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Primo viaggio
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E-book139 pagine1 ora

Primo viaggio

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Romanzo di formazione, Primo viaggio è concepito non come semplice evasione ma come un processo di cambiamento interiore attraverso la scoperta dell’alterità e il confronto con l’ignoto. Il superamento delle frontiere si realizza nel passaggio dalla lingua materna alla lingua straniera, qui il francese, che “traduce” un déplacement, uno spostamento del punto di vista. Questo processo implica l’esperienza della separazione e della perdita e, allo stesso tempo, inaugura “l’avventura” come apertura a ciò che avverrà.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2023
ISBN9788830683549
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    Anteprima del libro

    Primo viaggio - Maria Calabrese

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani)

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Parte Prima

    L’ombra degli alberi si dissolveva nel buio e il crepuscolo, avvolto nel velluto della notte, si raggomitolava sotto un caldo mantello di silenzio. L’inferno! «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita…», versi scolpiti nella pietra dura del ricordo, ma che si fermavano lì a: smarrita, anche loro caduti nel buio, mi dicevo, come se si potesse conservare solo l’inizio della storia… o la fine.

    Erica guidava al mio fianco, dava segni di stanchezza e di scoraggiamento. All’inizio di quell’escursione, in cui avevamo deviato dalla diritta via, eravamo eccitate come due bambine incustodite, piene d’incoscienza, con gli occhi puntati verso quello spazio senza nome, senza cartelli, senza limiti, muto e cieco, felici d’inoltrarci nel bosco fresco e ombroso, popolato da alberi vivi, mossi da un impercettibile fremito, da cui scaturiva sottovoce un canto sordo, lontano, che ci strizzava dolcemente il cuore. Avevamo bisogno di una sferzata d’aria fresca, ma ora, al calare della gelida notte invernale, sotto le cime dure di alberi sconosciuti, stranieri e improvvisamente ostili, che di colpo ci ricordavano il nostro paese abbandonato e le nostre radici profonde che, povere noi, pensavamo di poter buttare a mare come un bagaglio troppo ingombrante, ci mettemmo a tremare in silenzio. Ecco, un lupo mannaro ci saltava addosso, sbucando da quella selva cieca e impenetrabile, come quando da piccole i genitori ci spingevano a cercare chissà cosa in fondo al corridoio, forse per farci paura, per abituarci a vincere la paura, dicendo «macché, non c’è niente nel buio», con un sorrisetto sulle labbra, come se ci godessero un po’, mentre noi eravamo convinte che un mostro, un’orribile creatura malvagia e disgustosa aspettasse in agguato dietro la porta, nel fondo insondabile e nero del corridoio. Sennò che senso avrebbero avuto le streghe, gli orchi, Hansel e Gretel, Pollicino e tutte le storielle che ci raccontavano da bambini se non avevano nessun fondo di verità? Io, superba, invincibile e ottusa, avevo una fiducia incrollabile nella mia buona stella, portavo con me, dentro di me, o alle mie spalle, un’altra creatura nata chissà come, un’anima gentile che mi salvava da qualsiasi situazione complicata e che a volte prendeva le sembianze di un semplice passante, di una mamma o di una nonna, spuntate come per incanto all’angolo della strada. Ci sono mamme dappertutto, dovunque nel mondo, mamme a volontà, sempre pronte a correre in soccorso alle innumerevoli figlie travolte dalla loro brama di conquista, di libertà e di scandalo. Ma lì non c’erano mamme, né padri, né fratelli, né guardie forestali in perlustrazione notturna. Al posto loro, nascosti dentro invisibili rifugi, briganti, banditi, scippatori, violentatori, si tenevano in agguato per saltarci addosso, per estrarci dalla macchina e farcene di tutti i colori. Non sarebbe servito a niente gridare, difendersi cercando di colpire le zone sensibili, sarebbe stata la fine di tutto, l’avventura si sarebbe conclusa nel sangue, in una vera tragedia per noi e le nostre famiglie. «Vedi dove vi ha condotto la vostra spavalderia, stupide, voler partire a tutti i costi, lasciando la sicurezza di una casa, di un lavoro, di una famiglia… Peggio per voi! In fondo è giustizia. Dio vi ha punite. Voi volete essere libere, ma non è così semplice, mie care, gli uomini esistono, gli uomini son là per rimettervi la testa a posto…» (le mamme non dicono sempre cose gentili, ma è per il nostro bene). La faccia di mia madre il giorno in cui, prima esterrefatta, intontita, poi furiosa, livida, improvvisamente di ghiaccio, il giorno in cui, quasi con indifferenza, come per dimostrarle che non sentivo nessuna emozione all’idea di lasciarla veramente, le avevo buttato là una frase secca e lapidaria, «senti, mamma, ho deciso di andare a Parigi». Poi avevo aggiunto, per rassicurarla, «parto con un’amica, una brava ragazza, non ti preoccupare, andrà tutto bene, la Francia è a due passi, abbiamo degli amici a Parigi, ti farò sapere…» e infine, riprendendomi in mano con forza, tirandomi dritta sulla colonna come se volessi dimostrarle che ero veramente cresciuta, e lei rimpicciolita e stanca, come piegata in due dall’annuncio, avevo continuato, «insomma, non sono mica più una bambina, mamma, compio trent’anni a novembre!». Cosa avrei potuto dirle? Potevo forse parlarle del mio malessere, del senso di nausea e di soffocamento che mi stringeva il petto da diversi mesi, in quella città dove morivo di noia, chiusa a doppio giro in un’isola? Della mia terra avevo assorbito tutto, tutto quello che essa poteva offrirmi, le spiagge, i paesi, il mirto, l’asfodelo, il miele, il vento, l’amore, il lavoro, gli amici, le feste e le tradizioni, ma soffocavo, arrancavo nel vuoto. Il desiderio di partire era nato grazie a Gustavo, un ragazzo dal lungo collo e le mani affusolate da pianista. Era venuto in vacanza per le feste e lui accendeva nei miei occhi una fiammella allegra di desiderio, un cucciolo di desiderio, come un cagnetto appena nato a cui si ha voglia di accudire sempre perché diventi nostro, accarezzandolo e coccolandolo, osservandolo mentre si butta sulla pallina per giocare, e quasi non esiste più nient’altro di così divertente e interessante al mondo, era così l’incanto che provavo nel sentirlo parlare della sua vita parigina. «Perché non vieni anche tu?». Come se questo mi fosse concesso anche a me. ANCHE A ME. Niente me lo impediva dunque.

    Dieci anni prima, l’anno della maturità, nel bel mezzo dell’anno scolastico, ero scivolata in uno stato di totale apatia. Per strada vedevo circolare non esseri umani in carne ed ossa, ma fantasmi furtivi e vagabondi. Non ero capace allora di vedervi una qualche connessione con la malattia di mio padre. Dimagrivo, divorata da un verme solitario che era la mia solitudine. Cos’era stato? Io, di solito sempre innamorata degli occhi azzurri di un uomo, che mi stregavano, e il desiderio di baciarli, di essere baciata, per provare un piacere simile a quello di entrare nell’acqua del mare, con i brividi al contatto di quell’altra materia, cos’era successo? Era sparito anche il ciclo… Forse proprio questo, la fine di un ciclo, ormai giunta ai limiti dell’adolescenza. E poi? Cosa ci sarà, DOPO? Il fiume in piena si butterà nel vasto oceano tumultuoso e segreto, dovrò diventare donna. Un certo padre Pistoni, un gesuita, organizzava un viaggio in Algeria con giovani di buona volontà, disposti a partire verso quella terra da conquistare in nome della sacrosanta Chiesa. L’avevo nominata: Missione Africa. La prospettiva di un viaggio così esotico aveva infranto ogni remora e aveva prodotto un cambiamento

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