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Nati sotto la stessa stella
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E-book457 pagine6 ore

Nati sotto la stessa stella

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Info su questo ebook

Se ami qualcuno devi inseguirlo

Bad Attitude Series

Dall’autrice del bestseller Non dirgli che ti manca

Amelia studia Medicina all’Università di Bologna, ha un rapporto conflittuale con i suoi genitori ed è abituata a fuggire dai problemi. Fan e amica della band del momento, i Bad Attitude, ha una storia altalenante con il cantante. A sostenere Amelia ci sono le sue amiche Isabella e Caterina, ma soprattutto Nico, il bassista del gruppo. Amelia è sempre in cerca di emozioni che le facciano battere il cuore, mentre Nico vorrebbe soltanto evitare altri problemi: quelli lui li conosce fin troppo bene. Basta poco per rendere i confini del loro rapporto indefiniti… È un’estate piena di musica e di magia quella che vivono, un’estate unica in cui tutto è possibile. Ma come in ogni sogno, dal quale prima o poi bisogna svegliarsi, Amelia e Nico dovranno decidere se la paura è più forte dei sogni che vogliono realizzare. La felicità è a portata di mano, devono solo trovare il coraggio di afferrarla…

Se hai un sogno devi proteggerlo 
Se ami qualcuno devi inseguirlo

Hanno scritto:

«Avete un debole per i musicisti? Preparatevi a impazzire per i Bad Attitude.»
Blog Leggere Romanticamente

«Una storia sicuramente non scontata dove un’altra protagonista assoluta è la passione per la musica. I ragazzi di questo libro ti fanno proprio vivere, ascoltare e immergere in quelle note che fluttuano leggere nell’aria, capaci di farti vibrare l’anima.» 
Tutta Colpa dei Libri

«Scritto veramente in modo impeccabile e scorrevole, mi è piaciuto davvero tantissimo.»
Il Libro Sulla Finestra
Alessandra Angelini
È nata a Faenza. Si è laureata in Chimica industriale a Bologna, che considera la sua città d’adozione. Appassionata di musica, divide il suo tempo libero tra le letture di ogni genere e la scrittura. Non dirgli che ti manca, romanzo inizialmente autopubblicato, è stato nella classifica dei libri digitali per oltre cinque mesi, finché non è stato scoperto dalla Newton Compton. Nati sotto la stessa stella è il secondo della Bad Attitude Series.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2017
ISBN9788822717351
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    Anteprima del libro

    Nati sotto la stessa stella - Alessandra Angelini

    Capitolo 1

    Amelia

    Forse non dire del concerto a Budapest ai miei genitori non era stata una grande pensata, ma non c’era bisogno di scaldarsi tanto. L’avevo ammesso candidamente davanti agli strilli di mia madre e ai silenzi di mio padre, quando mi avevano messo con le spalle al muro. Al loro cospetto tornavo bambina. I miei genitori erano in grado di entrarmi sottopelle, eppure, quando cercavo di comunicare con loro, sembravamo parlare lingue differenti.

    Al solito Martina non aveva perso occasione per rimarcare che grande delusione fossi, cavalcava le paure di mia madre, fomentandole con tutti i miei sbagli. Il rapporto con mia sorella maggiore era sempre stato così: competitivo, teso, inesistente. Martina mi vedeva come una privilegiata, quella che aveva avuto la via spianata coi nostri genitori e forse, in qualche caso, era stato così. Le battaglie per ritagliarmi uno spazio mio però le avevo combattute da sola. Noi eravamo come il giorno e la notte, dove lei era tranquilla io ero irrequieta, dove lei era prevedibile io uscivo dagli schemi. La scheggia impazzita della famiglia.

    Io ero quella che aveva preferito studiare per costruirsi un futuro, il più lontano possibile da quel maledetto paese che ti portava via anche la voglia di lottare. Ti prosciugava, lasciandoti indolente e rassegnato. I tuoi sogni erano svaniti, erano fantasie da bambini che avevi accantonato per affrontare la realtà. L’avevo già visto succedere con lei, coi compagni di scuola e in ultimo con Massimo, il mio gemello diverso che amava quell’ammasso di rocce con tutto il suo cuore. Se fosse dipeso da loro, la mia famiglia non avrebbe abbandonato Porretta per nulla al mondo, ma per me non era così. Non lo era mai stato. Io non mi ero accontentata, ero quella che aveva sogni troppo grandi per quelle quattro case e amava un genere di musica che per i miei genitori era solo rumore e parole incomprensibili.

    Tornare a casa era ogni volta più difficile. Erano bastate meno di quarantotto ore per riaprire vecchie ferite. Ci si era messo di mezzo anche Riccardo, aveva insistito per vederci prima che tornassi a Bologna. Lui era l’unica cosa buona rimasta in quel posto, glielo dovevo dopo averlo lasciato indietro. Sorridevo ripensando al periodo in cui Riccardo era il mio ragazzo, ero così piccola, così ingenua. È così che va quando hai diciotto anni, l’amore è una parola con cui riempi la bocca, la testa e i diari. Sei convinta di sapere tutto, imbocchi una strada pensando che sia per sempre.

    Ero partita da Porretta pensando che Riccardo fosse l’amore della mia vita, me ne ero andata piena di promesse che già sul treno avevano perso di smalto. Perché se lui era qualcosa, di certo era il mio migliore amico, quello con cui avevo condiviso tutto, anche la voglia di andarmene dal paese. Lo era stato. Ora eravamo in quella strana fase in cui ti ritrovi a parlare con nostalgia di fatti accaduti anni prima e non sai quasi nulla di cosa succede all’altro nel quotidiano. Quando i ricordi non ti permettono di essere onesto e di vedere quanto la vita ti ha allontanato. Io ero andata via, lui era rimasto.

    Alcune donne sono fatte per crearsi una famiglia e mettere al mondo uno stuolo di figli, come Martina, che si era sposata subito dopo il diploma e aveva sfornato nipotini uno dopo l’altro. Quello non era il mio caso e Riccardo doveva saperlo, perché quando parlava dei suoi progetti per il futuro non metteva mai una scadenza e la casella al suo fianco restava inesorabilmente vuota. Non ero il tipo casa e cucina, non aveva dovuto aspettare che facessi il primo tatuaggio di nascosto per averne la consapevolezza. Anche se poi scoprire dove l’avevo fatto lo aveva intrigato non poco. Alcune donne cercano punti fermi, cercano qualcuno che le faccia sentire sicure. Io cercavo l’emozione, quello stesso fuoco con cui lui aveva paura di bruciarsi.

    Ero uscita con poche aspettative, che quella chiacchierata tra amici aveva disatteso nell’arco di un cappuccino.

    «Ti sposi. Mi prendi in giro, vero?», dissi incredula, sporgendomi sul tavolo. Quando mi aveva dato la grande notizia, c’era mancato poco che mi strozzassi.

    «Ho la faccia di uno che scherza?». Zittì le mie risate, le rese improvvisamente inopportune. «Cosa ti è successo a Bologna da renderti così stronza?».

    «Scusami, scusami». Abbassai la voce, notando gli sguardi interessati dei pochi avventori seduti ai tavoli vicini. Nel giro di un paio di ore, forse anche prima, tutto il paese avrebbe parlato di quella conversazione e della mia reazione. Ecco perché me ne ero andata da quel covo di pettegole. «Racconta».

    Lo ascoltai con attenzione, avevo bisogno di capire. Riccardo non era uno che agiva d’impulso, quello era il mio campo. Quando c’eravamo sentiti per telefono non aveva accennato a nulla di grosso, e quella non è una notizia che ti sfugge di mente.

    Riccardo non mi aveva dato l’impressione di essere particolarmente preso da Simona. Sapevo com’era quando era innamorato, bastava togliere un po’ di polvere ai ricordi. Per quanto fosse dolce e carina, Simona non gli faceva battere il cuore. Non lo ispirava a fare pazzie, non come aveva fatto per me. Quello che aveva lei era un figlio, quello che aspettava da lui, ed ecco spiegata la fretta di quel matrimonio di cui nessuno aveva il coraggio di parlarmi.

    Lo salutai con poche parole concise e un sorriso benaugurante, forse avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più ma non glielo dissi. Ormai era oltre il punto di non ritorno, questa volta la separazione era definitiva.

    Il vento proveniente dal Granaglione aveva stemperato la calura che opprimeva il fondovalle, il bel tempo non sarebbe durato. Quando cresci da queste parti impari a leggere i cambiamenti del tempo nel profumo dell’aria. Costeggiai il percorso del Reno per una buona mezz’ora. Nemmeno lo scorrere regolare del fiume e lo starnazzare allegro delle papere sortirono il solito effetto. Ero frastornata per la piega che aveva preso la sua vita, imprevista, in salita, ma forse è così che doveva andare. La notizia che a breve Riccardo sarebbe diventato padre mi aveva scosso, quello che non potevo dire a nessuno era il sollievo provato nel non trovarmi al suo posto. Incastrata per sempre in quella vita.

    Il telefono nella borsa vibrò una, due volte, pensavo all’ennesimo squillo anonimo invece era un messaggio.

    Sbrigati a tornare

    Julien. Il cantante della mia band preferita, i Bad Attitude, e mio chiodo fisso negli ultimi anni. Lessi quelle parole almeno cinque volte. Sorridevo come un’idiota per colpa di quel messaggio. Per quello che voleva dire.

    Il treno sarebbe partito nel giro di un’ora e quell’attesa mi sembrava interminabile.

    Capitolo 2

    Nico

    Diedi un’ultima occhiata al telefono e lo lasciai scivolare in tasca, tra Twitter e Instagram, non contavo più le notifiche. La foto post-concerto con Nate e Caleb dei Kings of Leon aveva fatto il giro del mondo, da non credere.

    Salii gli ultimi gradini come un condannato, non vedevo l’ora di buttarmi sul letto. Avevo ventiquattro ore libere e la ferma intenzione di dormire fino all’ultimo secondo. Non mi sarei mosso nemmeno in caso di attacco nucleare. Il casino con Julien e la vecchia etichetta discografica mi avevano fatto perdere il sonno. Non l’avrei mai ammesso davanti agli altri ma non credevo che ne saremmo usciti. Non bene, almeno.

    L’appartamento in cui stavo era piccolo, scomodo da raggiungere e lo pagavo una follia per come era ridotto, eppure, tornarci dopo ogni trasferta mi infondeva un senso di sollievo tangibile. Potevo viaggiare per settimane, passare da una città all’altra e mangiare cibo da fast food senza battere ciglio finché sapevo che la mia stanza era lì ad aspettarmi. Quando l’abitudine è un lusso che non ti sei mai potuto permettere, ti affezioni e arrivi a chiamare casa anche quattro mura scrostate. Quello era il primo posto che avevo trovato quando ero arrivato a Bologna e non avevo più cambiato. Non che i ragazzi non avessero provato a trovarmi una sistemazione migliore. Tendevo ad adattarmi, ero sempre stato così, vedevo il buono delle cose e mi costruivo un bozzolo da cui era difficile spostarmi.

    Il borsone piazzato in spalla strisciava contro le pareti impregnate d’umidità, l’intonaco ocra si era staccato in diversi punti, rivelando l’arcobaleno di colori degli strati che lo avevano preceduto. Tentai di aprire il vecchio portone, senza successo. Non era messo bene ma non mi aveva mai dato tutti quei problemi. Spinsi, una, due volte. La porta si aprì con uno scatto improvviso seguito da uno schianto. Il battente aveva ceduto, lasciandomi uno spiraglio attraverso cui entrare. Il regalo di mia zia era a terra in frantumi. Poco male, odiavo quella lampada.

    L’appartamento era ridotto peggio di una discarica, non che io fossi un maniaco della pulizia. Mi bastava che io e Domenico fossimo gli unici esseri viventi in casa, ero un tipo di poche pretese. Se mia madre l’avesse visto, con ogni probabilità sarebbe morta d’infarto; se ci fosse stata mia zia, mi avrebbe scomunicato per questa e tutte le vite a venire. Per fortuna mia e della mia sanità mentale era un’eventualità che non si sarebbe mai verificata, almeno finché avessi avuto voce in capitolo. Ogni volta che un componente della mia famiglia aveva ventilato una visita, mi trovavo sfortunatamente fuori città per un concerto. Gli imprevisti del mestiere. Quella era una formula così collaudata da riuscirmi senza sforzo, del tutto naturale. Loro sbraitavano, mi davano del nomade con un tono che suonava come un insulto ma, tra un borbottio e una lamentela, lasciavano perdere. Se in famiglia c’era qualcosa di sacro, quello era il lavoro, e pur di avere un po’ di pace mi sarei giocato fino all’ultima carta.

    Il che mi riportava al mio appartamento che, non so quando, era divenuto la sede di un rave party di cui mi ero perso tutto il divertimento e mi beccavo solo i postumi. C’erano bottiglie, mozziconi e cartoni con resti di pizza abbandonati ovunque. Dall’angolo della cucina arrivava un fetore insopportabile. Andai dritto alla finestra, spalancandola.

    Questa volta non gliela avrei fatta passare liscia, e di sicuro non avrei pulito.

    «Mimmo! Porca puttana, Mimmo!». Urlai verso la stanza del mio coinquilino.

    La porta era mezza aperta ma da lui non arrivava nessun segno di vita. Stavo decidendo se entrare e farlo a pezzi o cercare ospitalità dai ragazzi finché non avesse sistemato tutto, e poi farlo a pezzi, quando dalla mia stanza uscì una ragazza con addosso una delle mie magliette preferite. Quella e nient’altro potessi vedere a colpo d’occhio. La stoffa sottile lasciava ben poco spazio all’immaginazione.

    «Non c’è bisogno di urlare a quest’ora», si lamentò lei, seccata.

    «Che ore credi che siano?»

    «Sempre troppo presto. Tu invece sei arrivato tardi, la festa è finita da un paio d’ore». Sbadigliò, strisciando vigorosamente una mano sugli occhi.

    «Quale festa?».

    «La festa per la laurea di Domenico. Hai qualcosa per il mal di testa?», chiese lei, premendo con le dita all’altezza delle tempie.

    «In bagno», dissi ancora stralunato. Alla faccia del cliché sulla vita sregolata dei musicisti; tra noi quello che se la spassava era quel coglione, a quanto pare laureato, del mio coinquilino. Sarà stata la stanchezza che mi riportava ai bisogni primari, ma non staccavo gli occhi da un paio di tette che, avrei potuto scommetterci, battevano cento a uno il più morbido dei cuscini. Mi riscossi. «Da quella parte».

    «So dov’è», mi sorprese lei. Scoppiai a ridere. «Ho solo bisogno di tornare a dormire».

    «Era anche la mia idea». Rassegnato, strinsi le dita attorno alla maniglia del borsone che non aveva mai toccato terra.

    Pensavo di vederla sparire in bagno, invece la ragazza continuava a squadrarmi spavalda con un sorrisetto furbo, interessato. Non era difficile cogliere le sue intenzioni, sentivo già i jeans stringere all’altezza del cavallo dei pantaloni.

    «Sei alto ma per te uno spazio lo posso trovare».

    «Gentile a invitarmi nel mio letto». Ero stanco, casa pareva reduce da uno sbarco di clandestini, ma quella ragazza era carina e mezza nuda. E già nel mio letto. Ero un bravo ragazzo, non un santo. «Tra parentesi, quella ti sta bene».

    «Se vuoi posso ridartela, rockstar».

    «Tienila. Souvenir della serata», le dissi, prendendola sottobraccio. Sfilargliela era nei miei piani da quando gliela avevo vista addosso.

    Avevo bisogno di dormire ma, in fondo, quella era un’attività sopravvalutata. Così come la chiacchierata col mio coinquilino, poteva aspettare.

    * * *

    Barbara, il mio comitato di benvenuto, se n’era andata da meno di un’ora. Dubitavo di rivederla di nuovo, e mi stava bene così. L’incisione del demo mi aveva impegnato a tempo pieno, non volevo iniziare con l’inevitabile tira e molla su cosa era più importante per me. Dovevo ancora incontrare una ragazza a cui sarebbe piaciuta la mia risposta.

    Stavo diventando cinico, magari gli anni passati con Julien, il nostro cantante e re degli indifferenti, avevano velocizzato il processo o forse lo ero sempre stato, e mi nascondevo dietro l’immagine del bravo ragazzo con cui mi dipingevano tutti. Erano anni che non riuscivo ad avere un rapporto sincero con una ragazza, almeno con quelle che mi portavo a letto. Non che fossi un bugiardo o un bastardo, semplicemente vedevo le cose per quello che erano: un dare e avere. Io cercavo la loro vicinanza, un contatto umano che andasse oltre la superficie, loro erano affascinate dal musicista. Oltre il palco e le luci c’era il vuoto. Col tempo avevo imparato a dare loro quello che volevano, prendevo quello che potevo e mi concentravo sulla musica. Dopo Stella avevo evitato qualsiasi coinvolgimento, qualsiasi problema. Tanto, anche se non le andavo a cercare, le occasioni si materializzavano da sole.

    Avevo fatto una doccia veloce e avevo raggiunto Mimmo, che indolente gettava la sua roba dentro uno scatolone. Dal modo in cui teneva stretti gli occhi e il colorito grigiastro della pelle, il post-sbornia era tutt’altro che superato. Il grosso del casino della festa era finito dentro un sacco della spazzatura, parcheggiato vicino alla porta d’ingresso. Il vantaggio di essere quello sempre calmo è che quando t’incazzi, generalmente, le persone ti danno ascolto.

    «Vedo dei miglioramenti», scherzai, versandomi in una tazzina il caffè ancora caldo. Quell’aroma forte e il borbottare della moka mi avevano convinto ad alzarmi.

    «Non farlo mai più. Mi hai traumatizzato». Domenico sgranò gli occhi, dando sfogo al suo lato teatrale. «Oltre a interrompermi sul più bello».

    «Certo, me ne sono accorto».

    «Tre volte di fila amico, tre. Dovevi sentirla, altro che Cinquanta sfumature», enfatizzava il suo racconto mimando spinte e vocalizzi, che ero certo i vicini avrebbero apprezzato dopo la festa della sera prima. A dare ascolto alle sue storie, Domenico era una macchina del sesso. Peccato che in tre anni di convivenza l’avessi visto avere incontri ravvicinati solo con la sua mano. Ed erano ricordi di cui avrei fatto volentieri a meno.

    «Le tue amiche sono tutte così intraprendenti?». Cambiai argomento, posando la tazzina sul tavolo.

    «Che fai, ti lamenti? Quella la puntavo da una vita», brontolò soppesando pensieroso la sua tetta di silicone tra le mani. «La vuoi?»

    «Sei scemo?». Si portava dietro quell’affare da anni e Dio solo sapeva cosa ci avesse fatto.

    «È un ottimo antistress».

    «Serve più a te che a me». Ero di mentalità aperta, ma ancora preferivo le ragazze in carne e ossa.

    «Scherzi? Se la trovasse mia madre avrebbe un attacco isterico e Serena me lo taglierebbe seduta stante», ammise. Un generale nazista, rispetto alla sua ragazza, sarebbe sembrato un agnellino.

    Domenico era indisponente, pazzo, un vero casinista, ma riusciva sempre a strapparmi un sorriso.

    «Quindi, ora che farai?»

    «Quello che fanno tutti i laureati: il disoccupato istruito», rassegnato, abbandonò i panni dello studente cazzone sedendosi sulla sedia di fronte alla mia. «Lascerò un vuoto, sette onorati anni fuori corso non si possono cancellare così».

    «Non c’è dubbio. Resterai?». Ci giravo attorno da un po’, anche se non ci voleva un genio per giungere alla conclusione più ovvia, con quegli scatoloni parcheggiati nel bel mezzo del soggiorno.

    «Magari. Devo tornare a casa, mio padre non mi ha dato alternative».

    Sapevo cosa voleva dire avere a che fare con una famiglia invadente, a differenza sua però avevo deciso di andare per la mia strada.

    «Quando?»

    «Questo fine settimana».

    «Mi lasci nella merda!», scattai, battendo i pugni sul tavolo. Quella tegola non ci voleva. Speravo di godermi un momento di pace.

    «Mi spiace», lo diceva spesso ma questa volta pareva sinceramente dispiaciuto, «volevo parlartene però negli ultimi mesi, quando ti facevi vedere, avevi sempre la luna storta».

    Non aveva tutti i torti. «Dottore, eh?». Mi rilassai, strofinando i capelli arruffati.

    «Dottor Bentivoglio, suona bene», gongolò compiaciuto.

    E così si concludeva anche quel ciclo.

    Capitolo 3

    Amelia

    Mi lasciai trasportare dalle note, con le mani premute sulle cuffie e gli occhi chiusi. Ci volle poco per dimenticarmi dello studio, dell’odore di chiuso e muffa che ti colpiva le narici appena entravi, delle poltrone cigolanti in finta pelle. Quella musica sembrava prendermi per mano e portarmi in un altro luogo, un altro tempo. Proprio come mi succedeva con un buon libro. Quelli erano gli anni Settanta, melodie da grandi del rock, quelle che entrano nel mito, eppure era chiara l’impronta di Julien. Sembrava voler dire: Vedete di cosa sono capace? Non sono da meno di voi. Una sfida lanciata a testa alta, senza paura. E accidenti se ci riusciva bene.

    Le sue mani che mi sfilavano le cuffie mi fecero sobbalzare. Aprii gli occhi di scatto, il fiato bloccato chissà dove e lui così vicino da farmi girare la testa.

    «Allora, che ne dici?», chiese Julien, tirandosi indietro sulla sedia. Impaziente, continuava a sfregare gli anelli contro il palmo.

    «È lunga», dissi dopo un momento di meditazione.

    «Cosa?!». Lui scattò in piedi, scandalizzato. «È epica. Questo va bene. Cosa vuol dire è lunga? Chi ha mai fatto i conti a Robert Plant?».

    «Dicevo per dire».

    Sua sorella, Caterina, lo conosceva bene e mi aveva avvisato. Non avrei retto a lungo.

    «Sono capaci tutti di sfornare tre minuti e mezzo di una sbobba qualsiasi per accontentare la massa, io non voglio dargli quello che vogliono». Julien parlava animato, illuminato da quel fuoco che tanto mi attirava in lui. «Io voglio dargli quello che ancora non sanno di volere».

    «Sempre fuori dal coro, eh?»

    «Sempre. Serve a far sentire gli altri più buoni», disse con quel tono di derisione mista a verità, che pareva coniato per lui e pochi altri. Julien si sporse, appoggiandosi con le mani ai braccioli, e per un attimo il suo fiato si mescolò al mio. Vivevo appesa a quel momento, a quelle labbra così vicine che quasi potevo sentirne il profumo «e io sono sempre disponibile a rendermi utile». Pronunciò ogni parola con una tale enfasi che mi mandò in tilt.

    Era un’offerta? Di certo quell’allusione aveva dato un’accelerata al battito del mio cuore, che martellava furioso nel petto. Tenevo le mani strette a impedirmi di fare pazzie. Sarebbe bastato così poco.

    «Saresti la pecora nera?». Mi ridestai, non so come.

    «Non sempre, non ora». Arrivò a lambirmi le labbra e si tirò indietro. Julien prese a camminare impaziente per la sala prove, squadrandomi con quegli occhi dal colore indefinito che sognavo ogni notte. Un momento e la sua espressione cambiò improvvisa. «Prima mi sembrava di sentire Sten. Dimmi chi è stato? Dammi il nome di quel bastardo che ha rovinato la tua anima innocente». Mi interrogò, giocando col piercing sulla lingua.

    È tutta colpa tua, avrei voluto dirgli. Invece capitolai. «È memorabile».

    «Così mi piaci». Soddisfatto, si lasciò andare a una risata serena, piena, come non succedeva da mesi. «Non dovresti lasciarti influenzare, sono brutte persone».

    «Non ti dirò chi è stato, nemmeno se fai così».

    «Non serve, regolerò i conti con la nana più tardi», promise, raccogliendo l’accendino dal tavolo. In un attimo era già alla porta, pronto a uscire. «Bambi, sono contento di averti intorno. Sei una boccata d’aria fresca».

    E lui quello che mi toglieva il respiro con una parola. Non andava bene, pendevo dalle sue labbra proprio come quelle ragazze che prendevamo in giro al club. Non gli avevo mai tirato un reggiseno durante un concerto e nemmeno urlato di volere i suoi figli, non ad alta voce almeno, però ero come tutte le altre. Dopo la nostra uscita, dopo quello che era successo, c’era stato un lungo doloroso silenzio. Ci avevo messo una pietra sopra. Avevo provato a dimenticarlo collezionando una serie di appuntamenti disastrosi, poi era arrivato quel messaggio. Ero una dannata testarda, apparentemente lo erano anche le mie speranze. Più si negava, più lo volevo.

    Mi stavo tormentando le unghie quando Isabella, la mia migliore amica, entrò seguita a ruota dagli altri. La band rientrava in studio per la prima volta dopo i concerti di Roma e Budapest, dopo la grande notizia. L’invito a unirmi a loro mi aveva sorpreso, soffiava sulle mie aspettative. Daveri, il manager dei Bad Attitude, parlottava con uno dei tecnici e Denis, il batterista del gruppo. Era solo grazie alla mia amica, e alla favola moderna che viveva con lui, che avevo conosciuto i miei idoli.

    Isabella mi lasciò appena il tempo di salutare tutti, prima di prendermi da parte. Mi studiava attenta, provando a cogliere il motivo del mio turbamento.

    «È stata così dura tornare a casa?»

    «Martina non perde occasione per tormentarmi». Lasciai andare un sospiro, magari fosse servito a scacciare via anche i pensieri!

    «C’è dell’altro. È per il tuo ex?»

    «No, no». Risi, perché Riccardo era storia vecchia. La notizia del suo matrimonio mi aveva sorpreso, ma Isabella era fuori strada. «Avevi ragione».

    «Almeno qualcuno lo ammette, ma per cosa?»

    «Julien».

    Il suo silenzio, come la smorfia che le piegava le labbra, era l’imprecazione che la sua educazione non le permetteva di esternare. «Cosa ha fatto?»

    «Te l’hanno già detto che quando fai così assomigli a Cate?».

    «Una volta o due». Isabella sorrise, cercando Denis con lo sguardo. Le guance imporporate da chissà quale gioco sotteso tra loro. «E non mi hai risposto».

    «Nulla, tutto, è un gran casino», sospirai, seguendo con lo sguardo Julien che era appena rientrato. L’amore non aveva nulla di razionale, la mia fissazione per lui ne era la prova.

    «Ne riparleremo quando saremo sole, ma questa volta voglio la storia completa», pretese Isabella. Quando voleva, anche lei aveva un che d’intimidatorio.

    «Agli ordini». Scherzai, sollevata di poterne finalmente parlare con qualcuno. Non ero il tipo capace di tenere dei segreti. Mi bollivano sottopelle, come quando hai una crosta e non stai bene finché non la togli, anche se non è una buona idea.

    «Sono geloso», intervenne Denis. Lui e Nico, il bassista, erano spuntati furtivi alle mie spalle, tanto da non accorgercene.

    «Bugiardo». Isabella scuoteva la testa, incredula.

    «Da morire invece», continuò Denis, convinto. «Pensavo comandassi a bacchetta soltanto me, non che mi dispiaccia». Puntualizzò con una smorfia maliziosa.

    Rossa in viso da far paura, Isabella gli tirò un pacchetto di sigarette che lui scartò senza sforzo; il chitarrista non fu altrettanto svelto. Lo zippo che funzionava da contrappeso lo centrò in pieno, lasciandogli un segno rossastro all’attaccatura dei capelli.

    «E adesso chi lo spiega questo a Cate?», scherzò P.E., strofinando le dita sul bozzo.

    «Non dovete lavorare?», aggiunse Isabella, ridendo. «Filate, forza!».

    «Sissignora. Ne riparliamo stasera», facendole l’occhiolino, Denis si avviò con gli altri verso la sala.

    Da quando stava con lui, Isabella aveva più confidenza in se stessa e nelle sue possibilità. Vederli così complici mi provocò un moto di gelosia, che scacciai subito. Dopo quello che avevano passato, quei due meritavano fino all’ultimo grammo di felicità.

    «Perché se le ragazze vi dicono qualcosa, scattate subito sull’attenti?», brontolò il loro manager.

    «Vieni, che ti faccio un disegnino», gli propose Julien, prendendolo a braccetto.

    «Mi siete mancati». Ridevo a crepapelle.

    La voglia di rivedere Julien aveva acuito il bisogno di tornare ma non si trattava solo di lui. Senza accorgermene tutti loro erano entrati a far parte integrante della mia vita, ne erano la linfa vitale. Dalle giornate spese in facoltà all’aperitivo a basso costo nei bar del Ghetto, dalle nottate in bianco a studiare ai pomeriggi trascorsi in loro compagnia. Se Isabella e Caterina erano amiche preziose, quelle di cui non potevo fare a meno, Nico stava diventando il confidente che una volta era stato Riccardo. Le tante serate spese al pub in sua compagnia, quando gli altri si defilavano, avevano cementato la nostra amicizia. I ragazzi mi accettavano senza chiedermi di essere quella che non ero, loro erano quello che mi era mancato per tutta la vita.

    I due giorni passati a casa erano stati insolitamente intensi, mi pesavano sul cuore e non si trattava solo delle liti con Martina o la chiacchierata con Riccardo. Mia madre andava a trovare nonna Dora tutti i giorni, salvo neve o malattie. Non ricordavo altri avvenimenti che avessero inciso su quella routine. Restava un’ora con lei, parlava con gli addetti e se ne andava. Svolgeva quel compito con certosina precisione. Chiusa nel suo piccolo mondo, non riusciva a capire il perché del mio rifiuto ostinato a prendere parte a quelle visite. Al solito ero la voce fuori dal coro. Solo Massimo si era messo dalla mia parte, forse anche lui non ne capiva il motivo, non fino in fondo, però rispettava la mia scelta.

    Per il quieto vivere della famiglia avevo imparato a convivere con la verità in tutte le sue sfumature, così, mentre mio fratello era entrato in clinica, io l’avevo aspettato nel parcheggio. Al ritorno, avevamo preso il sentiero lungo il fianco della collina, la scorciatoia di quando eravamo bambini. Durante quella mezz’ora, lontano da tutti, mio fratello mi aveva confessato del momento di difficoltà della ditta di famiglia. Lui era cresciuto giocando con calce e cemento, seguendo mio padre di cantiere in cantiere. Appena era diventato grande abbastanza, aveva preso ad aiutarlo e nessuno aveva avuto da ridire. Gli altri ragazzi avevano la passione per le moto o le macchine, lui per costruire cose.

    Abitare in una cittadina che necessitava di costanti lavori di ristrutturazione era l’ideale per uno come lui, poi era arrivata la crisi che aveva congelato tutto. Ogni cosa che non era strettamente necessaria, a volte persino quelle, veniva rimandata a data da destinarsi. A tempi migliori. Il rallentamento delle commesse, e la bonarietà di nostro padre nell’esigere i pagamenti dovuti, avevano inciso sui conti. Avevo notato qualcosa di strano in lui, era più taciturno del solito, ma la comunicazione non era il nostro punto forte. Come al solito, mio fratello aveva fatto da tramite tra me e il resto della famiglia.

    Quella chiacchierata mi aveva aperto gli occhi e dato un proposito. Ora che sapevo, volevo cercare un modo per pesare il meno possibile sul bilancio di casa. Per quanto non andassimo d’accordo, avrei fatto di tutto per aiutare i miei genitori. Parlando con Isabella ripensai alla sua storia, mi balenò in mente un’idea.

    «Pensi che Ester e Amedeo possano avere bisogno di una mano?», le chiesi a freddo. Un lavoro part-time alla Bottega, proprio come aveva fatto lei, poteva essere la soluzione ai miei problemi.

    «È possibile, ma riusciresti a conciliare i turni con le lezioni?»

    «Non lo so», ammisi. Avevo parlato prima di pensarci seriamente.

    «Non ci resta che chiedere», propose lei, sfilando il telefono dalla borsa.

    Capitolo 4

    Nico

    Quella sera non ero dell’umore per uscire. Vivevo in costante rincorsa, tamponavo un casino e se ne aprivano altri due. Non bastava la stangata di tasse che a fine anno aveva rischiato di mandare in crisi il piccolo alimentari di famiglia. No, adesso ci si metteva anche la Lonatto. Mia sorella insisteva nel volere una cerimonia intima, la futura suocera però la ignorava, trattandola come una ragazzina che non sa di cosa parla. Un anno di preparativi e quella megalomane continuava ad aggiungere voci. Così un semplice matrimonio stava diventando l’evento clou del paese. Conoscevo Francesco da una vita e lo consideravo uno di famiglia; peccato che quando c’era di mezzo la madre gli si avvizzissero le palle.

    Mia madre, che si sentiva sempre sotto accusa, avallava ogni follia. A costo di rovinarsi avrebbe dato a Mary un matrimonio da sogno. Mia nonna e mia zia, che erano distratte per gran parte del tempo, alla minima occasione attaccavano a ricordare le cerimonie di amici e parenti fino al quarto grado. Preso tra due fuochi cercavo di mediare, e stringevo la cinghia per aiutare mia madre a far quadrare i conti. Con il nuovo album, e un po’ di fortuna, avrei sanato la situazione una volta per tutte.

    La notizia che Mimmo se ne sarebbe andato a giorni proprio non ci voleva. Non avevo voglia di spendere settimane a parlare con una fila di sbarbatelli alla prima esperienza fuori casa. Il solo immaginarmi il bamboccione di turno, vissuto per vent’anni sotto l’ala della mamma, mi dava i brividi. Nemmeno l’idea di ritrovarmi qualche scoppiato in giro per l’appartamento era il massimo dell’allegria. Mi ero adattato alle follie di Mimmo per necessità, non volevo ricominciare da capo.

    Con quei pensieri per la testa ero persino più taciturno del solito. Avevo seguito Julien perché quella era la sua ultima serata di libertà e perché che tu fossi uomo o donna faceva ben poca differenza: nessuno riusciva a dirgli di no. Eravamo al Covo da una mezz’ora, la prima birra era già andata. Il locale era affollato, la musica pulsava dalle casse, nel giro di un’ora non sarebbe caduto uno spillo a terra; l’aria era calda, carica di un odore stantio di alcol e sudore.

    «Quella ce la vedo bene nel mio soggiorno».

    «La poltrona?», tirai a indovinare indolente, senza sollevare la testa.

    «Insieme a quella che ci sta sopra». Inclinò appena il capo, indicandomi una rossa da paura.

    «Non male», ammisi.

    La rossa aveva qualche anno più di noi, tutte le curve al posto giusto e nessuna intenzione di finire la serata da sola. Quando sono disponibili le donne inviano segnali inequivocabili e lei non solo era disponibile, lei era a caccia. Una scollatura profonda lasciava accarezzare il seno con lo sguardo, la posa metteva in evidenza il fisico asciutto e un tacco arrogante le dava quel tocco sfacciato che faceva presa sotto la cintola di ogni uomo. Una bella donna in tacchi alti e reggicalze è il sogno erotico di ogni maschio che ha passato la pubertà, e lei sapeva giocare bene le sue carte. Finché ci fosse stato un uomo etero nel locale, una così non sarebbe mai andata in bianco.

    Mi girai verso la pista piena di ragazze che chiacchieravano, ballavano, tenendo d’occhio il punto del bancone dove ci eravamo fermati. Era sempre così con Julien, le attirava come una calamita. Finché Denis era stato della compagnia, era persino peggio. C’era una fila ininterrotta di ragazze, pareva di trovarsi in mezzo a qualche processione.

    «Togli quel muso lungo. Sono io quello sotto libertà vigilata». Julien ci scherzava, ma se non ci fosse stato in ballo il futuro della band non avrebbe mai accettato.

    «È solo un periodo del cazzo», biascicai, agitando la bottiglia vuota. Era ora di ordinarne un’altra.

    «Amen». Scolò quel poco che era rimasto della sua.

    «Quanto dovrai starci?»

    «Finché non sarò guarito, ma io sto bene», brontolò poco convinto. Qualcosa gli passò per la testa e fermò una ragazza che passava di lì. «Dolcezza, come sto secondo te?»

    «Stai da Dio», rispose lei, mordendosi il labbro.

    Odiavo quando facevano così. Mi toglievano tutta la poesia.

    «Brava ragazza». La liquidò con un sorriso, e una pacca sul sedere. «Dovevo far parlare lei coi produttori».

    «Tardi». Risi e mi girai verso il bar.

    Entrare in comunità faceva parte del contratto con la casa discografica, messo nero su bianco in non so quale clausola; le tempistiche restavano invece sospese in una zona grigia, relegate nell’incertezza delle strette di mano.

    Il dj calò un pezzo da novanta, la voce di Alex Kapranos inondò la sala con una canzone dal ritmo irresistibile, di quelle che farebbero ballare persino i morti.

    «Voi siete i bastardi più fortunati della terra». Il barista ci interruppe allungandosi sul bancone.

    «Lo dico anch’io, ma per cosa in particolare?», gli chiese Julien, col solito sorriso sbruffone.

    «Quelle ragazze vi offrono queste», chiarì, mettendoci davanti due Corona gelate.

    «Chi?»

    «Le due bionde laggiù, vi stanno mangiando vivi», aggiunse con un gesto d’intesa.

    Mi girai a osservare le due ragazze, che ci fissavano ridacchiando. Anche questa volta avevamo trovato le più intraprendenti della serata.

    «Certe cose non cambiano mai». Il barista scuoteva la testa divertito.

    «Non è per loro che prendiamo in mano una chitarra?!», chiesi.

    Un dato di fatto: a tredici anni una chitarra faceva la differenza tra quello che passava la serata a fissare le ragazze e la finiva solo nel bagno di casa, e quello che scopriva com’era slacciare un reggiseno. Se eri fortunato, qualcosa di più.

    «Puoi dirlo forte», confermò

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