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Le quattro donne di Istanbul
Le quattro donne di Istanbul
Le quattro donne di Istanbul
E-book375 pagine5 ore

Le quattro donne di Istanbul

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Info su questo ebook

Per Forbes la più influente scrittrice turca

Autrice del bestseller L’ultimo treno per Istanbul

Dopo l’ascesa al potere di Hitler, Gerhard Schliemann, la moglie Elsa e i loro due figli, Peter e Susy, abbandonano la Germania per sfuggire alle persecuzioni naziste. Si rifugiano dapprima a Zurigo e poi, quando Gerhard riceve un’offerta dal Dipartimento di Medicina dell’Università di Istanbul, in Turchia. Mentre Susy e Gerhard sono affascinati dalla cultura turca e provano a integrarsi, Elsa e Peter sono invece fortemente ancorati alle origini tedesche. Nella città musulmana le nuove usanze avranno impatti fortissimi sulle loro vite, fino a ridisegnare i loro concetti di patria e appartenenza. In questa potente saga familiare, la Kulin racconta le sfide e le difficoltà di una vita in esilio, le ardue scelte di chi è costretto ad abbracciare un futuro incerto con una valigia piena di speranze. Un romanzo evocativo e commovente al tempo stesso, su un episodio poco noto, scritto con sapiente maestria dall’autrice più influente della letteratura turca.

Un’autrice da oltre 10 milioni di copie
Tradotta in 27 Paesi

Hanno scritto di lei:

«Kulin rende con sapienza narrativa un episodio storico poco noto. E dipinge uomini e donne capaci di trovare l’umanità dell’altro al di là degli stereotipi.»
D - la Repubblica

«Un viaggio nella storia della Turchia nel primo libro pubblicato in Italia dalla Kulin, una delle autrici più amate in patria, dove ha venduto più di dieci milioni di copie.»
La Lettura - Corriere della Sera
Ayşe Kulin
È nata nel 1941, è una delle autrici più amate della Turchia, e i suoi libri hanno venduto in patria più di dieci milioni di copie. Nel 2011, l’edizione turca della rivista «Forbes» l’ha definita la scrittrice più influente in tutto il Paese. Oltre ad aver firmato diversi bestseller internazionali, ha lavorato come produttrice e autrice cinematografica e televisiva. L’ultimo treno per Istanbul è stato il suo primo libro pubblicato in Italia, con successo di pubblico e critica e ha vinto il Premio Roma. La Newton Compton ha pubblicato anche L’ultima famiglia di Istanbul e Le quattro donne di Istanbul.
LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2017
ISBN9788822715180
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    Anteprima del libro

    Le quattro donne di Istanbul - Ayşe Kulin

    Parte prima

    IL PAESE DELLA STELLA

    E DELLA MEZZALUNA

    Ancora una volta

    aneliamo una casa

    Marzo 1933

    Francoforte

    Elsa stava lì sulla porta, trattenendo le lacrime. Poteva portare con sé solo una borsa per il viaggio e si tormentava su cosa prendere. Come avrebbe voluto fissare per sempre nella memoria ogni singolo oggetto. Il cuscino Gobelin fatto dalla nonna era poggiato sul divano. Davanti alle file di libri sugli scaffali, mischiate agli animaletti di porcellana che collezionava sin da bambina, svettavano le foto di famiglia. La cornice più grande racchiudeva la foto del matrimonio: adagiato di lato sopra uno sgabello, lo strascico del vestito era stato disposto ad arte. Gerhard era in piedi, appena dietro, con una mano sulla sua spalla come a voler dire: Fidati. D’ora in poi sarai al sicuro. Ma adesso quello stesso uomo stava dando a Elsa solo pochi minuti per lasciare casa sua.

    Stavano facendo la cosa giusta?

    Se solo avessero aspettato un altro po’. Ne avrebbero potuto discutere insieme, trovare una soluzione.

    Elsa entrò nella sala da pranzo e aprì lo sportello della credenza. Inginocchiandosi, raggiunse il fondo del ripiano inferiore e accarezzò il servizio di piatti Meissen. Era un regalo di nozze di Tita, il pezzo più prezioso del corredo di sua zia. Zia Tita, priva di figli suoi, era stata come una madre per Elsa; molto più comprensiva e amorevole di quanto non lo fosse la sua vera madre. Lo zaino di pelle di Elsa, usato ai tempi del liceo quando faceva parte degli scout, era ormai colmo. Possibile che non potesse infilarci uno o due piatti come ricordo? Riusciva quasi a sentire la voce di Gerhard: Sei matta? Stiamo cercando di metterci in salvo e tu ti preoccupi di qualche vecchio piatto!.

    Va bene, però magari qualche foto di famiglia. Sarebbe riuscita a farci entrare un album intero? E la sua cappelliera piena di lettere a lei care? Quelle scritte dagli amici di scuola erano legate da un nastro blu; le cartoline di papà e le missive istruttive della mamma si trovavano in una grande busta beige; le goffe dichiarazioni d’amore di Gerhard e le sue poesie amatoriali erano avvolte in un pezzo di stoffa bordato di merletto.

    Quando si erano salutati, al termine di quella prima estate insieme, Elsa aveva elogiato la sua decisione di dedicarsi agli studi scientifici, scherzando sul suo scarso talento come poeta. Gerhard giurò di non scriverle più una lettera d’amore, poi però ne compose diverse altre decine. Il ricordo di quei versi ingenui riusciva sempre a farla sorridere, ma in quel momento le lacrime le riempivano gli occhi mentre cercava di rammentarne alcuni tra i più brevi: I suoi occhi sono stelle | I suoi capelli sono seta | La regina del mio cuore | Sarà per sempre il mio amore… Doveva forse portare con sé quella poesia per leggerla ad alta voce in un futuro ancora lontano ai suoi nipoti? Per un attimo fu piacevole immaginarsi una nonna la cui bellezza aveva ispirato omaggi galanti, ma in quel momento non c’era tempo per sfogliare vecchie lettere. Se un giorno voleva avere dei nipoti avrebbe fatto meglio a sbrigarsi.

    Dallo specchio sopra la credenza Elsa colse l’immagine del suo viso pallido. Aveva un tic all’occhio sinistro, sintomo ricorrente del suo profondo stato di ansia. Poi sopraggiunsero le lacrime. «Ladri!», urlò, soffocando i singhiozzi. «Ladri maledetti!». Le stavano portando via la sua identità. La sua storia, i suoi ricordi, le sue lettere, i suoi amici, la sua casa, la sua strada, la sua città. Un pazzo con la ragione ottenebrata dall’avidità le stava rubando la vita, e suo marito non era in grado di fermarlo.

    Sapeva di non poter incolpare Gerhard. Era stata lei a spingere il marito a candidarsi per un posto all’università di Francoforte sul Meno. Il frutto di una sua fantasia romantica: lo scrittore che più ammirava era un celebre figlio di quella città. Aveva creduto che, nel posto in cui erano ancora conservati la scrivania, il calamaio e persino le tortiere della sua cucina, sarebbe stata circondata dall’arte, respirandola in ogni momento e ogni giorno. Se i padri della città amavano così tanto Goethe, era certa che anche i cittadini comuni, soprattutto se scienziati, sarebbero stati bene accolti.

    Elsa, a cui batteva ancora forte il cuore tutte le volte che passava davanti alla casa di Goethe e che conosceva a memoria i suoi versi, ora era costretta ad abbandonare la sua ingenuità.

    Asciugò con la mano la lacrima che le scorreva lungo la guancia e prese la lettera dal tavolo.

    Elsa,

    l’impiegato che ti ha portato questo biglietto crede che io abbia dimenticato a casa le domande dell’esame. Prendi la busta beige nel cassetto destro della libreria, mettici dentro il mio passaporto e consegnagliela. Poi recati subito a scuola da Peter e fallo uscire dalla classe. Di’ all’insegnante che tua madre sta male (non preoccuparti, sta benissimo) e che devi immediatamente andare da lei. Prendi solo i vostri passaporti, i gioielli e tutti i contanti che ci sono nella cassaforte. Non ti fermare a riflettere! Salite sul primo treno per Zurigo. Ci vediamo a fine giornata a casa dei tuoi genitori. Devi fare presto. Lo capisci, vero?

    G.

    «I gioielli?», borbottò mentre entrava in camera da letto. L’unico gioiello che possedeva era la fede che portava al dito. Oh, e la spilla di rubino di Tita. Tirò giù la cappelliera dal ripiano più alto, prese la chiave nascosta all’interno, si inginocchiò di fronte all’armadio e aprì la cassaforte. Ah, aveva dimenticato l’orologio d’oro da taschino di Gerhard, un regalo di nozze di suo padre. Sul comò c’era della bigiotteria, ma non ci avrebbero ricavato nulla. Oh, e quella particolare crema per il viso che aveva comprato solo la settimana scorsa! Ma nella borsa non ci sarebbe entrata.

    Che assurdità soffermarsi su certe sciocchezze; non c’era tempo per i piagnistei. Avvolse l’anello, l’orologio e la spilla dentro un fazzoletto. Afferrò la collana d’oro che aveva al collo… il pendente no, santo cielo! Con le mani che le tremavano tolse via l’emblema e lo infilò nella busta insieme alle banconote della cassaforte. Andò in cucina. Nel portapane era riposta qualche moneta avanzata dalla spesa giornaliera oltre a tutti i suoi risparmi personali. Fece scivolare con attenzione il denaro nello zaino poi, colta da un impulso irrefrenabile, si precipitò in camera da letto a prendere un piccolo astuccio di cipria e un rossetto. Ecco fatto.

    Era passata quasi mezz’ora da quando Helmut, l’impiegato, era uscito con il passaporto di Gerhard, e lei era ancora lì a girare a vuoto. Elsa fece un sospiro e con riluttanza entrò nella camera dove stava dormendo la sua bambina.

    Mentre attraversava cauto il prato, facendo attenzione ai fiori selvatici, vide uno scoiattolo saltare giù da un albero, mettersi dritto e iniziare a odorare qualcosa tra le zampe. Un sorriso gli attraversò il volto per la prima volta dopo giorni. Lui e sua moglie erano fortunati. Almeno non abitavano a Northeim, come sua madre e sua sorella. La lettera che gli avevano inviato qualche settimana prima lo aveva molto preoccupato:

    Come se non bastassero le giornate grigie e l’umidità che ti entra nelle ossa, con questi edifici vecchi e tetri che ci circondano sembra di essere sepolti vivi. Niente però è peggio della mancanza di lavoro. Ti ricordi di Rudy, il vicino che ha più o meno la tua età? Era disoccupato da quasi due anni quando finalmente ha trovato qualcosa – ed è stato grazie ai nazisti! Qui la vita scorreva abbastanza noiosa poi, tutt’a un tratto (ti sembrerà strano che ti scriva di queste cose) sono arrivati i nazisti, quei deprecabili nazisti, e si sono messi a organizzare festival, concerti e parate. Persino io e la mamma abbiamo preso parte agli intrattenimenti. C’è da dire che hanno mostrato il pugno duro con gli attaccabrighe, così adesso non si assiste più a risse tra ubriachi. E poi aiutano i bisognosi. Hanno persino inviato uno studente delle superiori a casa di Gisele – abita dalle nostre parti – per dare ripetizioni di matematica a quel somaro di suo figlio. Poi, quando anche altri genitori hanno fatto richiesta di lezioni private, i nazisti hanno avviato dei corsi specifici presso il municipio. Tengono traccia dei decessi e dei funerali e mandano denaro alle famiglie. Naturalmente continuano a disprezzare gli ebrei. Ma, per il momento, non sembrano darci fastidio, e qui si vive molto meglio. Non ci resta che aspettare e vedere che succede.

    Sì, erano fortunati a trovarsi a Francoforte, lontano da quelle tristi cittadine dove i nazisti la facevano da padroni.

    Lui ed Elsa si erano sposati presto e avevano avuto due figli sani e adorabili. Desideroso di compiacere il futuro suocero, Gerhard si era laureato in scienze, decisione di cui non si pentiva. Non solo gli piaceva il proprio lavoro, ma lo trovava anche molto gratificante. Inoltre, aveva affittato con la famiglia una cosiddetta casa a zigzag in uno dei nuovi insediamenti progettati dall’architetto progressista Ernst May. L’affitto era ragionevole, anche se abitavano in un quartiere di intellettuali a pochi passi dall’ospedale universitario in cui lavorava. Le cose andavano bene, ma Gerhard non poteva fare a meno di provare una certa inquietudine per la crescente retorica violenta proveniente da Berlino. Si rendeva conto che non tutto funzionava nel suo Paese – o nel resto d’Europa. A seguito della Grande Guerra il continente era alle prese con attriti inerenti i confini, malcontento, emigrazione di massa interna… Gerhard si sentiva fortunato ad avere la possibilità di dedicarsi alle proprie ricerche e ai suoi studenti. Aveva sempre ritenuto che, se si fosse mantenuto a distanza dalla politica, lo avrebbero lasciato in pace. Adesso non ne era più così sicuro.

    Proprio a causa di questo suo inamovibile ottimismo, il raid avvenuto poche sere prima lo aveva molto scosso. Lui e la moglie si erano appena coricati quando avevano udito delle auto, l’abbaiare furioso del cane del vicino e dei pesanti scarponi su per le scale. Erano saltati giù dal letto e si erano precipitati alla finestra notando diversi veicoli della polizia parcheggiati lì di fronte. Con le orecchie appiccicate alla porta d’ingresso, avevano cercato di capire cosa stava succedendo e avevano pregato che i loro figli non si svegliassero. Pugni battuti contro gli usci. Domande urlate. Porte aperte e sbattute. Poco dopo, lo stridore dei pneumatici aveva annunciato che la polizia se ne stava andando. Il condominio era piombato in un silenzio mortale. Quando Gerhard aveva toccato la maniglia della porta, Elsa gli aveva afferrato il polso. Il tic al suo occhio sinistro era ricominciato.

    «Devo scoprire cosa sta succedendo. Vado a chiederlo agli Hansel e poi ritorno subito», aveva detto Gerhard. Era sceso al piano di sotto e aveva bussato alla porta.

    «Chi è?»

    «Sono Gerhard Schliemann, il vicino. Non è necessario che apra la porta, signor Hansel. Volevo solo chiederle se sapeva perché è venuta la polizia».

    «Cercavano una pistola. Immagino abbiano ricevuto una soffiata. Cosa dovrei farci io con una pistola? In realtà volevano intimidirmi».

    «Ha tutta la mia comprensione. Per il resto, tutto bene? Ha bisogno di qualcosa? Posso portarle un sedativo».

    «Non voglio un sedativo. Ma potrebbe portarmi un po’ di tranquillità? Ho bisogno della dose più forte che ha a disposizione», aveva detto l’anziano.

    «Di questi tempi la tranquillità scarseggia. Dovremmo provare al mercato nero. Buona notte».

    Elsa, che lo stava aspettando sulla porta, era corsa tra le sue braccia. «La prossima volta toccherà a noi. Fidati. Troveranno qualche scusa. Dio mio! Non avrai portato a casa il fucile di tuo padre, spero».

    «Certo che no. Che ci faccio io con un fucile? L’ho restituito dopo che sono andato a caccia al villaggio».

    «Ho paura, Gerhard».

    L’occhio sinistro continuava a contrarsi.

    «Non preoccuparti, tesoro. Non ci succederà nulla».

    Quelle parole erano suonate prive di senso anche a lui. Fino a poco tempo prima non aveva esitato a manifestare le proprie idee al bar dopo la terza birra, non ci aveva trovato nulla di male a restarsene seduto con un collega nella caffetteria dell’università a leggere un giornale di opposizione, e non aveva avuto remore nell’intimare a uno studente nazista di lasciare la sua politica fuori dal laboratorio. Ma adesso aveva paura. Spaventato come un coniglio inseguito da cani randagi. Come sarebbe stata la sua vita d’ora in poi?

    «È tutta colpa mia», aveva detto Elsa. «Sono stata io a volermi trasferire qui».

    Lui le aveva messo un braccio sulle spalle, accompagnandola in camera da letto. «Non essere sciocca. Domani sarà tutto dimenticato».

    Ma la paura continuava a tormentarlo. Si aspettava che da un momento all’altro bussassero alla porta, passava nottate inquiete intervallate da incubi vividi, svegliandosi ogni mattina esausto e in preda all’ansia. Eppure, la vista di qualcosa di semplice e lieto come quello scoiattolo intento a mangiucchiare il torsolo di una mela sul prato verde, riusciva ancora a risollevargli il morale.

    La primavera stava per arrivare. Gli alberi sarebbero fioriti prima della fine della settimana, trasformando i giardini dell’università in un paradiso. Doveva pensare a cose belle, così poi sarebbero arrivate. Da un giorno all’altro gli avrebbero assegnato la cattedra della facoltà di patologia. L’attuale direttore del dipartimento, Herman, aveva già presentato le dimissioni e se ne sarebbe andato alla fine del mese per iniziare una nuova vita in America. Tutti sapevano che Gerhard era stato scelto per rimpiazzarlo, quindi doveva pensare a…

    «Oh!», esclamò, sentendo una mano toccargli il braccio.

    «Gerhard, ti ho spaventato?»

    «Ah, Rudolf, sei tu. No, ero solo soprappensiero», disse al collega. «Bella giornata, non è vero?»

    «Non ne sono così sicuro. Vieni con me un momento».

    Prendendo a braccetto Gerhard, Rudolf lo condusse sotto un castagno, si guardò rapidamente attorno poi gli sussurrò all’orecchio. «Gerhard, devi andartene. Subito. Ho scoperto una cosa ieri sera a cena. Mio cognato è un poliziotto. Lo conosci. Abbiamo giocato a tennis insieme. Ad ogni modo, ha bevuto un po’ e gli è sfuggito che oggi prevedono di compiere degli arresti all’università. Se fossi in te, prenderei moglie e figli e me ne andrei in un’altra città, o magari all’estero, se ti fosse possibile».

    «Di che parli? Sei sicuro?»

    «Ricordi quella riunione di facoltà convocata da Herbert, quella contro la sospensione dei diritti costituzionali?»

    «Sì».

    «Hai firmato la petizione?»

    «Sì, certo. Come la maggior parte di noi».

    «Io non sono venuto alla riunione, per cui non ho mai firmato. Tutti quelli che l’hanno fatto saranno…».

    «Saranno cosa?»

    «Saranno tutti chiamati a raccolta oggi».

    «Tuo cognato ha fatto qualche nome?»

    «No. Ma quando gliene ho menzionati alcuni, mi ha lanciato un’occhiataccia. Non perdere tempo, amico mio. È una cosa seria. Devi andartene da qui il prima possibile. Meglio che mi sbrighi ad avvertire gli altri colleghi».

    Gerhard rimase impalato per un momento, guardando Rudolf che correva via. Cominciò a sudare freddo. Poi afferrò il ramo più vicino e si piegò, sentendo risalire l’uovo sodo che aveva mangiato a colazione. Dopo essersi ripreso corse in ufficio. Per prima cosa afferrò il telefono per informarsi sui treni per la Svizzera, ma ritirò subito la mano come se si fosse scottato. E se qualcuno l’avesse ascoltato? Estrasse un foglio dal cassetto, scrisse due righe, e lo sigillò in una busta, poi chiamò un impiegato. Consegnò all’uomo il biglietto insieme a una piccola mancia.

    «Mi sono appena reso conto di aver dimenticato a casa una cartellina questa mattina, quella contenente le domande dell’esame. Conosce l’indirizzo, Helmut. Potrebbe andare un attimo in bicicletta a prendermelo prima che Frau Schliemann esca per andare al mercato? Prenda questo biglietto che le spiega dove trovare la cartellina. Faccia presto, per favore. Ho bisogno di quelle domande prima che inizi la mia lezione».

    Mentre l’uomo si allontanava, Gerhard gli urlò: «Se quando torna non mi trova in ufficio, la lasci pure sulla scrivania».

    Gerhard si concentrò sulle carte che aveva di fronte a sé, selezionò gli appunti sulle sue ricerche più recenti, li mise nella valigetta e lasciò l’edificio. Camminando a passo svelto nella direzione opposta a quella presa da Helmut, raggiunse la strada e chiamò un taxi. Appena si fu seduto, con la sua valigetta accanto, diede all’autista l’indirizzo di una banca. Avrebbe attirato l’attenzione ritirando tutto ciò che c’era sul conto? Forse era più prudente ritirare solo quello che serviva per il viaggio. E comunque non è che avesse poi tanto denaro.

    All’impiegato della banca disse che sua suocera si era ammalata, che aveva deciso di mandare sua moglie a farle visita e che, a seconda dei costi per l’ospedale, sarebbe eventualmente tornato nel giro di qualche giorno a prelevare altro denaro. Notò che l’uomo allo sportello sembrava un po’ sorpreso da tutte quelle chiacchiere non richieste, per cui ammutolì.

    Quando Gerhard uscì dalla banca, si era appena fermato un tram. Lo prese al volo, durante il tragitto di ritorno al campus, mille domande gli affollarono la testa. E se si trattava di uno scherzo ideato da qualcuno che voleva soffiargli l’incarico alla facoltà di patologia? No, era ridicolo. E se Rudolf si sbagliava ed erano solo voci prive di fondamento? Nel caso in cui Gerhard fosse fuggito in preda al panico per poi rifarsi vivo qualche giorno dopo, sarebbe diventato lo zimbello di tutti. Come poteva esserne certo? Ad ogni modo, meglio essere uno zimbello che mettere a rischio la propria famiglia. La strategia più prudente era partire subito, tuttalpiù poteva sempre ritornare nel caso non ci fossero stati arresti. Per Elsa sarebbe stata un’occasione per far visita ai genitori che a loro volta sarebbero stati felici di vedere i nipoti. Ma sì, non c’era niente di male nel dire che sua suocera si era ammalata all’improvviso.

    Quando rientrò in ufficio la busta contenente il passaporto era sulla scrivania. Lo infilò nella tasca interna della giacca. Raccolse altro materiale relativo alle sue ricerche e, valigetta alla mano, andò a recuperare il cappotto dall’attaccapanni dietro la porta. Ma il suo cappotto non c’era. L’aveva preso qualcuno? Cominciò a sudare e si asciugò la fronte con la mano. Si mise a cercarlo disperatamente e, a un certo punto, si ritrovò faccia a faccia con il proprio riflesso nel vetro della porta. Il cappotto ce l’aveva addosso. Gerhard lasciò l’ufficio, accertandosi di essersi chiuso la porta alle spalle, fece le scale due o tre gradini alla volta, e si precipitò al cancello principale. Con gli occhi fissi a terra e senza guardare le guardie nel loro bugigattolo, corse in strada e prese il taxi che stava svoltando l’angolo.

    «Alla stazione», disse al conducente, prima di sprofondare nel sedile posteriore. Il cuore gli batteva ancora forte, chiuse gli occhi e cercò di ricordare le preghiere che la madre gli faceva dire ogni sera prima di andare a letto.

    «L’angelo che libera da tutti i mali benedica i bambini…». Non riusciva a ricordare il resto. Dio avrebbe protetto anche chi pregava solo nel momento del bisogno?

    Un vigile fece fermare il taxi per consentire il passaggio di un’unità di sa. Gerhard ebbe la sensazione che il conducente stesse borbottando un’imprecazione. Avrebbe tanto voluto unirsi a lui, ma si trattenne.

    La stazione ferroviaria pullulava di poliziotti. Gerhard indugiò qualche istante, contando lentamente le monete per pagare la corsa. Ma prima o poi sarebbe dovuto entrare dall’ingresso. Guardando dritto avanti a sé, passò disinvolto accanto ai poliziotti, fermandosi addirittura per infilare la mano in tasca, tirare fuori la scatola delle sigarette e poggiarsene una tra le labbra. Pensò anche di chiedere da accendere, ma decise di non sfidare la sorte. Appena raggiunto indenne l’ampio spazio interno, accese un fiammifero. Gli tremavano le mani e scosse la testa incredulo. Eccolo lì, morto di paura, pochi secondi dopo essersi immaginato a chiedere spavaldamente da accendere a un poliziotto. L’episodio gli ricordò che, da ragazzo, quasi se la faceva addosso dal terrore quando si trovava sui rami alti degli alberi nel giardino di suo nonno, eppure non smetteva lo stesso di salire fino in cima.

    Dopo qualche rassicurante boccata di fumo, si mise a osservare l’atrio neoclassico intorno a sé come se lo vedesse per la prima volta. Quanti particolari sfuggivano nel trambusto della vita quotidiana. In tutte le sue precedenti visite alla stazione era stato troppo indaffarato a non perdere il treno o del tutto assorbito dai figli e dai bagagli di famiglia.

    Quel giorno, con la sigaretta che gli pendeva dalle labbra, guardò in alto, verso il soffitto di ferro e vetro, e in basso, il pavimento scintillante. C’erano lunghe file davanti alle biglietterie. Quando giunse il suo turno chiese con calma un posto sul primo treno per Zurigo.

    «C’è un diretto fra un’ora», disse l’impiegato, «e poi un altro stasera, ma con un cambio».

    «Il primo treno, come ho detto. Quello che parte tra un’ora».

    «Prima classe, signore?».

    Gerhard esitò, quello non era il momento di sprecare soldi in lussi.

    «Seconda classe», disse. «Sola andata».

    Mentre si infilava il biglietto in tasca, camminò velocemente verso il suo binario. Il treno non era ancora arrivato e c’erano solo poche persone in attesa. Era forse Elsa quella donna con un bambino in braccio? No, Elsa non possedeva un cappotto verde. Un ragazzino stava correndo verso di lui, con una massa di capelli setosi color grano, ma non era Peter. Camminò lungo il binario e poi entrò nella sala d’aspetto. L’unica persona al suo interno era una donna curva sul suo lavoro a maglia. Percorse il marciapiede del binario decine di volte avanti e indietro. Ogni tanto andava a controllare l’ingresso principale e le biglietterie. Il binario cominciò a riempirsi di gente, ma ancora nessun segno di sua moglie e i figli. I minuti passavano rapidi e gli sembrava di sentire ogni singolo rintocco dell’enorme orologio appeso al centro del soffitto a volta.

    Calmati, si ripeteva. Presto sarai sul treno. Calmati. Andrà tutto bene.

    Ma perché Elsa ci metteva così tanto? E se avesse perso il treno? Sarebbe dovuta essere già lì. Poi udì il noto e inquietante passo di scarponi pesanti. Si diresse istintivamente al riparo nella sala d’aspetto. La donna anziana non c’era più, al suo posto un chiassoso gruppo di studenti. Dopo un po’ Gerhard sbirciò fuori. Un gruppo di turisti bavaresi, con i loro scarponi chiodati, lederhosen e cappelli con la piuma, aveva invaso il binario. Si era spaventato per nulla. Uscì per tornare a controllare il tabellone dei treni, anche se conosceva benissimo le due partenze per Zurigo previste quel giorno. Tornò al binario.

    Perché il suo treno non era ancora arrivato?

    Proprio in quel momento un vento freddo e spettrale gli colpì il viso. Strinse il suo biglietto e, mentre controllava ancora una volta il numero della carrozza, il treno fece la curva, emise uno sbuffo di fumo e sussultò cigolando fino a fermarsi. Il marciapiede iniziò ad animarsi. Gerhard attese con ansia che tutti i passeggeri scendessero. Era appena salito sulla carrozza, quando qualcuno lo chiamò da sotto.

    «Mi scusi, signore. Ehi, dico a lei!».

    Aveva mezzo secondo per decidere. Era il caso di far finta di niente, continuare a percorrere la carrozza e andarsi a nascondere nel bagno?

    Si voltò e guardò.

    Un anziano stava reggendo un bambino di tre o quattro anni. Gerhard lo prese, lo mise sul treno e poi offrì la mano all’uomo.

    «Questi gradini sono troppo alti», disse l’anziano con un sorriso timido mentre Gerhard lo aiutava a salire.

    I due si diressero lungo il corridoio in cerca dei loro posti e Gerhard si sentì sollevato quando il bambino vivace si lanciò in uno scompartimento diverso. Nel suo erano già seduti un giovanotto e una donna di mezza età. Gerhard poggiò la valigetta e il cappotto sulla reticella e cominciò a vagare per il treno in cerca di sua moglie e dei bambini.

    Non c’era traccia di loro in seconda classe.

    Scese dal treno e corse verso il vagone di prima classe. Il capotreno lo bloccò chiedendogli il biglietto. Gerhard farfugliò una spiegazione che non venne accettata. Arresosi, camminò lungo il marciapiede scandagliando i finestrini su entrambi i lati. Non erano nemmeno in prima classe.

    Rassegnato, tornò al suo posto, schiacciò il viso contro il vetro e si mise a fare calcoli immaginari con la mente. A differenza sua, Elsa non sarebbe stata in grado di venire direttamente alla stazione. Solo dopo aver svegliato la loro bambina, averle cambiato il pannolino, averla vestita e fatta mangiare, Elsa sarebbe potuta andare a scuola a prendere Peter. A quel punto sarebbe stata trattenuta da decine di domande da parte degli insegnanti e della segreteria. Ciò che più lo spaventava era il pensiero di sua moglie mentre riempiva la borsa. Sarebbe stata combattuta su cosa prendere. Quando si erano trasferiti a Francoforte aveva insistito nel voler portare con sé una voluminosa cappelliera piena di vecchie lettere. E se si fosse decisa a prenderla con sé anche stavolta? Gemette per la frustrazione, attirando lo sguardo allibito della signora accanto a lui. Conosceva sua moglie. Sarebbe arrivata in ritardo, trascinandosi quella cappelliera e Dio solo sa quale altra sciocchezza sentimentale.

    Risuonò il fischio di partenza. Gerhard si alzò e aprì il finestrino per affacciarsi a dare un’ultima occhiata al marciapiede.

    «Per favore, chiuda il finestrino», disse qualcuno. «C’è vento».

    Gerhard obbedì e si mise a sedere. Non riconobbe nessuno tra i ritardatari che si affrettavano sotto il finestrino. Sua moglie e i bambini non erano su quel treno. Ne era sicuro.

    E se la polizia, non avendo trovato lui, avesse portato Elsa al quartier generale?

    E se l’avessero fermata al confine?

    E se non avesse mai più rivisto sua moglie e i bambini?

    Il suo piano gli era sembrato buono quella mattina, ma adesso si chiedeva perché mai non fosse andato con loro. Immaginò il peggio: l’interrogatorio di Elsa.

    Cosa avrebbe fatto se le avessero detto: «Confessa! Sei una dei sobillatori coinvolti nell’incendio, vero?». Lei non avrebbe avuto idea di cosa stessero parlando. Al suo occhio sinistro sarebbe tornato il tic, le mani avrebbero preso a tremare. «Sobillatori?», avrebbe detto. «Incendio?».

    Quell’infausto incendio era stato un momento cruciale. Gerhard aveva sentito così tanti racconti e visto così tante foto che gli sembrava quasi di essere stato presente.

    Era accaduto meno di un mese prima. Verso le nove di sera un passante aveva sentito dei vetri infrangersi. Poco dopo, le fiamme erano montate all’interno del Reichstag. L’edificio del parlamento tedesco era stato ridotto a un cumulo di macerie.

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