. – Non ti va giù pro­prio nien­te? – Allunga una mano e spinge verso di lui la tazza di latte ancora intoccata.

    John si ri­trae d’istin­to, co­me se aves­se cer­ca­to di col­pir­lo.

    – Scu­sa, – di­ce l’uo­mo, sol­le­van­do una ma­no a pla­car­lo. – Ti pre­go, non ave­re pau­ra di me. Non sei pri­gio­nie­ro e quel­la è la por­ta. Se vuoi an­da­re via, puoi far­lo an­che su­bi­to, non te lo im­pe­di­rò. – Glie­lo ri­pe­te in un to­no co­sì con­vin­cen­te che John ri­pren­de a re­spi­ra­re. – De­vo es­se­re sin­ce­ro. So­no pre­oc­cu­pa­to per te. Hai l’aria di sta­re mol­to ma­le. E quel­le ci­ca­tri­ci bian­che sui pol­si… ce ne so­no al­tre?

    Si ri­fe­ri­sce ai ta­gli che gli fa­ce­va­no per con­vin­cer­lo a usa­re i suoi po­te­ri. So­no co­sì sot­ti­li che qua­si non si no­ta­no, co­me tan­ti fi­li di ra­gna­te­la, so­vrap­po­sti l'uno all’al­tro, e lui ti­ra sem­pre le ma­ni­che sul­le ma­ni per na­scon­de­re quel­li più fe­ro­ci, che gli ri­sal­go­no lun­go le brac­cia. So­lo un po­li­ziot­to po­te­va no­tar­li con una so­la oc­chia­ta.

    Non ri­ce­ven­do ri­spo­sta, Ro­bert com­men­ta: – Han­no l’aria di non es­se­re re­cen­ti.

    – È una lun­ga sto­ria, – con­fer­ma John fis­san­do­lo.

    – C’en­tra qual­co­sa con il fat­to che tua so­rel­la non par­la?

    John an­nui­sce.

    L’uo­mo so­spi­ra ru­mo­ro­sa­men­te. – Lo im­ma­gi­na­vo. Ca­pi­sco la tua dif­fi­den­za e ti am­mi­ro per co­me ti stai pren­den­do cu­ra del­la pic­co­la. So­no un estra­neo fic­ca­na­so che non sa nul­la di te. Ma vo­glio dir­ti una co­sa: co­me ufficiale del­la Po­li­zia ho una cer­ta ca­pa­ci­tà di ri­sol­ve­re si­tua­zio­ni ap­pa­ren­te­men­te im­pos­si­bi­li. Se mi rac­con­ti la tua sto­ria, qual­sia­si es­sa sia, po­trei dav­ve­ro aiu­tar­ti.

    – Non è una sto­ria a cui lei po­treb­be cre­de­re.

    Ro­bert si spor­ge ver­so di lui: – Met­ti­mi al­la pro­va.

    John si schia­ri­sce la vo­ce. È stra­na­men­te emo­zio­na­to. Per la pri­ma vol­ta ha l’oc­ca­sio­ne di rac­con­ta­re quel­lo che è suc­ces­so. I ri­cor­di si ri­ver­sa­no in lui co­me una ma­rea. Sen­te il to­ra­ce bru­cia­re di do­lo­re, ma si co­strin­ge a par­la­re. – An­na è sot­to shock, non so co­me fa­re per aiu­tar­la.

    L’uo­mo an­nui­sce. – Sì, è quel­lo che ho pen­sa­to an­ch’io non ap­pe­na l’ho vi­sta. Per quan­to ne so, sem­bra ave­re una leg­ge­ra ca­ta­to­nia, – ag­giun­ge pen­sie­ro­so. Pro­se­gue poi a spie­ga­re in to­no tran­quil­lo: – Può ca­pi­ta­re a un bam­bi­no pic­co­lo, quan­do de­ve af­fron­ta­re trau­mi che non rie­sce a ela­bo­ra­re, si trat­ta di un mec­ca­ni­smo di­fen­si­vo del­la men­te. La buo­na no­ti­zia è che rie­sce a in­te­ra­gi­re con te a li­vel­lo emo­ti­vo, per­ciò, in ba­se al­la mia espe­rien­za, do­vreb­be tor­na­re in sé non ap­pe­na si sen­ti­rà al si­cu­ro.

    John si vol­ta ver­so il sa­lot­to per con­trol­lar­la. Non sa­reb­be ne­ces­sa­rio, vi­sto che può per­ce­pi­re la sua pre­sen­za. Ma ha bi­so­gno di ve­der­la. 

    – Do­ve so­no i vo­stri ge­ni­to­ri?

    John guar­da fuo­ri dal­la fi­ne­stra. – I miei ge­ni­to­ri so­no sta­ti uc­ci­si, io e mia so­rel­la se­que­stra­ti. – L’uo­mo si ac­ci­glia pro­fon­da­men­te ma, no­no­stan­te que­sto, la sua espres­sio­ne ri­ma­ne ami­che­vo­le, sin­ce­ra.

    – Chi so­no le per­so­ne che vi han­no ra­pi­ti?

    – Agen­ti e scien­zia­ti, – ri­spon­de John in to­no sec­co.

    Ro­bert si pas­sa una ma­no sul vol­to, fis­san­do­lo in­ten­sa­men­te. – Agen­ti… del go­ver­no…?

    – Non pro­prio e non uf­fi­cial­men­te, ma so­no mol­to po­ten­ti. Han­no una ba­se nel de­ser­to del Ne­va­da, una spe­cie di la­bo­ra­to­rio di ri­cer­che… noi ve­nia­mo da lì.

    – Nevada? Per­ché… co­sa vo­le­va­no da voi?

    John si mor­de il lab­bro in­fe­rio­re. Guar­da il lam­pa­da­rio e i pen­si­li del­la cu­ci­na, i ma­gne­ti sul fri­go­ri­fe­ro, i piat­ti che sgoc­cio­la­no ac­can­to al la­va­bo, le pre­si­ne na­ta­li­zie ap­pog­gia­te sul ri­pia­no in pie­tra. Quel luo­go è im­be­vu­to di se­re­ni­tà e sa­reb­be pro­prio la ca­sa per­fet­ta per una gran­de e fe­li­ce fa­mi­glia. Non dev’es­se­re fa­ci­le vi­ver­ci, pen­sa, con­si­de­ra­to che ogni co­sa là den­tro ri­cor­da a quel po­li­ziot­to il suo so­gno ir­rea­liz­za­to.

    – Mi di­spia­ce per sua mo­glie, – mormora John, – per la sua… fa­mi­glia... – L’uo­mo gli sor­ri­de un po' sor­pre­so, è un sor­ri­so tri­ste e af­fet­tuo­so. – Ti rin­gra­zio, John. Sei dav­ve­ro un bra­vo ra­gaz­zo. Sai, a me cer­te co­se non sfug­go­no: oc­chi da po­li­ziot­to! – fa in­di­can­do­si. 

    Si sor­ri­do­no e la cu­ci­na ca­la nel si­len­zio. John con­ti­nua a esi­ta­re.

    – È una co­sa che proprio non rie­sci a di­re… – ap­pun­ta l’uo­mo con cal­ma, do­po un po'. – Non sei ob­bli­ga­to, ma po­treb­be es­se­re di aiu­to, so­prat­tut­to per An­na.

    John in­cro­cia le ma­ni sul ta­vo­lo, le strin­ge for­te, tan­to che le noc­che sbian­ca­no. – Ho un… ta­len­to par­ti­co­la­re.

    – Un ta­len­to…?

    – Ci so­no na­to. Per me era na­tu­ra­le co­me re­spi­ra­re, ma ho sco­per­to che, in­ve­ce, è qual­co­sa di ra­ro e stra­no. Tan­to che lo­ro vo­le­va­no stu­diar­mi, ca­pi­re co­me po­te­vo fa­re quel­lo che fac­cio. Han­no pre­so mia so­rel­la pen­san­do che fos­se co­me me, ma An­na è nor­ma­le. Lei non… lei… non… – Pren­de fia­to per­ché im­prov­vi­sa­men­te la stan­za ha cominciato a oscil­la­re da­van­ti ai suoi oc­chi e lui si sen­te nuo­va­men­te man­ca­re.

    L'uomo si alza, aggira il ripiano dell'isola e gli ap­pog­gia una ma­no cal­da sul­la schie­na, pren­de la taz­za di lat­te e glie­l'ac­co­sta al­le lab­bra. John non ha la for­za di ri­fiu­ta­re e de­glu­ti­sce un lun­go sor­so. Si ap­pog­gia im­ba­raz­za­to al brac­cio con cui lo sta sor­reg­gen­do.

    – Mi scu­si…

    Ro­bert si sie­de su uno sga­bel­lo al suo fian­co per sta­re più co­mo­do, men­tre con­ti­nua a so­ste­ner­lo. – Non pre­oc­cu­par­ti di nul­la, sei mio ospi­te, giu­sto? Be­vi un al­tro sor­so o ri­schi di sve­ni­re, sei esau­sto.

    John ob­be­di­sce. – E an­che un po' di tor­ta, – ag­giun­ge, av­vi­ci­nan­do­gli un piat­ti­no che ave­va già pre­pa­ra­to. – Man­gia!

    Il to­no in cui lo di­ce ha la bo­na­ria se­ve­ri­tà di un pa­dre ver­so il fi­glio, John sen­te va­ga­men­te che po­treb­be so­mi­glia­re a quel­lo di suo pa­dre, ma è un ri­cor­do co­sì ne­bu­lo­so che non ne è si­cu­ro. E non vuo­le sof­fer­mar­vi­si per­ché fa trop­po ma­le. Met­te in boc­ca un pez­zet­to, ma gli ri­sa­le la nau­sea. Tos­si­sce e l’uo­mo gli fa be­re un al­tro sor­so di lat­te.

    – Va be­ne co­sì per ora, – gli di­ce al­lon­ta­nan­do la tor­ta. – Sor­seg­gia con cal­ma. Te ne pre­pa­ro an­co­ra. – Si al­lon­ta­na e scal­da dell'al­tro lat­te in un pen­to­li­no, ci ag­giun­ge cioc­co­la­ta e zuc­che­ro, poi an­che una cuc­chia­ia­ta di sci­rop­po d’ace­ro, gli sfi­la dal­le ma­ni la taz­za fred­da e la col­ma di li­qui­do fu­man­te. – Be­vi, – esorta, – an­che so­lo un goc­cio­li­no in più…

    John sen­te gli oc­chi far­si umi­di, ha un no­do al­la go­la. Quel li­qui­do as­sur­da­men­te dol­ce, che trat­tie­ne tra le ma­ni ge­la­te, è la co­sa più bel­la che ab­bia ri­ce­vu­to do­po an­ni di pri­gio­nia. Ob­be­di­sce e in­go­ia con­tro­vo­glia un al­tro sor­so: è ter­ri­bi­le. In­cro­cia lo sguar­do dell’uo­mo e gli scap­pa un sor­ri­so.

    – Trop­po dol­ce?

    John scop­pia a ri­de­re. Ed è un suo­no co­sì ar­gen­ti­no e pu­li­to che sem­bra fa­re vi­bra­re l’in­te­ra stan­za. An­na fa ca­po­li­no in cu­ci­na e lo guar­da ine­spres­si­va, poi tor­na al­la sto­ria ani­ma­ta che si sta svol­gen­do in tv.

    Ro­bert os­ser­va at­ten­ta­men­te la sce­na e ri­de di ri­man­do. – Ho esa­ge­ra­to?

    – Un po­co, – ri­spon­de John. 

    Si scam­bia­no un’oc­chia­ta com­pli­ce.

    L’uo­mo tor­na a se­der­si di fron­te a lui. – Hai an­co­ra pau­ra di me? – È co­sì schiet­to da es­se­re di­sar­man­te. John non può fa­re al­tro che ne­ga­re. 

    Ro­bert si ti­ra in su le ma­ni­che del ma­glio­ne, sco­pren­do le brac­cia mu­sco­lo­se. Ap­pog­gia i go­mi­ti sul ta­vo­lo. – Al­lo­ra, te la sen­ti di con­ti­nua­re la no­stra chiac­chie­ra­ta? Vor­rei chie­der­ti al­tre co­se.

    John an­nui­sce in si­len­zio. 

    – Per quan­to tem­po vi han­no te­nu­ti pri­gio­nie­ri?

    John non esi­ta a ri­spon­de­re que­sta vol­ta: – Cir­ca cin­que o sei an­ni, cre­do. Han­no con­ti­nua­to a fa­re espe­ri­men­ti. An­na era an­co­ra mol­to pic­co­la e pre­sto si so­no ac­cor­ti che non era co­me me, co­sì… la usa­va­no so­lo per ri­cat­tar­mi, per for­zar­mi a usa­re le mie ca­pa­ci­tà, ma non l’han­no mai toc­ca­ta.

    Gli oc­chi cal­di dell’uo­mo si fis­sa­no su di lui co­me scin­til­lan­ti ma­gne­ti. – In­ve­ce, con te l’han­no fat­to. Quel­le ci­ca­tri­ci che hai… so­no sta­ti lo­ro?

    – Sì.

    L’uo­mo si pas­sa una ma­no sul­la boc­ca. Si ve­de che sta trat­te­nen­do una rea­zio­ne im­pul­si­va, si ve­de che è di­sgu­sta­to, si ve­de che vor­reb­be ri­vol­ta­re gli in­te­sti­ni a quei cri­mi­na­li. Guar­da fuo­ri dal­la fi­ne­stra per al­cu­ni mi­nu­ti. Poi ri­tor­na a fis­sar­lo con at­ten­zio­ne.

    – Co­sa c’è di co­sì spe­cia­le in te, da in­dur­re a fa­re tut­to que­sto?

    John bal­bet­ta e ri­spon­de sus­sur­ran­do: – Pos­so… io… so­no un te­le­ci­ne­ti­co, rie­sco a ma­ni­po­la­re la ma­te­ria con la men­te. Se mi con­cen­tro be­ne, rie­sco an­che a sen­ti­re i ri­cor­di, i pen­sie­ri e le emo­zio­ni del­le per­so­ne in­tor­no a me, ma que­sto lo­ro non lo han­no mai sa­pu­to. 

    L’espres­sio­ne dell’uo­mo è in­de­ci­fra­bi­le. Par­la in to­no pa­ca­to e se­rio.  – Que­sto tuo do­no, l’hai usa­to per fug­gi­re, di­co be­ne?

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