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E-book187 pagine2 ore

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Cos’è la realtà? Cos’è il tempo? Cos’è una storia? Alessandro non lo sa, ma quando vede il confine farsi sempre più sottile, fino a svanire sotto i suoi occhi, inizia a farsene un’idea.
di Carlo Porrini
Alessandro è un normalissimo ragazzo che vive la sua normalissima vita in un normalissimo paesino del centro Italia, almeno finché non inizia a sentire uno strano ronzio. All’inizio è solo un leggero fastidio, una sorta di acufene, ma ben presto si rivela essere qualcosa di più. Inizia a crescere d’intensità, si accompagna a un malessere che si fa sempre più opprimente, fino a sfociare in qualcosa che metterà a dura prova la propria sanità mentale. Si ritroverà di punto in bianco catapultato verso la più bizzarra serie di eventi della sua vita, in cui il confine che separa la realtà dall’immaginazione svanisce sotto i suoi occhi, e tutti i concetti cardini su cui ciascuno di noi basa la propria esistenza vengono messi in discussione, o addirittura demoliti.
Cos’è la realtà? Cos’è il tempo? Cos’è una storia? Alessandro non lo sa, ma quando vede quel confine farsi sempre più sottile, fino a svanire sotto i propri occhi, inizia a farsene un’idea.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2020
ISBN9788833284255
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    Anteprima del libro

    Jump - Carlo Porrini

    1. Eluria

    All’inizio rimasi sorpreso. Avevo seguito lo stesso percorso che da bambino facevo quasi ogni sabato e tutto era più o meno come lo ricordavo, eccetto una cosa: mancava una strada. Il campo da calcetto e il locale ormai in disuso in cui si tenevano le lezioni di catechismo erano rimasti a sonnecchiare al loro posto, ma della strada che scendeva alla destra dell’edificio non c’era proprio più traccia. Va bene che il paesaggio si modifica nel corso del tempo, ma questo era fin troppo strano. Rimasi lì, imbambolato. Con gli occhi della memoria vedevo una cosa, con gli occhi della realtà un’altra. Cercai i segni del cambiamento e il primo pensiero fu che l’avessero chiusa tempo addietro per ricavare nuovo terreno edificabile, ma lo mollai prima ancora di averlo concretizzato del tutto: non c’erano nuove strutture in quella direzione, solo le pendici della collina. Estrassi il telefono dalla tasca, aprii Google Maps e aprii la visione da satellite del punto in cui mi trovavo: niente. Era come se quella strada non fosse mai esistita. Non c’era nemmeno lo spazio per farla esistere; persino il boschetto era sparito, al suo posto un ampio viale alberato in terra battuta che sfociava sulla statale un paio di chilometri più avanti. Ricordavo ancora con estrema nitidezza il crepitio della ghiaia quando la bicicletta imboccava quella piccola discesa, il fresco dell’ombra degli alberi, l’odore dei pini, la luce del tardo pomeriggio che filtrava tra le chiome. Adoravo prendere quella scorciatoia; era forse l’unico motivo per cui continuavo ad andare al catechismo. Eppure di quella strada non c’era più traccia. Ero tornato lì spinto dalla nostalgia, in cerca di un pezzettino felice della mia infanzia e mi ero ritrovato con un grosso interrogativo.

    Ci rimasi male, mi sentii quasi sbagliato; quella sensazione mi rimase addosso per i giorni a seguire e divenne quasi un’ossessione. Com’era possibile che ricordassi qualcosa che non c’era mai stato?

    Un falso ricordo? Magari era un semplice equivoco; forse quella strada stava da qualche altra parte ed ero io a ricordarla nel posto sbagliato. Più me lo ripetevo e più la ragione mi suggeriva che era la risposta corretta; sotto sotto, però, non ci credevo. Il ricordo era troppo nitido per essere artefatto.

    La questione sarebbe morta lì, catalogata come scherzo del cervello, se non avessi fatto una ricerca su internet e scoperto che il fenomeno non era poi così raro: il web è pieno di gente che ricorda film con finali alternativi, eventi storici dall’esito diverso, particolari che cambiano. Per molti è un semplice processo che prende un pensiero, lo trasforma in fatto e lo getta nell’archivio dei ricordi; per i più romantici è la prova dell’esistenza di universi paralleli.

    La ragione da una parte e l’immaginazione dall’altra; una strada chiusa e una aperta. Decisi di avventurarmi nella seconda per gioco, conscio del fatto che fantasticare non ha mai fatto male a nessuno.

    E se quella strada esisteva davvero, ma in un universo così vicino al nostro che da bambino ne avevo percepito l’eco? E se questa eco fosse quella che noi chiamiamo ispirazione? La percezione di qualcosa che sta avvenendo a qualche universo di distanza? E se le storie non fossero poi così inventate?

    Ogni tanto torno davanti a quel campo di calcetto e mi fermo a guardare in direzione della strada che non esiste. È allora che sento l’ispirazione, la risonanza di qualcosa di così strano e immenso che seduce la mia immaginazione; la lascio avanzare lungo quel sentiero e ogni volta scopro particolari nuovi, come una biforcazione subito dopo la piccola discesa da cui ha origine la stradina e un vecchio cartello con su scritto Eluria che punta verso la sommità della collina.

    Non esiste un paese con quel nome su quella collina, almeno non in questo universo. Stavolta voglio spingermi oltre. Magari non è solo immaginazione; magari esistono davvero infiniti universi con infinite possibilità, e tutte le piccole differenze nei nostri ricordi ne sono la prova.

    Mi incammino verso Eluria alla ricerca di qualche storia da raccontarvi e vi lascio con una domanda: l’omino ritratto sulla confezione del Monopoly ha il monocolo, oppure no? Perché io sono sicuro di ricordarlo, e invece…

    2. Ronzio

    Un trillo familiare ruppe il filo dei pensieri di Alessandro e lo costrinse ad alzarsi dal letto. Teneva infatti la sveglia sulla scrivania, lontana dal comodino, e per zittirla doveva abbandonare il materasso.

    Quella mattina, però, era sveglio da un pezzo e, sdraiato a fissare la luce del sole che filtrava attraverso i fori delle tapparelle socchiuse, aveva perso la cognizione del tempo. L’aveva osservata percorrere il soffitto fino alla mensola con i libri, poi giù, verso la scrivania con il computer, per poi perdersi oltre il bordo del letto. Il sonno lo aveva abbandonato già alle prime luci, scacciato da quel dannato ronzio. Erano almeno due mesi che non si faceva sentire e Alex iniziava a essere fiducioso che si fosse trattato soltanto di un curioso disturbo passeggero. La diagnosi del medico era stata di acufene, forse dovuta a un’infiammazione del nervo acustico.

    La cosa aveva iniziato a preoccuparlo quando il fenomeno si era ripresentato dopo un apparente miglioramento; cresceva e diminuiva d’intensità senza accennare a volersi togliere dai piedi, nonostante le terapie. Aveva letto che quella particolare condizione poteva assumere un carattere cronico, accompagnando il malcapitato che l’avesse contratta anche per anni. Quando era sparita si era sentito notevolmente sollevato e aveva ritrovato il consueto ritmo, almeno fino a quella mattina.

    Più che il ronzio in sé, che era ridotto a un sommesso tono di sottofondo, lo disturbava il fatto che fosse di nuovo lì. Sperò che fosse un effetto collaterale di un po’ di freddo preso durante la notte, destinato a dileguarsi di lì a poco, ma non fu così.

    Guardò di nuovo la sveglia: segnava le 7:03. Si alzò per andare al lavoro.

    Si era diplomato due anni prima e un amico del padre lo aveva subito assunto nella sua compagnia di assicurazioni. Tra una telefonata e l’altra, quando i colleghi non c’erano il suo ufficio risultava particolarmente silenzioso; un palcoscenico perfetto per un ronzio a cui piace dar più fastidio possibile a chi lo ospita.

    Quando l’orologio nell’angolo in basso a destra del suo monitor lo informò che era giunto il momento della pausa pranzo, il ronzio era ancora aggrappato alle sue orecchie. Rassegnato, chiuse il portatile e si avviò verso il vociare sommesso che si andava addensando nel corridoio. Era ancora quello nuovo, nonostante lavorasse lì da quasi un anno e fosse un tipo socievole e dalla battuta pronta; almeno fino a che quel dannato ronzio non aveva preso a perseguitarlo.

    Dopo i primi tempi, in cui era risultato simpatico praticamente a tutti i suoi colleghi, era diventato sempre più suscettibile e, di conseguenza, sempre meno popolare. Certo, nei due mesi precedenti aveva messo molte pezze a quella falla, eppure temeva che le cose potessero tornare presto a peggiorare, se non si fosse sbarazzato di quel problema. Lo stress ne era sia causa sia diretta conseguenza, un perfetto esempio di cane che si morde la coda. Fece per afferrare la maniglia cromata della porta e una scarica di dolore gli attraversò le tempie. Strinse gli occhi, il volto contratto in una smorfia, e prese a massaggiarsi le tempie, mentre i suoi colleghi avevano iniziato il solito esodo verso la tavola calda. Valutò l’ipotesi di seguirli, ma quell’improvviso malessere lo costrinse a compiere un dietrofront in direzione della sua comoda sedia in pelle. Vi si lasciò cadere di peso, scostò il computer portatile e appoggiò il viso tra le braccia conserte sulla scrivania. Il ronzio era più forte che mai. Alex si preparava ad aggiungere emicrania ai problemi da debellare.

    Entrò in casa e il debole odore del sugo preparato dalla madre la sera prima, che aleggiava ancora nell’aria, gli fece storcere il naso e chiudere lo stomaco. Barcollò verso il bagno, fino all’armadietto dei medicinali e cercò qualcosa più forte delle due aspirine che aveva preso durante la giornata, e che non avevano avuto alcun effetto. Non gli piaceva prendere medicine, ma ancora meno gli piaceva quel mal di testa. Lo sforzo di riconoscere i nomi stampati sulle scatole dei medicinali accentuò il fastidio; le tempie gli pulsavano di dolore. Sbatté l’anta dell’armadietto e uscì dal bagno massaggiandosi la fronte.

    Ancora meravigliato dal fatto di essere riuscito a mettere in moto la macchina e guidare fin lì, si gettò sul divano. Un bicchierino di grappa forse lo avrebbe sbloccato. Si maledisse per non averci pensato prima, ma si alzò a fatica, diretto in cucina. Lungo il tragitto il bicchierino crebbe di volume, fino a diventare una bottiglia intera. Aprì lo stipetto dove i suoi genitori tenevano i pochi superalcolici e agguantò la bottiglia della grappa. Mischiare medicinali e alcool non era certo una buona idea, ma era l’unica che avesse al momento. Se ne andò in camera sua, accese il televisore e sprofondò nella comoda poltrona. Qualche sorsata bastò a stordirgli i sensi, la stanchezza fece il resto. Il sole non era ancora sparito oltre l’orizzonte, ma Alex russava già, la coscienza persa nel mondo dei sogni. La bottiglia di grappa gli scivolò dalle mani e ruzzolò a terra, un po’ di liquore cadde sul pavimento.

    * * *

    Subito sotto, per le viuzze di Eluria, un signore a spasso con il suo cagnolino giurò di aver sentito un ronzio, tanto che alzò gli occhi verso i cornicioni delle vecchie case cercando qualcosa simile a un alveare, ma non vide alcunché di sospetto. Il cane tirò il guinzaglio sulla scia di qualche odore invitante, accompagnando il signore fuori da questa storia.

    * * *

    Quando si svegliò, ancora intontito, il sole era già alto e l’istinto tentava di comunicargli qualcosa di importante. Fece mente locale e ricostruì le ultime fasi della sera prima, ma trovò solo qualche frammento di sogno. Tentò di rimetterli assieme, consapevole del fatto che, come succedeva sempre, sarebbero svaniti nel giro di qualche minuto, ma non ci riuscì. C’era qualcosa di strano in quei sogni, ma non avrebbe saputo dire cosa. Ci avrebbe riflettuto più tardi, ora c’era qualcosa di urgente di cui occuparsi, ma non riusciva ancora a inquadrarla. Improvvisamente strabuzzò gli occhi e per poco non si lasciò sfuggire un’imprecazione. Era in un ritardo mostruoso. Si alzò di scatto dalla poltrona, procurandosi una vertigine che per poco non lo fece ripiombare giù; cercò di raggiungere il bagno, ma inciampò sulla bottiglia di grappa e non finì disteso a terra solo perché il peso si spostò all’indietro, facendolo schiantare di nuovo sulla poltrona.

    «Cazzo!»

    Cercò a tentoni il telefono nella tasca dei jeans e lo tirò fuori: la batteria era esaurita. Stava già mettendo insieme una scusa che sembrasse credibile, quando un briciolo di speranza si fece strada nella sua disperazione. Il cellulare non poteva confermarlo, morto com’era, così, a fatica, si trascinò fino al comodino per collegarlo alla corrente. Passò qualche minuto prima che il sistema si avviasse, ma la speranza si trasformò in sollievo quando sullo schermo lesse sabato.

    Coprendosi gli occhi con le mani, si lasciò cadere sul letto mormorando: «Ma che cazzo succede?»

    La grappa era la principale indiziata per lo stato in cui versava, eppure c’era qualcos’altro. Il ronzio era ancora lì, ma non era come la sera prima; ora sembrava un vero e proprio suono, piuttosto che un disturbo nella testa.

    Un caffè gli avrebbe schiarito le idee.

    Andò in cucina e prese la moca, affidando i movimenti alla memoria muscolare. Fece scorrere l’acqua dal rubinetto, ma quando fu il momento di riempire la caldaia qualcosa lo fermò: non riusciva a staccare gli occhi dall’acqua che scorreva. Il rumore iniziò a somigliare al suono delle onde del mare. Un forte profumo di salsedine gli inondò le narici. Il senso dell’equilibrio lo abbandonò; la sua coscienza se ne stava andando per i fatti suoi.

    3. Il pescatore

    Appollaiata su una piccola altura al limitare della lunga spiaggia, la casa di mattoni rossi sembrava sonnecchiare. Quella mattina una leggera brezza accarezzava i ciuffi d’erba che le crescevano intorno; ogni tanto una folata più intensa li investiva, scacciando le ultime gocce di rugiada che si andavano pian piano asciugando.

    La porta in legno, di un rosso sbiadito dal tempo e dalla salsedine, si aprì cigolando nella fresca aria mattutina. Un uomo uscì, sostò sul portico e fece vagare lo sguardo sull’orto, cinto da uno steccato. Non cresceva più niente, su quella terra. Diede un’ultima occhiata alle proprie spalle, verso la piccola abitazione in cui aveva vissuto fin da quando aveva memoria, poi chiuse la porta. Rimase per qualche istante a farsi accarezzare dal vento, ammirando quello spettacolo della natura che non riusciva mai a stancarlo.

    Le onde si infrangevano sui faraglioni rocciosi che spuntavano dall’acqua e davano al panorama un aspetto selvaggio, da isola deserta. La collinetta declinava dolcemente verso una lingua di sabbia che si perdeva all’orizzonte in entrambe le direzioni. Indugiò un ultimo istante, con gli occhi socchiusi per proteggersi dalla luce del sole, prese una grossa boccata d’aria e iniziò la discesa. Raggiunse la riva e la piccola imbarcazione che sostava al limitare del segno scuro lasciato dell’alta marea. Il sole aveva appena iniziato il suo lungo tragitto nella volta celeste; il cielo rosso dell’alba acquistava poco a poco la tinta azzurra di una bella giornata di primavera.

    L’uomo era vecchio, non si

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