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Le regole del ginepro
Le regole del ginepro
Le regole del ginepro
E-book442 pagine6 ore

Le regole del ginepro

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Info su questo ebook

Probabilmente Cecilia non sa di avere il mare dentro. 
In quell’infrangersi delle sue onde contro la battigia, che stanca ma accogliente abbraccia il suo impeto per poi ricaricarla a nuova vita, o contro l’impatto inevitabile con lo scoglio, il quale la invita a tornare, a tornare all’infinito… è racchiusa l’essenza di Cecilia.
Il suo temperamento la induce a osare, a tentare, a mettersi in gioco. Intorno a lei un alone magico, come una corazza, la protegge dalla negatività e la conduce verso la direzione giusta. E qui prende vita il suo mondo fatato, fatto di quelle piccole cose, di quelle piccole attenzioni che solitamente non si ricevono, che gli esseri troppo spesso dimenticano perché inquadrati in cliché che banalizzano gesti e parole. La sua caffetteria diventa il punto di riferimento e centro di aggregazione di un piccolo paese veneto; magica e insostituibile, nel tempo prenderà varie forme adattandosi alle esigenze del momento.
Cecilia è una sognatrice, il suo sogno d’amore infranto poco prima delle nozze ha destabilizzato il suo equilibrio, ma non dispera, sa che arriverà anche per lei il momento giusto… intanto tra un caffè, un tè alla cannella e un muffin ai mirtilli, getta l’occhio oltre l’orizzonte.
Chissà, magari è in arrivo qualcosa… 
Le regole del ginepro di Rachele Pasqualini è un testo tenero e vivace, dalle tinte morbide e pastose; intriso di vaniglia e cioccolato inonda i sensi e il gusto, rilasciando un seducente aroma di bacche di ginepro.

Rachele Pasqualini nasce a Venezia in una calda mattinata di maggio. Ha la fortuna di poter crescere tra le mura dei ristoranti di famiglia, dove respira profumi appetitosi e impara a osservare le persone.
Contro ogni previsione si diploma in studi classici per poi proseguire la sua carriera universitaria presso l’Università degli Studi di Padova, laureandosi in Scienze e Cultura della Gastronomia e della Ristorazione. 
Come ogni esponente del segno dei Gemelli che si rispetti, Rachele si lascia entusiasmare da tutto ciò che la circonda, ma è nella scrittura che ha trovato la sua casa, debuttando nel 2016 con il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830679634
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    Anteprima del libro

    Le regole del ginepro - Rachele Pasqualini

    cover01.jpg

    Rachele Pasqualini

    Le regole del ginepro

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7213-0

    I edizione gennaio 2023

    Finito di stampare nel mese di gennaio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Le regole del ginepro

    A tutti i lieto fine,

    che però non hanno avuto mai il coraggio

    di essere neppure un lieto inizio.

    A mia zia Santina,

    per me tu sei in ogni fiore che sboccia.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1.

    Cliché.

    C’è qualcosa di più odioso dei cliché?

    Forse solo le zanzare in estate.

    Quelli dei film sono i peggiori. Perché, mentre sei disteso sul divano, con la testa immersa nella storia, sai già che sta per arrivare un cliché, te lo senti dentro, ma resti comunque attento al film, sperando di sbagliare; inutilmente, questo è scontato dirlo. E allora non puoi far altro che alzare lo sguardo al cielo, esasperato, e pensare che nella vita reale non succedono mai.

    Ci sono un milione di cliché diversi.

    Quelli che proprio non sopporto fanno vedere l’attore, di solito sempre un bel tipo, ma umile e un po’ tonto, che, per tutta la durata del film, non capisce di essere innamorato, finché a una decina di minuti dalla fine, come se fosse reduce dal più grande colpo di genio della storia, realizza qual è il suo vero sentimento e inizia a correre; la meta più gettonata è l’aeroporto, o meglio, prima ci prova in taxi, ma c’è coda o per l’ora di punta o per un incidente, e così, spinto da cotanto impeto d’amore lascia una banconota al povero tassista, che allibito lo vede andar via, tra un tenga il resto, il rumore dei clacson delle altre macchine e la pioggia.

    Sì, perché a quel punto, non c’è meteo che tenga, inizia a piovere.

    Ecco, io per esempio non sono brava a correre e dopo cinquecento metri, forse forse un chilometro, comincio ad avvertire insufficienza respiratoria, milza prossima all’esplosione e sapore di ferro in bocca e mai e poi mai riuscirei a parlare, visto che tutto l’ossigeno dell’atmosfera viene reclamato dai miei polmoni per evitare il collasso. Ma lui no, il nostro supereroe del cliché dopo la sua corsetta è fresco come una rosa: la pioggia è servita solo per creare l’effetto rugiada sulla camicia bianca. E, oltre a non essere minimamente in punto di morte dopo la mezza maratona che è stato costretto a correre, è pure baciato dalla fortuna, visto che non solo è arrivato in orario in aeroporto, creando così un record mondiale degno di far parte dei Guinness World Records, ma ha anche la fortuna di riuscire a vedere la sua amata tra il marasma di persone che affollano l’aeroporto.

    Parliamoci chiaro: quando mia madre mi suggerisce di dividerci al supermercato per fare prima, io vado in panico, sicura di dover fare almeno una dozzina di volte il giro tra le corsie prima di riuscire a trovarla, e abito in un paesino piccolo. Ma all’eroe del film questo non accade perché, come un fascio di luce che fende le nuvole, lui riesce a scorgerla in piedi, in attesa di partire, con la tazza di caffè tra le mani.

    E in quel momento finalmente si possono ricongiungere, ma non prima di aver fatto una rocambolesca e alquanto comica scenetta sulle scale mobili.

    Questo per me è il riassunto dei peggiori cliché messi assieme. Certo, ce ne sono molti altri, ugualmente tristi e scontati: potrei parlare di due gemelline che vengono separate alla nascita, di un principe che non vuole fare il re e così via, ma per oggi mi soffermo solo sui peggiori.

    Ti starai chiedendo, caro diario, del perché io oggi stia parlando dei cliché; e la risposta è semplicissima: perché ieri sera mi sono specchiata e ho realizzato che io stessa sono diventata un cliché.

    Chi l’avrebbe mai detto!

    Trent’anni, single, ingarbugliata mentalmente e instabile emotivamente.

    Più cliché di così si muore.

    La pagina è quasi tutta piena, ma cerco un angolino per poter aggiungere ancora una frase, come a volermi difendere dall’opinione che il mio diario si potrebbe fare su di me.

    Credimi, caro diario, non è sempre andata così.

    Lascio il quaderno e la penna sul cuscino vicino al mio, e mi guardo attorno: non avrei mai potuto immaginare che un letto matrimoniale potesse essere così spazioso per una persona sola.

    Sì, per carità, è comodo e quando fa caldo uso l’altra metà del materasso; posso rotolarmi come voglio senza paura di cadere, è vero; ma che tristezza vedere un cuscino come nuovo vicino al mio, che invece è tutto spiegazzato, con qualche chiazza di mascara colato qua e là e sì, anche qualche traccia di bava, perché credetemi, solo le principesse delle favole dormono belle e composte.

    Resto stesa sul mio letto ancora per un po’. Come accade ultimamente, mi ci vuole qualche minuto prima di capire dove sono.

    Sono venuta a vivere in questa città solo per poter mettere dei chilometri tra il mio presente ed il mio passato, sono tornata a stare nella mia città natale, quella dove avevo studiato, dove ho lasciato i miei amici, quelli storici, quelli che mi hanno vista con i brufoli, il monociglio e l’apparecchio, quelli che, dopo l’adolescenza, mi hanno vista ragazzina, curata e truccata, quelli con cui abbiamo vissuto la notte prima degli esami, la maturità e la laurea.

    Quelli che ho salutato con le lacrime agli occhi per seguire l’amore e il lavoro, quelli che, dopo essere scesa a Roma, ho sentito quasi ogni giorno con messaggi e chiamate.

    Una parte del mio cuore si chiama Leonardo e Roberta, Leo e Robs per gli amici.

    E ora, cinque anni dopo, sono tornata nel mio adorato Veneto, felice di riabbracciare la campagna che mi ha vista crescere, ma con il cuore spezzato.

    Prima di Natale pensavo che il cuore non si potesse mai spezzare (che poi, come fa un organo a frantumarsi è proprio un mistero) ma a quanto pare può succedere.

    E non esistono medicine, né bendaggi, quello si rompe e nessuno sa quanto tempo ci metterà prima di tornare ad essere di nuovo unito.

    Mi rigiro nel letto e provo a convincere il mio cervello a cambiare argomento, ma a quanto pare non vuole collaborare con me.

    Perché, quando una storia finisce, il cuore si rompe, si spezza, fa il melodrammatico; io me lo immagino, vestito in nero per lutto, appoggiarsi una mano sulla fronte e fingere svenimenti, come se fosse una diva.

    Tutti, quando una storia finisce, prestano attenzione solo al cuore, ma la verità è che bisognerebbe avere più paura del cervello: perché il cuore potrà anche rompersi dal dispiacere, ma il cervello si indurisce e non dimentica.

    Quello se ne sta lì, al sicuro dentro al cranio, sotto una bellissima chioma di capelli, e come un pazzo psicopatico inizia ad affilare coltelli, a registrare ogni minimo torto subito: archivia di là, archivia di qua, salva questo, registra quell’altro.

    Eh sì, il cuore lo puoi anche fare fesso, ma il cervello no.

    Quello, dopo una delusione amorosa, farà il quarto grado a tutto e a tutti: non si farà più sfuggire niente, farà l’analisi grammaticale perfino alla punteggiatura dei messaggi che riceverà e saprà interpretare le emoticon meglio di come un antico Egizio leggeva i geroglifici; insomma da qui all’eternità ogni nuovo pretendente avrà vita difficile.

    Il corpo sperimenta e il cervello ricorda.

    È grazie a lui che io, da bambina, ho imparato e mi ricordo che i coltelli tagliano, ed è sempre grazie a lui che ora ho capito che lo fanno anche le persone.

    E così torno a pensare a qualche mese fa, quando, come nel peggiore dei cliché, il mio ex ed io eravamo seduti vicino al nostro albero di Natale, decorato come la tradizione cinematografica americana vuole, i calici di vino appoggiati per terra vicino a noi e un grazioso pacchettino glitterato tra le mie mani. Eccolo il mio regalo di Natale, un anello e la proposta di matrimonio da parte di un ragazzo che per me era tutto.

    Un tutto che poi si è rivelato un niente.

    Ed era pure inginocchiato, ripenso infastidita, con le lucine di Natale a fargli da sfondo!

    Che rabbia ricordare quel momento. Se non avessi così tanta paura del karma spererei che si fosse lussato la rotula.

    Comunque, tornando a me, non mi ero ancora abituata a vedere un anello scintillante sul mio dito che, un battito di ciglia dopo, era già sparito.

    Andato.

    Tanto amore, niente amore.

    Che poi chissà dove va a finire l’amore quando finisce?

    Quella forza attrattiva che spinge due anime a trovarsi, a scegliersi e ad unirsi.

    Che vola sui cieli, illumina le stelle, allarga i sorrisi, riempie il cuore.

    Perché c’è poco da dire, chi è stato innamorato almeno una volta nella vita, ma innamorato innamorato, mica mezze misure, deve aver provato quella perfetta sinergia con l’altra persona. Quell’invisibile legame, come un filo di ragnatela, che ti spinge a voltarti e ad agganciare il tuo sguardo con un altro paio di occhi che stavano solo aspettando i tuoi per essere completi.

    Giuro che poi, quando tutto finisce, non lo so che fine fa, quello che so è che dopo i tuoi occhi, come un pin sbagliato, non combaciano più con gli altri.

    Temo che l’amore sia un po’ come quei fastidiosissimi moscerini della frutta: vai dal fruttivendolo e non ci sono; torni a casa, sistemi la spesa sopra al tavolo e non ci sono; esci un paio di ore e il tuo cestino della frutta è diventato più trafficato dell’aeroporto di Venezia; poi, veloci come sono arrivati, dopo qualche giorno non ci sono più.

    E l’amore è un po’ così: veloce, letale e molto spesso fastidioso.

    Se solo non avessi dimenticato l’agenda a casa, se solo non fossi tornata a prenderla un’ora dopo essere uscita, non avrei trovato quello che sarebbe dovuto diventare mio marito e quella che, insieme a Leo e Robs, avrebbe dovuto essere la mia testimone, a letto insieme.

    Che cliché già visto e rivisto.

    E giuro che nei film fa ridere, ma nella vita reale fa male.

    Molto male.

    Fa male vedere la propria vita piegata alla bell’e meglio in una valigia e messa nel bagagliaio della macchina, fa male sapere che il tuo posto nel letto non resterà mai vuoto, che lo scarico della doccia non avrà più i tuoi capelli marroni, ma quelli biondi della tua amica.

    Fa male sapere che in fondo in fondo non avevi tutta questa importanza.

    Niente pensieri negativi, mi ripeto come se fosse un mantra, niente pensieri negativi, Cec!

    Poi mi ricordo che oggi ho il pranzo con tutti i parenti e non solo ritornano i pensieri negativi, ma sale proprio la voglia di fingersi ammalata.

    Che poi anche la mia famiglia è un cliché da film: siamo numerosi e rumorosi. Ho due sorelle e un fratello, ovviamente sposati, ovviamente con figli, ovviamente con un buon lavoro alle spalle.

    Io sono quasi al verde, ma rimango comunque una persona ottimista in mezzo ad un mondo pessimista. Avete presente il famoso bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Ecco, dove gli altri, nell’incertezza che il bicchiere sia mezzo vuoto, preferiscono travasare il liquido in uno ancora più grande, per essere certi che così sia ancora più vuoto, io, eterna ottimista quale sono, mi sento felice perché ho dei bicchieri ed un liquido, che, anche se è ancora mattina, spero sia vino o gin.

    Così, come una vera donna moderna e indipendente, mi convinco che non accendere la caldaia e stare al freddo mi aiuterà a mantenere la pelle giovane. Molte persone ricorrono alla crioconservazione; beh, fortunata me che la faccio gratuitamente e comodamente da casa.

    E questo momento di penuria sarà anche un’ottima occasione per mettere due maglioni, dopotutto il mio armadio è pieno di cose che tengo lì perché non si sa mai che tornino di moda oppure che metterò quando dimagrirò… Ora finalmente le potrò indossare.

    Comunque arriverà anche la primavera e porterà il caldo.

    Non sarà per sempre, ma finché non troverò un lavoro dovrò fare la spesa intelligente: prima regola, niente schifezze; seconda regola, aspettare le promozioni prima di comprare qualcosa; molti dietologi consigliano di ridurre drasticamente le calorie per perdere peso, cercherò di mangiare poco e riempirmi la pancia con patate e mele.

    Quindi sì, sono una persona ottimista che cerca di non pensare che il bicchiere può anche essere mezzo pieno, ma è il frigorifero ad essere completamente vuoto.

    Forza Cec, prima di andare a pranzo da mamma, prova a cercarti un lavoro!

    Così non puoi andare avanti, mi rimprovero.

    2.

    Esco e fuori c’è un sole timido, non sa neppure lui se vuole uscire o se deve restarsene al sicuro tra le nuvole.

    «Come ti capisco, mio caro, fosse per me non sarei mai uscita neanch’io da sotto le coperte» gli dico.

    Cammino senza meta verso il centro della città, mi godo il fatto che ci sia poca gente in giro, sto diventando una vecchia brontolona e meno gente vedo alla mattina e meglio è. Se è per questo, la teoria vale anche per il pomeriggio e pure per la sera.

    La piazza di Mogliano è stata spogliata da tutte le decorazioni natalizie ed ora la sua fontana è tornata in funzione, gli zampilli d’acqua sembrano saltare felici dalle figure alate che la decorano e ripenso a quante volte da bambina ho mangiato il gelato seduta attorno a loro.

    Ero felice e non lo sapevo.

    Così torno a sedermi lì, ora come allora, e anche se non mi posso godere il gelato, perché il gelataio è chiuso per ferie, mi accontento di qualche raggio di sole, del rumore dell’acqua e della mia incertezza.

    Come si trova un lavoro? Dovrò entrare in ogni negozio?

    Ho mandato così tanti curricula in giro per le città vicine che ho iniziato a perdere le speranze.

    Se la vita fosse un film ora dovrebbe apparire qualcuno ad aiutarmi, invece a quest’ora della mattina ci sono solo io e un camioncino che raccoglie la spazzatura.

    Che sia un segno?

    «Addirittura! Così drammatica è la situazione? Ad essere onesta non so se la mia vita vada gettata nell’umido o nel secco, mi basterebbe solo fosse riciclabile» parlo tra me e me, come sono solita fare.

    Più che risolvere i grandi quesiti del mondo, quello di cui ho forse più bisogno in questo momento è un caffè.

    Il caffè aiuta sempre, e una bella svegliata mi sarebbe proprio d’aiuto.

    Decido di prenderne uno qualche passo più in là: quando ero al liceo, durante le vacanze estive, andavo ad aiutare la proprietaria, Simonetta, con la sua piccola caffetteria.

    Sono anni che non ci torno e la curiosità di vederla è tanta, come i ricordi che mi tengono legata a quel piccolo bar dove ho capito il valore dei soldi e il sacrificio che ci sta dietro.

    Chissà se è ancora lei che lo gestisce, mi domando curiosa.

    Dall’esterno il posto sembra lo stesso, come se gli anni non fossero passati. L’insegna è sempre la solita, lo stesso vale per la vetrata arricchita con qualche pianta, ma non posso fare a meno di notare che ha qualcosa di strano, di diverso.

    Il resto dell’edificio che ospita il bar era sempre sfitto, disabitato, ora invece sembra nuovo, con i balconi tutti uguali ed un bel colore bianco panna alle pareti.

    La porta è semichiusa e all’interno non tutte le luci sono accese, come se fosse ancora chiuso.

    Rimango spiazzata, di carattere sono una persona che non vorrebbe mai disturbare, perciò mi faccio un po’ di remore ad entrare, però penso che, anche se non avrò il caffè, posso sempre salutare Simonetta e lasciarla lavorare in pace.

    In ogni caso busso sul vetro della porta.

    «Si può?» chiedo.

    Da dentro nessuno mi risponde, però sento chiaramente una voce femminile borbottare, come se stesse parlando tra sé e sé.

    «Che sciagura. Che perdita!» la sento lamentarsi per qualcosa.

    Riprovo e questa volta la chiamo per nome. «Simonetta, ci sei? Si può?».

    Per un attimo regna il silenzio, poi sento una voce rispondermi. «Chi è? Siamo chiusi».

    «Ehm… sono Cecilia, Cecilia Guerra, non so se ti ricordi di me. Sono passata solo per un saluto, ma se disturbo torno un’altra volta».

    Altro silenzio.

    «No, no. Cecilia, certo che mi ricordo di te. Aspetta che arrivo».

    Sorrido e l’aspetto.

    A dir il vero aspetto anche un po’ troppo e comincio a pensare di essere proprio arrivata nel momento sbagliato. Finalmente dopo qualche minuto vedo Simonetta uscire dal magazzino, dietro al bancone. Saltella nella mia direzione, aiutata da un paio di stampelle.

    «Che hai combinato al piede?» le chiedo dispiaciuta.

    «Ah, non me lo ricordare. Come una sciocca sono caduta a casa e me lo sono rotta. Il medico mi ha detto che ci vorranno almeno tre o quattro settimane prima di poter pensare di togliere il gesso, poi spero che non serva la fisioterapia altrimenti sarò spacciata».

    «Come mi dispiace, Simonetta. E qui come fai?».

    «Altro punto dolente: dovrò tenere chiuso. Ero proprio in magazzino per vedere quanta merce sarò costretta a buttare via, magari la regalerò in questi giorni, potrei donarla al centro anziani, proprio perché sprecare cibo è una cosa che non sopporto».

    Oh, se questo fosse un film, credetemi, ora starebbe suonando una musica di sottofondo: mentre Simonetta mi parla di come sia difficile portare avanti un’attività da sola, io non posso fare a meno di pensare che, visto che alle bollette non interessano i drammi sentimentali e vogliono essere pagate sempre, io posso aiutare Simonetta e lei può aiutare me.

    «Che dici, caffè e frittella?» mi propone lei, «Anzi, se ne vuoi un vassoio intero prenditelo pure».

    «Accetto il caffè e la frittella qui, e poi non credo che tu debba proprio buttarle via subito. Prima, potrebbe esserci un’alternativa».

    Simonetta mi guarda incuriosita, come una persona che sta annegando e aspetta che qualcuno le lanci un salvagente.

    «Certo, devi essere d’accordo anche tu e devi fidarti, ma volevo proporti, se per te va bene, di lasciare qui me, solo nel periodo che ti serve per guarire e fare riabilitazione». Lo dico tutto d’un fiato perché temo di pentirmene: ok che ho bisogno di lavoro, ma non faccio la barista da anni. «Io potrei essere le tue mani e i tuoi piedi finché non starai meglio, potresti approfittare del tempo di recupero o per riposarti a casa o per stare qui, per supervisionare il mio lavoro».

    Simonetta mi guarda senza dire nulla e io penso di aver fatto la figura della scema.

    Della scema e pure dell’avvoltoio, che si fionda subito sulle situazioni di difficoltà, cercando di approfittarne.

    Sto quasi per scusarmi e andarmene il più in fretta possibile, quando lei inizia a parlare.

    «Dici sul serio?».

    Io mi stringo tra le spalle. «Sai, io sono tornata da poco e non ho un lavoro. A dire la verità ero uscita proprio con la speranza di trovarne uno. L’ultima volta che ho fatto la barista è stata in quinta superiore, proprio qui, quindi forse non sono la persona più adatta. Però tu già pensavi di chiudere, se vuoi possiamo fare un tentativo e, se proprio non va, almeno ci abbiamo provato.»

    Simonetta tamburella le dita sul bancone. «Perché no! Mentre tu lavori, io potrei approfittare per sistemare un po’ le carte e fare gli ordini, e se hai bisogno di qualche aiuto sarò a portata di mano.»

    Ci guardiamo per un attimo negli occhi, sorridenti e sollevate, ognuna a modo suo.

    Quando parliamo, lo facciamo in simultanea. «Grazie!» diciamo e poi scoppiamo a ridere.

    Io per adesso ho un lavoro e lei ha una persona che può portare avanti la sua caffetteria.

    Sorrido così tanto che sento le guance farmi male, ma sono felice, felice davvero.

    «Questo posto non è cambiato di una virgola, invece il palazzo sì! Lo hanno finalmente sistemato?» chiedo, anche per intavolare un discorso.

    «Sì, bello vero? Ora il vecchio convento ospita un museo» mi dice, e c’è mancato poco che facessi un colpo.

    Un museo?

    Qui?

    Oh mio Dio, perché non ne sapevo nulla?

    Cerco di trattenere il mio entusiasmo giusto per non sembrare una pazza.

    «Non lo sapevo!».

    «Sì, l’hanno aperto da un anno e io sono la caffetteria di riferimento, gli impiegati vengono qui a pranzo e per le colazioni, e anche i visitatori. Certo, non c’è un grande via vai, ma in tempo di crisi non si butta via niente. Dall’altro lato della stradina invece una ragazza ha aperto una libreria. Diciamo che rispetto agli anni in cui venivi tu le cose sono un po’ cambiate, questa piccola strada chiusa sta diventando un polo letterario».

    «Arte e libri insieme, mescolati al profumo del caffè e ai tuoi dolci… Che meraviglia» dico, e lo penso davvero: in pochi metri di strada pedonale sono racchiuse le cose che mi piacciono di più.

    «Sai, i miei dolci ci sono sempre meno: mi sto un po’ stancando e demotivando. Ho ridotto di molto il mio menù per combattere gli sprechi».

    «Capisco» rispondo un po’ triste. Purtroppo ho la brutta abitudine di credere di vivere sempre e costantemente in uno di quei film di Natale, dove tutto fila liscio, dove la gente resta in maniche corte anche sotto la neve, dove tutti i desideri si avverano e le persone sorridono e cantano.

    Lo so che in verità le cose sono un po’ diverse, ma credetemi, nel mio mondo si sta meglio.

    Simonetta pare leggermi nella mente e mi appoggia una mano sulla spalla. «Ma tu mia cara hai carta bianca, cerca solo di non farmi fallire. D’accordo?».

    «Ne sei certa?».

    «Riguardo ad avere carta bianca o al fallimento?» mi chiede, scoppiando a ridere.

    «Dai, Cecilia, vai dietro al bancone e fai i nostri caffè. Un po’ di pratica ti sarà d’aiuto e intanto raccontami un po’ di te: che cos’hai fatto in tutti questi anni?».

    Alzo gli occhi al cielo e sogghigno.

    «Se devo parlarti della mia vita, il caffè deve essere corretto con la grappa!».

    «Vanno così male le cose, tesoro mio?».

    «Non è che vanno, è che sono andate, e non torneranno più come prima» le dico, prima di prendere due tazzine e schiacciare il bottone che eroga il caffè.

    Io di solito non arrivo mai in ritardo agli appuntamenti, mai, questa volta invece sono arrivata al pranzo di famiglia con ben trenta minuti di ritardo. E per una coppia precisa e puntigliosa come i miei genitori trenta minuti sono un ritardo imperdonabile.

    Faccio un respiro profondo ed entro in casa.

    Coraggio, Cec, ce la puoi fare, cerco di rincuorarmi.

    «Ma benarrivata» mi saluta mia madre, vestita come sempre in modo impeccabile, i capelli come se fosse appena uscita dalla parrucchiera e i gioielli perfettamente abbinati, che neppure la regina inglese oserebbe tanto.

    «Grazie mamma».

    Lo so che il suo benarrivata non è sincero, e si dovrebbe tradurre con un alla buon’ora, ma decido di fingere anche io.

    Vado in sala da pranzo e trovo tutti gli altri; mio padre ed i miei fratelli, i rispettivi coniugi, i loro figli e la zia, che in verità è una prozia che vive a casa dei miei dacché io ho memoria, come una seconda nonna. Sono seduti sul divano con un calice di vino in mano, mentre sul tavolino ci sono un paio di piatti con delle tartine sopra.

    Sento un coro di Ciao, Cecilia, ma gli unici che sembrano veramente felici di vedermi sono mia zia e i miei nipoti.

    Al plurale, sì, visto che i miei fratelli hanno tutti prole al seguito.

    L’avevo detto io che siamo in tanti e pure rumorosi.

    Mio padre mi guarda senza dire niente, si capisce dal cipiglio che è contrariato, io sorrido accondiscendente, pensando che sia meglio non buttare benzina sul fuoco.

    «Cecilia, preferisci un bicchiere di vino o la colazione?» chiede tagliente, come solo lui sa essere.

    «Non mi sono appena svegliata, papà» ci tengo a precisare.

    «Ah no?».

    «No» rispondo fingendo allegria nella voce, mentre i miei fratelli restano in silenzio.

    «E allora a cosa dobbiamo questo ritardo?» rincara la dose lui, che sono sicura mi rinfaccerà per almeno altri cinque anni.

    «Al fatto che ho trovato lavoro».

    La mia risposta sembra stupirlo e rabbonirlo in un’unica mossa, e la cosa mi fa sentire più tranquilla.

    «In quale museo andrai a lavorare?».

    Eh beh, sì, ovvio, normale che lui avesse dato per scontato che io avessi trovato lavoro nel mio ambito, e invece no.

    «No, niente museo per adesso, ho cercato un’attività che fosse più sociale, a contatto con le persone, per capire il mondo che mi circonda». Parlo dicendo tutto e niente, lo so, e non sta neppure andando bene. Come potete immaginare a casa dei miei genitori non è facile neppure arrampicarsi sugli specchi; specchi che mia madre avrà sicuramente appena finito di pulire con lo spray.

    «E quindi di cosa ti occuperai?» chiede mio fratello Marco, felicemente sposato, padre amorevole, e spietato direttore di banca.

    «Sarò la futura Food, Coffee and Beverage maker in una piccola start-up, consolidata negli anni, ma che mantiene il suo spirito innovativo e la sua ricerca di prodotti ecosostenibili e biologici, con un occhio agli sprechi e alla finanza» dico tutto d’un fiato mentre mi verso un calice di vino e lo alzo verso di loro per fare un brindisi.

    Sono abbastanza certa che non abbiano capito nulla e va bene così, avranno tempo per chiedermi spiegazioni e capire che in verità faccio solo la barista.

    Per carità, non c’è nulla di male in quello che andrò a fare, ma nella mia famiglia non sono abituati a fallire: mio fratello Marco, il maggiore, voleva lavorare nel mondo della finanza ed ora è direttore di banca, poi ci sono le mie sorelle Elisa, moglie esemplare, madre modello e architetto di successo, e Serena, professoressa universitaria e ovviamente moglie e madre. Non sono invidiosa di loro, ma è come se per loro la vita fosse stata sempre in discesa e non riescono a capire che a volte le cose possono prendere anche un’altra direzione.

    La mamma ci invita ad andare a tavola, tutti si fiondano ad accaparrarsi il posto e io mi avvicino a mia zia per offrirle il braccio: lei ha ottant’anni, ma è incredibilmente in gamba, solo che a volte fa fatica ad alzarsi dalla poltrona.

    «Cos’è che fai in verità?» mi chiede all’orecchio, perché gli altri non ci sentano, «Non c’ho capito nulla con tutte quelle parole in inglese».

    «Faccio la barista da Simonetta» ammetto. «Speravo che blaterando parole in inglese papà non facesse tante domande».

    «Ottima tattica, bambina mia. E buon per te, avevi bisogno di un nuovo inizio».

    «Se ne parlassi con lui mi direbbe che dopo aver speso così tanti soldi nella mia istruzione e negli stage all’estero sono una povera derelitta a lavorare come barista, io che non sono neppure riuscita a tenermi un uomo».

    «Un conto è tenersi un uomo, un conto è avere al proprio fianco un ragazzino pomposo».

    «Pensavo ti piacesse…» le dico, un po’ stupita.

    «Solo perché piaceva a te. Vieni, sediamoci con gli altri».

    Andiamo in sala da pranzo e noto che ci sono solo due sedie vuote, oltre a quella di mia madre; una per me e una per mia zia.

    La sua si capisce qual è, visto che è una poltroncina rinforzata per farla stare più comoda e reggerla meglio. L’altra è posta dall’altro lato della tavolata, al quale, quando siamo tutti al completo, mio padre accosta un altro tavolo per farci stare tutti comodi; inutile dire che quella specie di prolunga, in tutta la storia della famiglia Guerra, è sempre stata adibita ad ospitare i bambini della famiglia.

    Eccomi qui, trent’anni e retrocessa, senza un giusto processo, al tavolo bambini.

    I miei nipoti più piccoli iniziano a contendersi me, e devo dire che la cosa mi riempie di orgoglio: almeno loro lottano per avermi vicina, cosa che il resto della famiglia sembra non voler fare.

    «Zia! Ti siedi vicino a me?».

    «No, vicino a me!».

    «Anche sul divano era seduta vicino a te, non è giusto» protesta anche la terza nipotina. Meno male che l’ultima è troppo piccola per prendere parte al battibecco, penso divertita.

    «Possiamo fare così: mi siederò in mezzo tra voi, due alla mia destra e due alla mia sinistra. Equo ed imparziale, che dite?».

    I piccoli annuiscono mentre gli altri due, ormai adolescenti, non si scompongono. L’unica cosa che vogliono è essere lasciati in pace sia dagli adulti che dai bambini.

    Prima di sedermi mi verso un bicchiere abbondante di vino, con un po’ di sfacciataggine lo riempio per bene e non rispondo neppure a mia sorella quando mi ricorda quante calorie contenga, mi limito a guardarla e annuire con un sorriso stampato sul volto; non è certo colpa mia se dalla mia parte di tavola non c’è alcool.

    Il bicchiere di vino per me è come la coperta di Linus. Non sono mica alcolizzata, ci tengo a precisarlo, è solo che in alcuni momenti il bicchiere serve un po’ come scudo.

    Sei a disagio? Bevi un sorso. Vuoi prenderti tempo prima di rispondere? Bevi un sorso. Sei nei guai? Fingi che il sorso ti sia andato di traverso e inizia a tossire. Sei veramente messa malissimo? Unisci tutti i sorsi e finisci la bottiglia.

    Seduta composta nella mia parte del tavolo inizio a pensare che, quasi quasi, sia stata una fortuna che io sia seduta tra i nani, mentre i

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