Una storia sbagliata
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Info su questo ebook
Pietro Colonna Romano (soprannominato Erino) nasce a Palermo il 14 agosto 1948. Nel 1976 si laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Palermo e l’anno seguente si trasferisce negli Stati Uniti dove si specializza in Anestesia ed inizia la carriera universitaria. Come Associate Professor insegna Anestesia alla Hahnemann University a Philadelphia per 16 anni. Da 20 anni lavora come anestesista al Pennsylvania Hospital a Philadelphia. È sposato con Helene Alkalay, ha due figli e quattro nipoti. Il suo primo romanzo, The life of Ann McMahon, è stato pubblicato in inglese e poi tradotto in italiano col titolo di Gabbie Invisibili.
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Anteprima del libro
Una storia sbagliata - Pietro Colonna Romano
Erino Colonna Romano
Una storia sbagliata
© 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-3063-5
I edizione gennaio 2021
Finito di stampare nel mese di gennaio 2021
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Una storia sbagliata
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
TRE ANNI DOPO
La stazione dei treni era stata costruita anni fa. Cinquanta? Forse. Certo più di quaranta. Regalo del governo. Niente di dovuto. Poca gente da quelle parti.
La conoscevo bene.
Ci andavo con papà e mamma Lisa a prendere i nonni. Quelli che venivano dalla città, gli altri non venivano mai. Nessun altro veniva mai. Da meno piccolo, ci andavo da solo. A prendere il giornaletto alla sede postale: Il piccolo matematico
. Una volta alla settimana, il lunedì. I mesi erano allora ancora lunghi e le giornate finivano con la malavoglia di andare a letto. Mamma Lisa mi aveva dato il permesso. Corri e non parlare. Con nessuno. Non parlare.
Non parlare mi veniva facile. A me non piace parlare con gli altri. Mi spaventa ed è difficile. Il cuore mi scappa via. Il muro d’ansia diventa spesso. Rallenta i movimenti e nutrisce i miei fantasmi. La luce si attenua e lascia spazio al crepuscolo della ragione. Mi assalta la paura di esistere.
Preferisco parlare con me stesso. Mi capisco e mi so ascoltare. Non litigo con me stesso. Sono felice di starmi a sentire. Non sento altre voci. Se ci sono, so come non sentirle. Solo così mi sento sicuro.
Una corsa d’un fiato, otto minuti e diciotto scalini. Un corridoio stretto, muri neri scrostati dal tempo che ti strisciano addosso. Quattro lampadari lassù in alto, tanto in alto che non ci potrò arrivare, mai, neanche quando sarò grande. Un giro a destra, improvvisamente luce, tanta luce: la sala delle poste. Il tetto vicino al cielo, il cielo dietro il tetto, le pareti lontane da me e da se stesse, le vetrate a cacciar via il buio. Alla fine della corsa l’uomo con la giacca nera nascosto dietro un vetro, spesso ed opaco. Gli occhiali rannicchiati sul naso per guardarmi dall’alto in basso, per spaventarmi. La paura di essere visto dentro risale dal basso ed occupa i miei spazi. Il dolore di combattere per la sopravvivenza mi porta terrore.
Io, là sotto, ad ingoiare aria di nascosto e farla uscire assieme alle parole: È arrivato il Piccolo Matematico?
Sì. Senza alzare la testa. Una mano, gialla e rugosa, si allunga verso di me. Odore acre di tabacco. Il cuore che si fa sentire dentro il petto. Un battito incontrollato. Solo toni cupi ed una eco lontana.
Il giornaletto da quella mano alle mie dita. Il cuore che ritorna al suo silenzio.
Un’altra corsa. Otto minuti, senza parlare. Per ritornare da dove ero partito: dalla stanza. La mia stanza. Tutto deve ricominciare da dove inizia. Obbligo continuo da rispettare, predisposizione inviolabile, ripetuta e ripetibile. Una spinta alla porta di casa. Una corsa nel corridoio. Un salto nella stanza. Il rumore secco della porta che si chiude. Il silenzio adesso a presiedere, a creare il sottofondo preferito. Uno sguardo veloce allo specchio per vedere lo specchio che mi guarda e conferma che sono vivo. Poi la certezza di essere sopravvissuto a quella conversazione a riportarmi calma dentro il petto.
Finalmente io ed il giornaletto. Io ed i numeri. Nella camera a scoprirci e giocare insieme. Senza nessuno attorno, senza occhi intriganti, senza domande inquisitive, senza irruzioni dall’esterno. Al sicuro. E tutto il mondo fuori. Al di là della finestra. Nel posto senza confini dove non voglio stare. Troppo grande, senza limiti. Troppo rischioso. Dove tutto comincia, dove nulla finisce. Mondo ostile dove buttar via quello che non è mio, che non può stare nella mia stanza. Una discarica personale da riempire al bisogno. Oggetti che mi disturbano, che intralciano movimenti e pensieri, che non sono stati invitati. Oggetti portati da altri, giocattoli che non giocano. Fotografie che non parlano, ma guardano e spiano. Invasori del mio spazio. Ladri dei miei giornaletti e dei miei numeri. Cacciati fuori dalla finestra con pochi gesti. Con un rituale sempre identico. Replicato con la mia costanza. Maniacale, può darsi. Facendo attenzione ai dettagli e alla sequenza degli eventi: aprire la finestra ascoltando il cigolio della maniglia, sibillino e pieno di ci; separare le ante di vetro, specchiare sui riflessi sorrisi d’intesa; posizionare quattro libri uno sopra l’altro; impugnare l’oggetto; fare sei identici passi indietro, contandoli uno ad uno, una pausa corta a separare ogni numero. Un sospiro profondo ed una breve corsa. Verso la finestra. L’oggetto che si stacca dalle mani e l’inizio della parabola. Il volo oltre la finestra, l’inizio della conta, l’impatto sull’erba del cortile. Un suono sempre uguale: un tonfo ovattato ammortizzato dalla distanza, familiare e confortante. Segnale piacevole che arriva alle orecchie, conferma quello visto dagli occhi. La fine della conta. Sei o sette. Sempre sei o sette. Spedire questi oggetti dove ci sono gli altri, quelli che non conosci, che non ti conoscono. Non vederli tornare. Mandarli nel mondo degli altri, minaccioso e persecutorio. Il mondo di quelli da tenere lontano. Riempirlo con gli scarti, con quello che non vuoi. I regali mai voluti, le scarpe da tennis, i guanti invernali, il pallone mezzo sgonfio, la sedia a dondolo e altro. Tutto buttato via dalla finestra. Un volo senza ritorno. Il pupazzo di peluche unica eccezione. Tre volte tornato dalla porta, quattro volte buttato dalla finestra. Sino