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Shadowsong
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E-book393 pagine5 ore

Shadowsong

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Info su questo ebook

La serie che sta incantando il mondo

Perditi ancora in un mondo di bellezza e oscurità

Autrice del bestseller Wintersong

Sei mesi dopo essere riemersa dal Sottosuolo, Liesl si sta impegnando per promuovere, oltre alla carriera musicale del fratello, anche la propria. È determinata a concentrarsi sul futuro, senza pensare al passato, ma la vita nel mondo di sopra non è semplice. Suo fratello Josef è freddo, distante e riservato, mentre Liesl non riesce a smettere di pensare all’uomo misterioso che ha dovuto abbandonare oltre la barriera magica, colui che ha saputo ispirarle nel cuore una musica struggente e bellissima. Ma quando l’equilibrio tra i due mondi all’improvviso comincia a vacillare, Liesl dovrà fare ritorno nel Sottosuolo per risolvere un mistero che riguarda la vita, la morte… e il suo amato Re dei Goblin. Chi è? Da dove viene? Qual è il suo destino? Ora che il patto è stato infranto, il prezzo da pagare è altissimo: una vita per una vita. Se Liesl vuole davvero scoprire la verità, dovrà infrangere tutte le antiche leggi e sacrificarsi in nome di ciò che ama. Ma compiere questa scelta la renderà libera una volta per tutte o la condannerà per sempre?

Il nuovo capitolo della serie più attesa dell'anno

La musica sa parlare quando le parole non arrivano

Hanno detto di Wintersong:
«Ricco di musica, personaggi straordinari e storie avvincenti, Wintersong trasporta il lettore in un’atmosfera magica.»
Ragazzamoderna.it

«Avvincente, sensuale e romantico, Wintersong è una gioia per i sensi. Avrei voluto che non finisse mai.»
Renée Ahdieh, autrice del bestseller La moglie del califfo

«Jae-Jones descrive splendidamente la magia dell’amore, il potere della musica e l’importanza del libero arbitrio.»
Publishers Weekly

«Una storia con la struttura di una sonata: il movimento finale culmina in un colpo di scena che lascerà i lettori a bocca aperta.»
Kirkus Reviews
S. Jae-Jones
è un’artista e una scrittrice. Nata e cresciuta nella soleggiata Los Angeles, ha vissuto dieci anni a New York – dove ha lavorato come editor di narrativa Young Adult – prima di trasferirsi nel North Carolina. Quando non è impegnata a scrivere, la si può trovare a scalare rocce, praticare skydiving, far fotografie, disegnare o trascinare il suo cane in lunghissime escursioni. Ha ottenuto un grande successo con Wintersong, di cui Shadowsong è il seguito.
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2018
ISBN9788822726872
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    Anteprima del libro

    Shadowsong - Jones

    EN.jpg

    Indice

    PARTE I

    L’invito

    Il prezzo del sale

    I matti, i timorosi, i fedeli

    L’utilità della fuga

    Una tempesta nel sangue

    Un regno da cui fuggire

    INTERLUDIO

    PARTE II

    Strane inclinazioni

    Faglie

    La casa dei folli e dei sognatori

    Il labirinto

    Pelli d’agnello

    Coloro che appartengono all’Erlkönig

    La fine del mondo

    INTERLUDIO

    PARTE III

    Residenza Snovin

    Il legame fra noi

    La leggenda della fanciulla coraggiosa, ritornello

    Il vecchio monastero

    Il mostro che bramo

    Changeling

    INTERMEZZO

    L’oblio

    Lui appartiene all’Erlkönig ormai

    La fine della fanciulla coraggiosa

    INTERLUDIO

    PARTE IV

    Il ritorno della Regina dei Goblin

    Alla rovescia

    Tutto il cuore e un mondo intero

    FINALE

    CODA

    Ringraziamenti

    Nota dell’autrice

    Guida ai termini musicali

    narrativa_fmt.png

    2110

    Della stessa autrice

    Wintersong


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Titolo originale: Shadowsong

    Copyright © 2018 by S. Jae-Jones

    All rights reserved

    Translation rights arranged by

    Jill Grinberg Literary Management LLC and The Italian Literary Agency

    Traduzione dall’inglese di Beatrice Messineo

    Prima edizione ebook: novembre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2687-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    S. Jae-Jones

    Shadowsong

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    A tutti i mostri,

    e a coloro che ci amano

    Ricordami quando sarò andata

    lontano, nelle lande del silenzio,

    e non mi potrai tenere per mano,

    e io non potrò ricambiare il saluto.

    Ricordami quando non potrai

    dirmi il nostro futuro, come lo hai pensato;

    ricordami e basta, sai,

    sarà tardi per parole e preghiere.

    Anche se dovessi dimenticarmi per un po’

    e ricordare in seguito, non dispiacerti:

    perché se l’oscurità e la corruzione lasciano

    una vestigia dei pensieri che un tempo ebbi,

    per te è molto meglio scordare e sorridere

    che rammentare e soffrire.

    Christina Rossetti, Ricordami

    A Franz Josef Johannes Gottlieb Vogler,

    presso maestro Antonius,

    Parigi

    Mio carissimo Sepperl,

    si dice che piovesse quando è morto Mozart.

    Forse Dio trova appropriato piangere ai funerali dei musicisti, dato che pioveva a dirotto anche quando abbiamo sepolto papà nel cimitero della chiesa. Il prete ha recitato le preghiere sul suo corpo con un’insolita fretta, desideroso di sottrarsi al freddo, al fango e al liquame. Gli unici presenti, a parte i familiari, erano i dipendenti della locanda di papà che si sono dileguati non appena hanno capito che non ci sarebbe stata nessuna veglia funebre.

    Dove sei, mein Brüderchen? Dove sei?

    Nostro padre ci ha lasciato una bella eredità, Sepp – musica, certo, ma soprattutto debiti. Io e mamma abbiamo esaminato i nostri conti più e più volte, cercando di conciliare ciò che dobbiamo saldare e ciò che possiamo guadagnare. Lottiamo per non affogare, per tenere la testa fuori dall’acqua mentre la locanda lentamente ci trascina a fondo, nell’oblio. Le nostre entrate sono esigue e le nostre tasche sono vuote.

    Almeno siamo riuscite a mettere insieme quanto bastava per seppellire papà in una tomba come si deve. Almeno le sue ossa giaceranno insieme a quelle dei suoi antenati, anziché consumarsi nella fossa comune fuori dal villaggio. Almeno, almeno, almeno.

    Avrei voluto che fossi presente anche tu, Sepp. Avresti dovuto esserci anche tu.

    Perché tutto questo silenzio?

    Sei mesi sono trascorsi, e mai una parola da parte tua. Forse le mie lettere sono arrivate sempre troppo tardi? Tu eri già alla tappa successiva del tuo peregrinare, nella città seguente, in partenza per una nuova esibizione? È per questo che non mi hai mai risposto? Lo sai che papà è morto? Che Käthe ha rotto il fidanzamento con Hans? Che Constanze diventa sempre più strana ed eccentrica giorno dopo giorno, che mamma – la nostra stoica, determinata, concreta madre – piange quando pensa che nessuno la veda? O il tuo silenzio è solo un modo per punirmi per il tempo che ho trascorso nel Sottosuolo, irraggiungibile?

    Mio caro fratello, mi dispiace. Se potessi scrivere un migliaio di canzoni o un migliaio di poesie, le userei tutte per dirti quanto mi dispiace di aver infranto la mia promessa. Abbiamo giurato che la distanza non ci avrebbe cambiati. Abbiamo giurato che ci saremmo scritti. Abbiamo giurato che avremmo condiviso la nostra musica tramite la carta, l’inchiostro e il sangue. Io ho infranto quelle promesse. E posso solo sperare che mi perdonerai. Ho così tante cose da condividere, Sepp. Così tante cose da farti ascoltare.

    Rispondi presto, ti prego. Ci manchi. Manchi alla mamma, manchi a Käthe, manchi a Constanze, ma soprattutto manchi a me.

    La tua sempre amorevole sorella,

    compositrice dell’Erlkönig

    A Franz Josef Johannes Gottlieb Vogler,

    presso maestro Antonius,

    Parigi

    Mein liebes Brüderchen,

    un’altra morte, un altro funerale, un’altra veglia. Frau Berchtold è stata trovata senza vita nel suo letto la settimana scorsa, con il gelo sulle labbra e un segno argentato sulla gola. Ti ricordi di Frau Berchtold? Ci sgridava sempre per aver corrotto i bravi bambini del villaggio timorati di Dio con i nostri terribili racconti del Sottosuolo.

    E ora se n’è andata.

    È stata la terza, questo mese, a morire così. Cominciamo tutti a temere che si tratti di un’epidemia. Ma se fosse davvero una malattia, sarebbe ben diversa da qualsiasi altra piaga conosciuta in precedenza. Nessun sintomo, nessuna ferita, nessun segno di malessere, nulla di visibile. Il morto risulta intatto, integro, salvo per quel bacio d’argento che ha sfiorato le labbra e il collo. I decessi non hanno capo né coda; colpiscono i vecchi e i giovani, gli uomini e le donne, i sani e gli infermi, i forti e i deboli, senza nessuna distinzione.

    È per questo che non scrivi? Sei in salute, arzillo, integro? Sei vivo, almeno? O la prossima lettera che recherà il tuo nome mi spezzerà il cuore e avrò solo un altro funerale da organizzare?

    Gli anziani del villaggio mormorano di tragici presagi. «Il bacio dell’elfo», dicono. «Il marchio del Goblin. È opera del diavolo. Tenete a mente le nostre parole: presto andremo incontro a guai seri».

    Il marchio del Goblin. Un segno argentato sulla gola. Il gelo sulle labbra. Non so quali presagi siano questi. Un tempo credevo che l’amore fosse sufficiente a mandare avanti il mondo. Che fosse abbastanza potente da superare le leggi antiche. Ma ho assistito con i miei occhi al lento disfarsi della ragione e dell’ordine nel nostro piccolo villaggio noioso e arretrato, al rifiuto del pensiero illuminato, al ritorno dei vecchi rimedi. Sale gettato su ogni soglia, su ogni uscio. Perfino il vecchio parroco ha cercato di proteggere le scale della nostra chiesa dal male, con delle strisce bianche, ben dritte, che ugualmente confondono i confini fra il sacro e la superstizione.

    Constanze non è d’alcun aiuto. Non ha molta voglia di parlare ultimamente, non che la nonna sia mai stata logorroica. Ma, a dir la verità, un po’ mi preoccupa. Lascia le sue stanze raramente in questi giorni e, quando lo fa, non è possibile prevedere come si comporterà. A volte è vigile, con lo sguardo attento e irascibile come al solito ma, altre volte, sembra che viva in un altro anno, in un’altra era.

    Ogni sera, io e Käthe lasciamo coscienziosamente un vassoio pieno di cibo sul pianerottolo di fronte alla sua porta, ma puntualmente ogni mattina lo troviamo intatto. Magari ha dato qualche morso di pane e formaggio, ha lasciato qualche gocciolina di latte sul pavimento, come le impronte di una fatina. Ma a quanto pare Constanze trae il suo nutrimento esclusivamente dalla paura e dalla fiducia nell’Erlkönig.

    Ma non si può vivere di sola fede.

    Scorre la pazzia nel suo sangue, direbbe la mamma. Ossessione e malinconia.

    Pazzia.

    La mamma direbbe anche che papà beveva per allontanare i suoi demoni, per quietare la tempesta che aveva dentro. Suo nonno, il padre di Constanze, in quella tempesta era invece affogato. Mentre papà è affogato prima nell’alcol. Non l’ho capito finché non ho avuto anch’io i miei demoni.

    A volte, temo che infuri una tempesta anche dentro di me. Pazzia, ossessione, malinconia. Musica, magia, ricordi. Un vortice che ruota attorno a una verità che non voglio ammettere. Non dormo più, perché ho paura dei segni e delle meraviglie che potrei vedere al mio risveglio. Piante spinose avvolte intorno ai rami, lo schiocco di una mascella nera e invisibile, petali candidi che sanguinano.

    Vorrei che fossi qui. Hai sempre saputo raddrizzare i miei pensieri erranti e sconnessi e sfoltire la selva della mia immaginazione fino a farne un bellissimo giardino. C’è un’ombra sulla mia anima, Sepperl. Non sono solo i morti a essere stati marchiati dai Goblin.

    Aiutami, Sepp. Aiutami a dare un senso a me stessa.

    Per sempre tua,

    la compositrice dell’Erlkönig

    A Franz Josef Johannes Gottlieb Vogler,

    presso maestro Antonius,

    Parigi

    Carissimo,

    le stagioni passano e io non ho ancora tue notizie. L’inverno è finito, ma il ghiaccio tarda a sciogliersi. Gli alberi tremano al vento, con i rami spogli e privi di germogli. L’aria non sa più di ghiaccio e torpore, ma la brezza fresca non reca ancora il profumo di verde e umidità.

    Non ho più messo piede nella Radura dei Goblin dall’inizio dell’estate e nessuno ha toccato il pianoforte nella tua stanza dalla morte di papà.

    Non so cosa dirti, mein Brüderchen. Ho infranto le mie promesse ben due volte: sono stata irraggiungibile e non ti ho scritto. Non parole, ma melodie. Accordi. Armonie. La Sonata per la notte di nozze è ancora incompleta, l’ultimo movimento ancora da scrivere. Quando il sole sarà alto e il mondo luminoso, troverò una miriade di scuse per non comporre – negli angoli da spolverare, nei registri da riempire, nelle dispense di farina, lievito, zucchero, burro, in tutte le minuzie quotidiane della gestione di una locanda.

    Ma con il buio è diverso. Fra tramonto e alba, nelle ore in cui coboldi e hödekin combinano guai nei boschi, la ragione è solo una.

    Il Re dei Goblin.

    Non sono stata onesta con te, Sepp. Non ti ho raccontato tutta la storia, nella convinzione che avrei potuto farlo di persona. Non è una storia che si può affidare alle parole, poiché non sarebbero sufficienti. Ma dovrò tentare lo stesso.

    C’era una volta una bambina che suonava la sua musica per un bambino nella foresta. Lei era la figlia di un locandiere e lui il Signore degli Inganni, ma entrambi celavano più di quanto rivelassero, perché nulla è semplice come una fiaba.

    Per un anno, sono stata la sposa del Re dei Goblin.

    E questa non è affatto una fiaba, mein Brüderchen, ma la pura verità. Due inverni fa, l’Erlkönig rapì nostra sorella e io mi avventurai nel Sottosuolo per trovarla.

    Ma trovai me stessa, invece.

    Käthe lo sa. Käthe sa meglio di chiunque altro cosa vuol dire essere sepolti nel regno dei goblin. Ma nostra sorella non capisce quello che invece capiresti tu: che io non ero intrappolata in una prigione dell’Erlkönig, ma che sono diventata la Regina dei Goblin di mia spontanea volontà. Lei non sa che il mostro che ha rapito lei è il mostro che io bramo. Pensava che fossi riuscita a scappare dalle grinfie del Re dei Goblin. Ma lui mi ha lasciata andare.

    Mi ha lasciata andare.

    Per anni ci siamo seduti ai piedi di Constanze ad ascoltare le sue storie, e mai, neanche una volta, ci ha raccontato che cosa accade dopo che i goblin ti portano via. Mai, neanche una volta, ci ha detto che il Sottosuolo e il mondo esterno sono vicini e lontani allo stesso tempo, come due facce di uno stesso specchio: ciascuna riflette l’altra. Una vita per una vita. Non ci ha detto che una vergine deve sacrificarsi per far rifiorire la terra morta. Dall’inverno alla primavera. Non ce lo ha mai detto.

    Ma ciò che la nonna avrebbe dovuto dirci era che non è la vita a muovere il mondo, ma l’amore. Io mi aggrappo all’amore, la promessa che mi ha permesso di andarmene dal Sottosuolo. Da lui. Dal Re dei Goblin.

    Non so come finisce la storia.

    Oh, Sepp. È dura, molto più dura di quanto avessi immaginato, dover affrontare ogni giorno così come sono, sola e intatta. È da tempo che non metto piede nella Radura dei Goblin perché non posso fronteggiare la mia solitudine e il mio rimorso, perché rifiuto di condannarmi a una mezza vita di desiderio e rammarico. Anche solo parlare, rievocare quelle ore passate nel Sottosuolo con lui, con il mio Re dei Goblin, è un’agonia. Come faccio ad andare avanti quando sono tormentata dai fantasmi? Io lo sento, Sepp. Sento il Re dei Goblin quando suono, quando lavoro alla Sonata per la notte di nozze. Le carezze della sua mano sui miei capelli. Il tocco delle sue labbra sulla mia guancia. Il suono della sua voce, che mormora il mio nome.

    Scorre la pazzia nel nostro sangue.

    Quando ti ho spedito le pagine della Sonata per la notte di nozze pensavo che avresti scovato il filo conduttore nella musica e dato compiutezza alle idee irrisolte. Ma devo riconoscere le mie colpe. Me ne sono andata io, quindi tocca a me scrivere il finale. Da sola.

    Voglio allontanarmi. Voglio scappare. Voglio vivere la mia vita fino in fondo, fra torte di cioccolato e ciliegie e musica. E applausi. Consenso. Cose che non posso trovare qui.

    Per questo mi rivolgo a te, Sepp. Solo tu puoi capirmi. Prego che tu possa capirmi. Non lasciarmi affrontare questa oscurità da sola.

    Ti prego, scrivimi. Ti prego.

    Ti prego.

    Tua, nella musica e nella pazzia,

    la compositrice dell’Erlkönig

    A Maria Elisabeth Ingeborg Vogler

    Maestro Antonius è morto. Sono a Vienna. Vieni subito.

    PARTE I

    ETERNAMENTE TUO

    Posso vivere soltanto e unicamente con te, oppure non vivere più.

    Ludwig van Beethoven, Lettere all’amata immortale

    L’invito

    «Assolutamente no», disse Constanze battendo il bastone sul pavimento. «Te lo proibisco!».

    Eravamo tutte in cucina per la cena. Nostra madre stava lavando le stoviglie dei clienti, mentre Käthe metteva insieme un piatto veloce per noi, a base di spätzle e cipolle fritte. La lettera di Josef era aperta e in bella mostra sul tavolo, mia fonte di salvezza e tormento per nonna.

    Maestro Antonius è morto. Sono a Vienna. Vieni subito.

    Vieni subito. Le parole di mio fratello impresse sulla carta erano nude e semplici, eppure né io né Constanze riuscivamo a venire a capo del loro significato. Per me si trattava di un invito. Per mia nonna, di qualcos’altro.

    «Mi proibisci cosa?», rimbeccai io. «Di rispondere a Josef?»

    «Di assecondare tuo fratello con queste sciocchezze!». Constanze puntò un enfatico dito accusatorio contro la lettera sul tavolo in mezzo a noi, indicando poi con un ampio e impreciso gesto l’oscurità in agguato all’esterno, in quel mondo sconosciuto che si apriva fuori dalla nostra porta. «Questa… questa follia musicale!».

    «Follia?», domandò mia madre con un tono tagliente, smettendo per un attimo di sgrassare le pentole e le padelle. «Quale follia, Constanze? La sua carriera, intendi?».

    L’anno precedente, mio fratello si era lasciato alle spalle il mondo conosciuto per seguire i suoi sogni – i nostri sogni – e diventare un violinista di prim’ordine. Se dirigere la locanda era stato il nostro pane quotidiano per generazioni, la musica era sempre stata la nostra manna. Un tempo papà aveva lavorato come musicista alla corte di Salisburgo, dove aveva incontrato nostra madre, cantante in una compagnia. Ma questo prima che il suo stile di vita dissoluto e dissipatore lo trascinasse di nuovo nei meandri della Baviera. Josef era il migliore fra tutti noi, il più educato, il più disciplinato, il più talentuoso. E aveva fatto ciò che noi non avevamo potuto fare: era scappato.

    «Non sono affari tuoi», rispose Constanze alla nuora. «Non ficcare quel naso aguzzo e indagatore in questioni di cui non sai niente».

    «Sono anche affari miei, invece». Le narici di mia madre si erano dilatate. Freddezza, calma e compostezza avevano sempre contraddistinto il suo comportamento, ma la nonna sapeva toccare le corde giuste. «Josef è mio figlio».

    «È il figlio dell’Erlkönig», bofonchiò Constanze. Gli occhi scuri le brillarono di una speranza quasi febbrile. «Non tuo».

    La mamma alzò gli occhi al cielo e riprese a lavare i piatti. «Ne ho abbastanza dei goblin e delle tue parole senza senso, vecchia scopa che non sei altro. Josef è troppo grande per queste fiabe e fesserie».

    «Dillo a quella lì!». Constanze stavolta puntò il dito ossuto contro di me e io mi sentii colpire dalla forza del suo fervore come da un pugno allo stomaco. «Lei crede. Lei sa. Lei ha il marchio del Re dei Goblin nell’anima».

    Un brivido di disagio mi corse lungo la schiena, polpastrelli gelati che mi accarezzavano la pelle. Non dissi nulla, ma sentii addosso lo sguardo curioso di Käthe. Un tempo avrebbe preso in giro le sciocche superstizioni della nonna insieme a nostra madre, ma mia sorella era cambiata.

    Io ero cambiata.

    «Dobbiamo pensare al futuro di Josef», dissi cautamente. «A ciò di cui ha bisogno».

    Ma di cosa aveva bisogno mio fratello? La lettera era arrivata soltanto il giorno prima, ma l’avevo già letta e riletta fino a consumarla, a piegarla sotto il peso delle mie domande mute e prive di risposta. Vieni subito. Che voleva dire? Dovevo raggiungerlo? E come? Perché?

    «Quello di cui Josef ha bisogno», rispose Constanze, «è tornare a casa».

    «E che cosa c’è qui per mio figlio?», chiese la mamma, aggredendo con rabbia delle vecchie macchie di ruggine su una padella ammaccata.

    Io e Käthe ci scambiammo uno sguardo, ma tenemmo le mani impegnate e la bocca chiusa.

    «Nulla, ecco che cosa», continuò con una punta d’amarezza. «Nulla, a parte un lungo e lento viaggio verso un ospizio per poveri». Mise a posto la spugna con impeto improvviso e si strinse il ponte del naso con le dita ancora sporche di schiuma. Il solco fra le sopracciglia appariva e scompariva, appariva e scompariva fin dalla morte di papà, scavando sempre più a fondo giorno dopo giorno.

    «E dovremmo lasciare Josef a cavarsela da solo?», domandai. «Cosa farà così lontano da casa e senza amici?».

    Mia madre si morse un labbro. «Cosa vorresti che facessimo, eh?».

    Non avevo risposte. Non avevamo abbastanza soldi per partire a nostra volta o riportarlo a casa.

    Scosse la testa. «No», disse in tono risoluto. «È meglio che Josef resti a Vienna. Tenterà la fortuna e lascerà il suo segno nel mondo come Dio vuole».

    «Non importa cosa vuole Dio», rispose Constanze cupamente, «ma ciò che esigono le vecchie leggi. Derubale del loro sacrificio e ne pagherai le conseguenze. La Caccia Selvaggia si avvicina e porterà con sé morte, distruzione e sventura».

    Un improvviso sibilo di dolore. Alzai lo sguardo e vidi Käthe succhiarsi una nocca accidentalmente tagliata con il coltello. Ricominciò subito a preparare la cena, ma le mani le tremavano ancora mentre sezionava la pasta morbida. Mi alzai per prendere il posto di mia sorella nella preparazione degli spätzle e lei, sollevata, andò a friggere le cipolle.

    La mamma emise un verso di disgusto. «Oh, no, ci risiamo». Lei e Constanze si azzuffavano da che ne avevo memoria, i loro battibecchi erano familiari come le melodie suonate da Josef durante le sue esercitazioni. Nemmeno papà era riuscito a mettere pace fra loro, dato che era sempre remissivo con la madre nonostante preferisse parteggiare per la moglie. «Se non fossi già certa che ti hanno riservato un bel posto comodo all’inferno, rompiscatole di un’arpia, pregherei per la tua anima».

    Constanze batté una mano sul tavolo, facendo saltare la lettera insieme a tutte noi. «Non capisci che è l’anima di Josef che sto cercando di salvare?», urlò, mentre spruzzi di saliva le volavano dalle labbra.

    Restammo tutte senza parole. Nonostante la sua natura irritabile e irascibile, Constanze raramente perdeva la calma. A modo suo era costante e affidabile come un metronomo, ticchettava fra il disprezzo e il disdegno. La nonna era temibile, ma temuta solo di rado.

    Poi mi tornò in mente la voce di mio fratello. Sono nato qui. E devo morire qui.

    Feci scivolare distrattamente la pasta nella pentola, bruciandomi con l’acqua bollente. Inattesa, l’immagine di due occhi neri come il carbone su un viso tagliente affiorò dai meandri della mia memoria.

    «Ragazzina», parlò Constanze con voce stridula. «Tu sai cos’è lui».

    Io non risposi. Il brontolio dell’acqua bollente e lo sfrigolio delle cipolle nell’olio erano gli unici suoni nella cucina mentre io e Käthe finivamo di preparare la cena.

    «Cosa?», chiese mia madre. «Che vuoi dire?».

    Käthe mi lanciò un’occhiata di sbieco, ma io mi limitai a tagliare gli spätzle e gettare gli spaghetti in padella insieme alle cipolle.

    «Di che diavolo state parlando?», domandò mia madre. Si voltò verso di me. «Liesl?».

    Chiesi a Käthe di portarmi i piatti e cominciai a servire la cena.

    «Ebbene?», mi derise Constanze. «Allora, non dici nulla, ragazzina?».

    Tu sai cos’è lui.

    Ripensai ai desideri futili che da bambina esprimevo al buio – volevo essere bella, brava, apprezzata. Ma mai avevo desiderato qualcosa con tanto ardore come la notte in cui mi ero trovata di fronte al pianto flebile di mio fratello. Io, Käthe e Josef prendemmo la scarlattina da bambini. Io e Käthe eravamo piccole, ma Josef… Josef non era che un neonato. Guarimmo; per me e mia sorella il peggio era passato, ma lui riemerse dalla malattia come se fosse un bambino diverso.

    Un changeling.

    «So esattamente chi è mio fratello», dissi a bassa voce, parlando a me stessa più che a mia nonna. Le piazzai davanti un piatto pieno di spaghetti e cipolle. «Mangia».

    «E allora saprai anche perché Josef deve tornare», mi rispose Constanze. «E perché deve far ritorno a casa e vivere».

    Tutti torniamo alla fine.

    Un changeling non può vagare lontano dal Sottosuolo, altrimenti rischia di avvizzire e scomparire. Mio fratello poteva vivere fuori dalla portata dell’Erlkönig esclusivamente grazie alla forza dell’amore. Del mio amore. Solo questo lo rendeva libero.

    Poi mi ricordai il tocco di quelle dita esili che si arrampicavano sulla mia pelle come dei rovi secchi, un viso formato da mani e un migliaio di voci sibilanti che bisbigliavano: Il tuo amore è una gabbia, mortale.

    Fissai la lettera sul tavolo. Vieni subito.

    «Mangi la tua cena o no?», chiesi indicando il piatto pieno di Constanze.

    Lei lanciò al cibo uno sguardo sprezzante e storse il naso. «Non ho fame».

    «Allora non avrai nient’altro, brontolona ingrata». La mamma affondò la forchetta nel piatto con rabbia. «Non possiamo permetterci di assecondare i tuoi gusti bizzarri. Possiamo a malapena permetterci questo».

    Le sue parole caddero come un macigno nel bel mezzo della cena. Umiliata, Constanze raccolse la forchetta e cominciò a mangiare, mandando giù quella triste affermazione insieme al cibo. Nonostante fossimo riuscite a pagare tutti i debiti di papà dopo la sua morte, per ogni conto saldato ne spuntava un altro al suo posto: nuove falle in una nave che stava affondando.

    Finito di mangiare, Käthe sparecchiò la tavola mentre io cominciai a lavare i piatti.

    «Andiamo», disse mia madre porgendo un braccio a Constanze. «Ti accompagno a letto».

    «No, non tu», rispose la nonna con una punta di disprezzo. «Tu sei inutile. Mi accompagnerà la ragazza».

    «La ragazza ha un nome», dissi senza guardarla.

    «Stavo forse parlando con te, Elisabeth?», fu la risposta seccata di Constanze.

    Sorpresa, sollevai lo sguardo e vidi mia nonna che fissava Käthe.

    «Io?», domandò mia sorella, stupefatta.

    «Sì, tu, Magda», rispose Constanze stizzita. «E chi altri?».

    Magda? Guardai Käthe e poi mia madre, che sembrava perplessa come tutte noi. Vai, bisbigliò a mia sorella. Käthe sbuffò ma porse il braccio alla nonna, che si aggrappò a lei con tutta la sua malevola forza.

    «Ti assicuro», disse mia madre sottovoce mentre loro due sparivano insieme sulle scale. «Ogni giorno che passa, diventa sempre più pazza».

    Io mi rimisi a lavare i piatti. «È solo vecchia», risposi. «C’era da aspettarselo, forse».

    La mamma sbuffò. «Mia madre rimase lucida fino al giorno della sua morte ed era un bel po’ più anziana di Constanze».

    Non risposi, limitandomi a immergere i piatti in una tinozza di acqua pulita prima di passarli a mia madre perché li asciugasse.

    «Meglio non darle troppa corda», disse alla fine, parlando più a se stessa che a me. «Elfi. Caccia Selvaggia. La fine del mondo. Si potrebbe perfino pensare che ci creda davvero, a queste storie».

    Afferrando un angolo di grembiule pulito, raccolsi un piatto bagnato e cominciai ad asciugarlo insieme a mia madre. «È solo vecchia», ripetei. «Quelle leggende abitano questi luoghi da sempre».

    «Sì, ma sono solo storie», rispose con una punta di impazienza. «Nessuno crede che siano vere. A volte mi chiedo se Constanze si renda conto che viviamo nella realtà, non in una delle sue fiabe».

    Non risposi. Io e la mamma finimmo di asciugare i piatti e li mettemmo a posto, pulimmo i banconi e i tavoli e spazzammo quel poco di polvere che c’era per terra prima di dirigerci ognuna nella propria stanza.

    Indipendentemente da quello che pensava lei, non vivevamo in una delle fiabe di Constanze, ma in una terribile, terribile realtà. Una realtà fatta di sacrifici e compromessi, goblin e Lorelei, miti e magia del Sottosuolo. Io, che ero cresciuta insieme alle storie raccontate da mia nonna, che ero stata la sposa del Re dei Goblin e poi me n’ero andata, sapevo meglio di chiunque altro quali conseguenze comportasse valicare le vecchie leggi che governavano la vita e la morte. La percezione di ciò che era reale e di ciò che era fittizio era inaffidabile come i ricordi, e io vivevo negli spazi intermedi fra la terribile verità e un cumulo di belle bugie. Ma non ne parlavo. Non potevo parlarne.

    Perché se Constanze stava diventando pazza, lo stavo diventando anch’io.

    Il ragazzo che suonava era magico, così dicevano, e coloro che potevano vantare gusti raffinati e tasche profonde facevano la fila davanti all’auditorium per un viaggio ai confini del mistero. Il luogo era piccolo e intimo, una ventina di posti più o meno, ma era il teatro più grande in cui il ragazzo e il suo compagno avessero mai suonato. Dunque era nervoso.

    Il suo maestro era un famoso violinista, un genio italiano, ma l’età e i reumatismi gli avevano piegato le dita fino all’immobilità. Nei suoi anni d’oro, si diceva che Giovanni Antonius Rossi fosse in grado di commuovere gli angeli e far danzare i demoni con la sua musica. Il pubblico più affezionato sperava di ritrovare un accenno del suo vecchio talento in quel nuovo, misterioso giovane.

    Un trovatello, un changeling, mormorava il pubblico. L’hanno scoperto mentre suonava a un angolo della strada in un buco della Baviera.

    Il ragazzo aveva un nome, ma si perse fra i pettegolezzi. L’allievo di maestro Antonius. L’angelo dai capelli dorati. Il giovane affascinante. Si chiamava Josef, ma nessuno lo ricordava, nessuno tranne il suo compagno, il suo accompagnatore, il suo amato.

    Anche lui aveva un nome, ma nessuno pensava che avesse importanza. Il ragazzo dalla pelle scura. Il Negro. Il servo. E il suo nome era François, ma nessuno si abbassava a utilizzarlo, tranne Josef che lo custodiva sempre sulle labbra e nel cuore.

    Il concerto segnò l’ingresso di Josef nella colta società viennese. Da quando la Francia aveva esiliato o decapitato i membri della nobiltà, maestro Antonius aveva visto le sue casse svuotarsi nel suo Paese adottivo, mentre i mecenati più ricchi investivano

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