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Chiamami sottovoce
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E-book341 pagine4 ore

Chiamami sottovoce

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Info su questo ebook

È primavera, eppure la neve ricopre la cima del San Gottardo, monumento di roccia che si staglia sopra il piccolo paese di Airolo. La Maison des roses è ancora lì, circondata da una schiera di abeti secolari: sono passati molti anni, ma a Nicole basta aprire il cancello di ferro battuto della casa d’infanzia per ritrovarsi immersa nel profumo delle primule selvatiche ed essere trasportata nei ricordi di un tempo che credeva sommerso.
È il 1976 e Nicole ha otto anni, un’età in bilico tra favole e realtà, in cui gli spiriti della montagna accendono lanterne per fare luce su mondi immaginari. Nicole ha un segreto. Nessuno lo sa tranne lei, ma accanto alla sua casa vive Michele, che di anni ne ha nove e in Svizzera non può stare. È un bambino proibito. Ha superato la frontiera nascosto nel bagagliaio di una Fiat 131, disegnando con la fantasia profili di montagne innevate e laghi ghiacciati. Adesso Michele vive in una soffitta, e come uniche compagne ha le sue paure e qualche matita per disegnare arcobaleni colorati sul muro. Le regole dei suoi genitori sono chiare: “Non ridere, non piangere, non fare rumore”. Ma i bambini non temono i divieti degli adulti, e Nicole e Michele stringono un’amicizia fatta di passeggiate furtive nel bosco e crepuscoli passati a cercare le prime stelle. Fino a quando la finestra della soffitta s’illumina per sbaglio, i contorni del disegno di due bambini stilizzati si sciolgono nella neve e le tracce di Michele si perdono nel tempo. Da quel giorno, Nicole porta dentro di sé una colpa inconfessabile. Una colpa che l’ha rinchiusa in un presente sospeso, ma che adesso è arrivato il momento di liberare per trovare la verità.
Questa è la storia di un’amicizia interrotta e di un segreto mai svelato. Ma è anche la storia di come la vita, a volte, ci conceda una seconda occasione. Chiamami sottovoce è un romanzo potente su un episodio dimenticato del nostro passato recente. Perché c’è chi semina odio, ma anche chi rischia la propria libertà per aiutare gli indifesi.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2018
ISBN9788858982990
Chiamami sottovoce
Autore

Nicoletta Bortolotti

Nicoletta Bortolotti Nata in Svizzera, vive in provincia di Milano. Lavoracome redattrice, copy editor e ghostwriter. È una stimata autrice di romanzi per ragazzi, più voltefinalista al Premio Bancarellino. Il suo ultimo libro è Oskar Schindler il giusto .

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    Anteprima del libro

    Chiamami sottovoce - Nicoletta Bortolotti

    ermetico.

    1

    NICOLE

    2009, Lugano

    E così ora mia madre indossa la biancheria intima delle grandi occasioni, il profumo di rosa, forse, sui polsi e dietro le orecchie. La morte deve trovarci eleganti, diceva.

    L’uomo in giacca e pantaloni neri ha inserito l’ultima vite nella sua bara.

    «Mi dispiace.»

    La mano sudata che stringe la mia ha la consistenza di un mollusco.

    «Non l’abbiamo mai dimenticata.»

    Gli occhi che scivolano nei miei cercandovi un appiglio non sanno recitare il dolore.

    «Un’insegnante così è stata un regalo della vita…»

    Ricordo che era la prima della classe, anche se non ha mai perso l’abitudine di parlare dialetto. La mamma il dialetto lo parlava solo qualche volta con papà, ma a me si rivolgeva in italiano.

    Gli ex allievi di mia madre si accalcano all’ingresso del tempio crematorio, giocherellando con i bordi delle giacche o con le cerniere delle borsette per stemperare il disagio del lutto, cuccioli ormai cresciuti, stretti gli uni agli altri nella saletta senza finestre e senz’aria. Sembrano quasi felici di dividere anche questa prova a cui non erano preparati, come un tempo dividevano i banchi o la merenda. Affrontano la morte della loro maestra con più coraggio di un’interrogazione. Segno inequivocabile che sono diventati grandi.

    La sala del commiato.

    Un giorno di inizio primavera e azalee fluorescenti.

    Quattro vele inclinate dalla brezza di nordest costeggiano le montagne ancora coperte di neve. Le prue stropicciano il lago, un cellophane di luce immateriale.

    Sui nastri argentati che avvolgono due corone di fiori si leggono le scritte:

    TUA FIGLIA NICOLE.

    I TUOI ALLIEVI.

    La sofferenza ha preso le sembianze di un buco. Se lo osservo bene, noto che si allarga ai margini come le pellicole che vedevamo una volta, tutti e tre sul divano in sala, davanti al proiettore, quando si bruciavano.

    Non mi sono mai sentita così arrabbiata con la mamma, neanche quando litigavamo al telefono per una frase pronunciata con il tono sbagliato e poi non ci parlavamo per giorni e infine ci chiedevamo scusa, aderendo di nuovo l’una all’altra in un abbraccio lento, convinte che il nostro rapporto fosse speciale.

    Papà non capiva. Ma oggi, se vivesse ancora, saprebbe che il giorno in cui lei ha smesso di esserci ho smesso anch’io.

    Mi avvicino alla corona che ho fatto deporre, stacco una violetta e me la passo sul viso. M’illudo per un istante che questo gesto possa colmare la distanza e restituirmi mia madre.

    Un ex allievo viene verso di me. Senza avere il tempo di trovarle un posto migliore, infilo la violetta nella borsa.

    «Le assomigli» mi dice a bassa voce.

    Marco Recalcati a scuola non studiava niente e in seguito ha fatto carriera nel consiglio cantonale e guardandolo mi chiedo se andare male a scuola non sia una fortuna, il segno di un’intelligenza non dispiegata nei libri ma nella vita. Mi rendo conto d’invidiarlo.

    Le assomigli.

    Cerco il mio riflesso nella vetrina con l’elenco delle tariffe mortuarie per verificare se davvero somiglio a mia madre. I capelli chiari della stessa tonalità biondo cenere. Gli occhi più distanziati, ma del medesimo azzurro stinto. Forse sono più alta rispetto a lei di un centimetro.

    Un gatto tricolore, bruno, fulvo e bianco, di sicuro una gatta, passeggia tra le panche di legno. Da dove è entrato? La mamma amava i gatti. Diceva che le madri feline, scacciando i piccoli appena svezzati, li abituano con anticipo al tempo in cui lei non ci sarà più. Ma a quelle parole provavo un moto di ribellione.

    Giovanni mi circonda le spalle, mi sorregge appena, non parla e in silenzio gliene sono grata. Com’è solito, si limita a esserci.

    «Nicole!»

    La migliore amica di mia madre, la signora Helsa Nultz, strizzata nel tailleur antracite che dopo la menopausa non è più riuscita a chiudere sull’addome, avanza verso di me appoggiandosi a un bastone da passeggio, gli occhiali appannati. Mi ricorda uno gnomo rotondo dalle guance color lampone, che non sta mai fermo. Con lei mia madre ha diviso gli ultimi anni, prima che il Parkinson le annerisse a una a una le cellule cerebrali come le caselle di un cruciverba senza schema. Trascorrevano i pomeriggi sul Lungolago, facevano shopping in centro, sorseggiavano cioccolata al peperoncino nelle sale da tè sotto i portici.

    Avevo nove anni quando ci siamo trasferiti a Lugano.

    Papà, ingegnere edile, aveva finito di lavorare alla galleria e non c’era più ragione perché noi continuassimo a vivere in un insulso paese di montagna, che si animava solo pochi mesi l’anno grazie al turismo invernale.

    Nove anni.

    È un’età sbilenca, in cui non si sa se credere alle fedi che rassicuravano un tempo. Fluttuavo in quella terra di nessuno tra favole e realtà, tra Dio, Babbo Natale e il Big Bang. Quando abbiamo cambiato casa è stato come traslocare in un’altra esistenza. Non appartenevo più al vecchio mondo e non ero ancora approdata a quello nuovo. Ho messo la mia vita in pausa.

    Quello che ho lasciato: più che ricordi vividi, pixel disgiunti da un insieme. Una bambina seduta a gambe incrociate su un freddo pavimento in pietra, una cucina ampia con la stufa a legna in ghisa, intagliata con fiori e ghirlande, il pianoforte della mamma vicino alla finestra su cui a giugno appendevamo gerani color sangue. Il profilo acuto del San Gottardo, dove papà lavorava, monumento di roccia amico o nemico a seconda dell’umore delle nuvole. L’odore della neve, ammassata a dicembre sulla porta d’ingresso, se non mettevamo un’asse di legno a ripararla, un cancelletto che non si chiudeva mai. E altri odori più pericolosi che da bambina annusavo con voluttà: benzina, gas, acqua ragia. Anni liberi di rotolare lungo i pendii, tra gli abeti che fremevano nel vento sopra l’erba secca. Le goccioline di neve sciolta sugli sci rossi e blu che mi aveva regalato papà. Il primo Topolino letto sul masso di una radura invisibile, vicino a una cascata dove facevo il bagno nuda.

    Quello che ho trovato qui: una ragazza informe con riflesso negli occhi il metallo delle bocce natalizie sull’abete in piazza Dante. L’ordinata accoglienza di una città per profughi, che durante la Seconda guerra mondiale aveva salvato centinaia di ebrei e antifascisti e anarchici. Le passeggiate insieme alla mamma in tailleur Chanel, al parco Ciani, con i giardini all’italiana e all’inglese, e un cancello in ferro battuto affacciato sull’acqua. Mi aggrappavo alle sue sbarre per non affogare in quell’alluminio liquido, bordato di fiori antichi. Poi correvo all’ansa formata da un salice piangente che era diventato la casa dei miei personaggi. A volte, quando c’era ancora papà, uscivamo tutti e tre la sera per vedere le fontane illuminate spargere scintille sul lago color ardesia.

    La mamma non voleva che cantassi la canzone degli anarchici, Addio Lugano bella, perché, sebbene esprimesse la generosità non esibita di questa città, parlava pur sempre di anarchia e l’anarchia era un morbo deleterio, uno dei peggiori, ma io la cantavo di nascosto con la chitarra e la so ancora a memoria. Ieri sera ne ho trovata una versione in rete con le seconde voci.

    Adesso mi chiedo perché qui, al suo funerale, mi tornino in mente quelle strofe, m’invadano la mente, e non vorrei cantare, nonostante lo faccia in silenzio, non vorrei intonare un brano che la mamma mi vietava, però non riesco a smettere.

    Mi devo chinare per abbracciare la signora Nultz, mi sembra di stringere una bambola soffice. Le sue lacrime mi bagnano la camicetta di seta nera.

    «Non so come sopravviverò senza di lei.»

    Adesso mi tocca pure consolare la signora Nultz, che si dirige verso la bara e ci appoggia sopra un bacio.

    Grazie, mamma, mi complichi la vita più da morta che da viva, le direi per telefono.

    Lei riderebbe e riderei anch’io. Poi le vorrei chiedere: è importante, mamma, per favore rispondimi, non puoi venirmi a dire non ti rispondo perché non posso più farlo, devi cavartela da sola. E non puoi neanche graffiarmi e soffiarmi contro come le madri feline. Ti vorrei chiedere: le lacrime macchiano la seta? Questa camicetta, che la tua migliore amica ha inzuppato di dolore, va messa in lavatrice o immersa in acqua fredda con un tappo di detersivo per i capi scuri?

    L’addetto di servizio c’invita a uscire dalla sala e ci fa radunare nel locale del forno crematorio. Due uomini in pantaloni e girocollo neri, dagli avambracci tatuati, sollevano la bara come uno stuzzicadenti. Non c’è un nocchiero con la barba canuta a traghettarla, ma guide metalliche su cui il feretro viene incastrato nella parte superiore. Infine, la bocca infuocata di un drago dai denti di acciaio si spalanca davanti a noi e inghiotte con lentezza esasperante, un centimetro alla volta, la mia mamma.

    2

    NICOLE

    2009, Lugano

    «Devo tornare a Milano, domani ho un’udienza. Sei sicura di voler restare?»

    Giovanni si svincola con delicatezza dalle mie braccia.

    Il piazzale davanti al tempio è ormai vuoto, tutti se ne sono andati, e immagino che per l’intera giornata, tornando alle loro occupazioni, dovranno impegnarsi a scacciare l’odore di morte intrappolato nelle fibre dei vestiti, persistente quasi quanto quello di olio rancido appena usciti da un locale.

    «Tra poco viene il notaio per il testamento. Vorrei far mettere l’urna a Morcote. È bello quel cimitero, a picco sul lago.»

    «Vuoi che mi fermi finché il notaio non arriva?»

    «No, parti pure, sto bene, vado a casa dei miei e mi sistemo. Ho voglia di camminare. Giò, guida piano.»

    «Come preferisci. Ci vediamo domani sera, allora. Mi raccomando, chiamami.»

    È lui l’unico uomo che, dopo avermi offerto un mojito a quella festa di editori radical chic, si è affacciato sulla mia solitudine, determinato ad attraversarla come uno sciatore fuori pista?

    O forse non sono sicura che mi piaccia?

    La sua figura imponente, il torace vasto da giocatore di pallanuoto, scompare dentro la portiera del Suv Mercedes blu notte, parcheggiato davanti all’entrata della sala del commiato.

    Prima di mettere in moto abbassa il finestrino e si sporge all’esterno, non dice quello che vorrebbe, ma si limita a una battuta.

    «Non fare aspettare il notaio.»

    «Al funerale della mamma sono stata puntuale.»

    Forzo le labbra nel primo sorriso della giornata.

    Lo amo o non lo amo?

    A rovinarmi la vita sono sempre state le domande stupide.

    Guardo l’orologio. Fra tre quarti d’ora il notaio, un vecchio amico di papà, si siederà nella sala dei miei genitori, all’imponente tavolo di noce, per leggere le ultime volontà di mia madre.

    Decido di fare un giro più lungo, mi concentro sul ritmo dei passi, sulla pianta dei piedi che vorrebbe aderire alla terra. Attraverso il parco. All’entrata un chiosco vende gelati, mi ci fermavo sempre con lei. «Un cono misto, grazie, cioccolato, vaniglia e nocciola.» Percorro il Lungolago, arrivo al cancello in ferro battuto richiuso sull’acqua e ornato da motivi floreali ed elaborate volute, con ai lati una panca in pietra a semicerchio e due colonnine. Mi posiziono al centro della stella bianca disegnata sull’acciottolato, mentre il gelato mi cola sulla mano. Me lo lecco dalle dita come facevo da bambina e come allora appoggio la fronte alle sbarre per guardare i cigni oscillare sulla superficie increspata. Non ho neanche un pezzo di pane in tasca. Con la mamma rovesciavamo sull’acqua sacchetti di pane secco, aspettando che i cigni nuotassero verso di noi.

    I primi pedalò risplendono nella luce meridiana e i battelli carichi di turisti incrociano le loro scie, inseguiti dai gabbiani. Il San Salvatore, con la sua cima tonda e spelacchiata, ricorda la testa calva di un orco.

    Non sempre le persone sono la terra in cui nascono, ma spesso diventano la terra che abitano. Alcuni luoghi possiedono una voce narrante e più sono estremi più raccontano la caducità. Il mondo di chi vive sulla riva di un lago odora di alghe, nafta e muffa, diluisce le gradazioni dei colori dal grigio antracite, al verde acido, al blu mercurio. Quante volte ho provato a dipingerli con gli acquerelli belgi che mi aveva regalato la mamma. A dodici anni venivo qui con il cavalletto, il sabato pomeriggio, e cercavo di riprodurre i riflessi della vegetazione, le sfumature delle onde in 3D, naturalmente senza riuscirci. La passione per il disegno, su cui più tardi ho tentato di mettere in piedi un lavoro, è nata forse da questa impossibilità. Perché un lago lo puoi contemplare, ma non ritrarre. Un lago ti sta sempre alle costole, ti segue anche se cambi città. E così il lago di Lugano è venuto ad abitare con me a Milano.

    Attraverso la strada e me lo lascio alle spalle, m’inoltro per i vicoli del centro, percorro portici medievali, dove brillano vetrine dai prezzi improponibili per chi viene dall’Italia, le vecchie case che conosco a memoria, facciate strette, adorne di fregi e stemmi del Cantone. Antica città del Nord ricostruita ad arte, baluardo di pulizia contro la sporcizia del mondo. Cuscini di fiori primaverili cascano indolenti dai balconi prima che sboccino i gerani. Tra poco sbocceranno, mamma.

    Arrivo alla funicolare di piazza Cioccaro, compro il biglietto e prendo posto sul vagone inclinato. Dopo pochi minuti il cavo d’acciaio si tende sui binari come se da un momento all’altro dovesse spezzarsi, e il veicolo si arrampica con uno sfrigolio sulla collina della stazione.

    La paura del vuoto non mi è passata.

    Oltre un bosco di castagni si profila la casa giallo ocra dei miei genitori.

    Le parole con cui il notaio annuncia la lettura del testamento della mamma s’impigliano nei folti baffi bianchi da uomo di altri tempi. Mi ricorda vagamente George Hautecourt, il notaio degli Aristogatti.

    Sulla lama del taglierino d’argento con cui sta per dissigillare la busta, con la precisione di un chirurgo che incide un neo, si specchia la vecchia tappezzeria, scelta da mia madre poco dopo che ci eravamo trasferiti qui. Osservo, come facevo a dodici anni, le scene di caccia e i paesaggi campestri, disegnati a tratto nero, in stile porcellana inglese, che nei tediosi pomeriggi invernali ricopiavo su un album per esercitarmi.

    La parete opposta è interamente occupata dalla libreria, un mobile in noce contenente più di mille volumi, disposti sugli scaffali in doppia fila. Papà prediligeva saggi di ingegneria alpina, ma la mamma leggeva un po’ di tutto e i titoli sui dorsi delle copertine riflettono il suo gusto poliedrico, da lettrice forte.

    Noto solo adesso come i libri, sia quelli provenienti dalla casa di Airolo sia i nuovi acquisti, si siano stratificati negli anni per accumulo: formazioni geologiche attraverso cui datare le diverse ere della mia famiglia.

    Gli scaffali più bassi sono occupati dagli spartiti per pianoforte e dai dischi di musica classica della mamma, che non abbiamo più potuto ascoltare dopo che si è guastato il giradischi.

    Finalmente le dita scarne del dottor Alberico Lorenzetti si stringono sul taglierino lacerando l’involucro, l’utero cartaceo che custodisce le parole di mia madre. Ne esce un foglio A4 scritto a mano. Riconosco la sua calligrafia con i caratteri larghi e arrotondati, le lettere che occupano tutto lo spazio sulla pagina e si ancorano solidamente alle righe. La scrittura di una persona con i piedi per terra e con uno sviluppato senso della realtà, tirerebbe a indovinare qualche grafologo.

    Alla mamma piaceva scrivere a mano e non ha mai avuto confidenza con la posta elettronica. Anche in questo le assomiglio. Lei adorava il gesto antico di impugnare la penna, di tenerla salda fra l’indice e il pollice, che fosse una semplice Bic con cui calcare sul foglio o la penna lilla con i brillantini Swarovski o la Montblanc che le aveva regalato papà. Forse era una delle poche madri a scrivere ancora lettere a sua figlia su una carta impreziosita da gigli fiorentini e, soprattutto, era una delle poche madri a recarsi alla posta per spedirle.

    Noto che il testamento è stato compilato con la Montblanc, la penna delle grandi occasioni e dei documenti importanti. I caratteri tondi, in inchiostro nero, mi fanno bruciare gli occhi come quando da piccola provavo a fissare il sole.

    Il notaio incomincia a leggere, le sue labbra emettono un fruscio appena percettibile sotto i baffi.

    «Lugano, 23 novembre 2008. Io sottoscritta Paola Bernasconi, nata ad Airolo il 4 aprile del 1931, lascio alla mia unica e diletta figlia Nicole Christen i miei averi, i titoli e tutti i miei beni. Le lascio altresì il conto corrente a me intestato…»

    Dalle finestre a ogiva il lago e le colline evaporano in un’opaca scenografia.

    «… i gioielli di mia madre e quelli ricevuti in regalo dal mio defunto marito, la casa di Lugano…»

    L’orizzonte biancastro cola oltre le vetrate come un acquerello piegato per sbaglio prima che si asciughi. Cerco nella borsa la violetta che ho tolto alla corona sulla bara e la trovo in fondo, sgualcita.

    «… la casa di Airolo, dove abbiamo trascorso la prima parte della nostra esistenza…»

    Tiro fuori il portafoglio e infilo la violetta nello scomparto della carta d’identità.

    Il dottor Alberico Lorenzetti s’interrompe, imbarazzato dalle lacrime che a tradimento si allargano sotto di me sulla superficie della scrivania. Mi porge un fazzoletto di carta e dopo una pausa riprende a leggere.

    «… i momenti più sereni…»

    La casa di Airolo.

    Fisso il foglio che il notaio regge fra le dita, facendolo tremare agli angoli, come se potessi ancora guardare in viso la mamma, stupita.

    «C’è ancora? Credevo che i miei l’avessero venduta…»

    Il dottor Alberico Lorenzetti è costretto a interrompersi per la seconda volta.

    La vecchia dimora di famiglia, le intime mura dove ho trascorso la mia infanzia.

    «Da quanto scrive sua madre, risulta che non è così. Quella casa ora è sua ed è libera da affitti e ipoteche.»

    «Ci siamo trasferiti a Lugano che ero bambina e non abbiamo più nominato Airolo. Perché i miei genitori non hanno più parlato della nostra prima casa?»

    «Cara signorina Christen, sono un notaio, non uno psicologo e neppure un indovino, grazie a Dio.»

    Una risatina soffocata da un colpo di tosse.

    «La casa di Lugano risulta acquistata all’inizio del ’77.»

    «Sì, giusto, avevo nove anni quando siamo venuti qui.»

    Il notaio riprende a leggere.

    «… certa di assicurare a mia figlia Nicole un futuro dignitoso, l’abbraccio forte e spero che il mio abbraccio la sostenga sempre negli anni a venire. In fede, Paola Bernasconi, Lugano, 23 novembre 2008.»

    Quando il notaio leva gli occhi dalla carta per farmi capire che il testamento è terminato, noto le sue sopracciglia folte e scomposte. Mia madre avrebbe resistito a fatica alla tentazione di regolargliele con il rasoio o di pettinargliele con cura. Lei non sopportava i peli fuori posto. E neanche le unghie lunghe. Lei non sopportava il disordine. Non tollerare il disordine in un mondo disordinato significa condannarsi a battaglie disperate, estenuanti e inutili. Forse, insegnando, la mamma si era illusa di ridurre il caos in formule profumate ed esatte come un letto appena rifatto. E io, decidendo di iscrivermi al liceo artistico, mi ero illusa di disfarglielo, e di disfarlo anche a mio padre ingegnere, appallottolando le coperte e saltandoci sopra. Con il tempo mi sarei resa conto che un disordine ripetuto in sequenze immutabili si converte in un ordine ancora più intransigente.

    «Adesso, cara signorina Christen, deve solo apporre la sua firma qui, sotto quella di sua madre, per accettazione, e lei è da oggi l’unica erede di ben due case e di un considerevole patrimonio.»

    Firmo con una penna di Hello Kitty trovata chissà dove. Gli oggetti di cui mi servo non sono mai all’altezza, quasi a tradire un’imperfezione nascosta.

    Scrivo il mio nome sotto quello della mamma. Un nome che prima di lei non esisteva.

    «Queste sono sue, adesso. Le consegno, secondo le ultime volontà della defunta signora Paola Bernasconi, le chiavi della casa di Airolo.»

    Il notaio estrae una busta dalla sua valigetta, strappando la carta con delicatezza, tira fuori un mazzo di chiavi e me le porge. Per qualche secondo sembra che le appenda nell’aria, in attesa di una mia decisione. Le afferro come il trofeo sospeso a un filo che dava diritto a un giro in più sulla giostra. Stringo nel palmo il ferro seghettato.

    «Come stai?»

    «Così. Sì, Giò, sono ancora da mia madre.»

    Con il cellulare premuto fra l’orecchio e la clavicola vado in cucina e prendo un barattolo di sugo dal sacchetto della spesa che ho fatto al minimarket, a due isolati di distanza, non appena il notaio se n’è andato.

    «Mi fermo un giorno in più. Passo la notte qui e domani vado ad Airolo.»

    Lui assorbe la notizia in silenzio. Sul display del cellulare potrei leggere il suo pensiero: Quindi stasera non ci vediamo?

    Forse tra un secolo inventeranno una app per tradurre gli impulsi cerebrali sullo smartphone.

    «Devo andarci, in realtà non ne ho molta voglia. Non sapevo che papà e mamma avessero tenuto quella casa, continuo a pensarci. Chiusa per più di trent’anni. Chissà come sarà ridotta…»

    Tanto quello che ti metti in testa di fare fai e io non conto mai niente nelle tue decisioni.

    «Ma perché non l’hanno venduta?»

    «Non so, me lo sono chiesta anch’io.»

    Apro il barattolo, c’infilo un dito e lo porto alle labbra. Lecco il rosso del pomodoro, freddo e dolciastro.

    «Ci vai da sola?»

    «In una casa di fantasmi non si va in compagnia.»

    «Speriamo che non ci siano fantasmi maschi. Potrebbero essere molesti.»

    Chiudo la telefonata, avvertendo già la sua mancanza, e tento di prepararmi un piatto di spaghetti. La vedo sul ripiano vicino al lavandino. La Settimana Enigmistica è aperta a una pagina con un cruciverba iniziato.

    Perché non mi hai più parlato di Airolo, mamma?

    Un cruciverba lasciato a metà. Mia madre ha compilato i cruciverba fino all’ultimo momento di lucidità, per allenare il cervello e per non dimenticare le parole.

    Se vuoi ti aiuto a completarlo, cosa farebbe di diverso una brava figlia?

    Cerco la matita che lei teneva nella scatolina dei bloc-notes per le liste della spesa, eccola qui. Quando ero piccola, io e la mamma facevamo le parole crociate nel lettone.

    Tre verticale. Paste con la crema.

    Perché tu e papà non avete venduto e neppure affittato la nostra casa?

    Risposta: Bignè.

    Quattro orizzontale. Il Tg regionale.

    Perché tenerla chiusa e abbandonata per tutto questo tempo?

    Risposta: Tgr.

    Poso la matita e sfioro di nuovo le chiavi che mi ha consegnato Lorenzetti come magici amuleti. Nelle storie per ragazzi che illustro compare sempre qualche serratura da forzare per risolvere un enigma.

    Eppure è strano. Io e la mamma ci raccontavamo tutto, o quasi, parole senza peso, minime confidenze, quando magari lei era in bagno a truccarsi e io mi stavo lavando i denti. Nella cura del corpo si dispiegava il nostro legame.

    Perché mi ha taciuto un dettaglio così importante? Lei e papà sapevano quanto io fossi affezionata ad Airolo, al luogo in cui sono stata bambina, alle montagne dove la sera spiriti protettori accendevano lanterne. Perché non ci siamo più tornati? Avremmo potuto andarci in vacanza. Invece, non l’hanno più nominata, come se non fosse mai esistita. Conoscendoli, mi è difficile credere che si sia trattato di una semplice dimenticanza. E la mamma cita la nostra vecchia abitazione solo nel suo testamento…

    Mi corico nella cameretta dalle pareti rosa antico, con appese stampe di cavalli a dondolo e giochi di una volta. Come un tempo lascio accesa la lampada sul comodino, dal paralume in pizzo, perché questa sera ho pochi anni e temo il buio. Resto un po’ con gli occhi aperti ad ascoltare il ronzio dei rari motori che di tanto in tanto inquietano la notte.

    3

    MICHELE

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