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Iron Prof.
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E-book147 pagine1 ora

Iron Prof.

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Info su questo ebook

Immaginate un trentenne con ambizioni letterarie, un po’ bamboccione che vive ancora dai genitori. La madre, a sua insaputa, lo iscrive al Concorsone della scuola.
Scoperto l’inganno, per farla contenta il giovane si presenta comunque alla prova, giurando che non farà mai l’insegnante. Ma in totale assenza di alternative, la ferrea decisione vacilla e il protagonista si ritrova catapultato dietro la cattedra di una prima media: venticinque undicenni da istruire, i loro genitori tuttologi da assecondare, colleghi depressi con cui interagire. E poi valutare prove Invalsi, seguire improbabili corsi sulla sicurezza, partecipare a riunioni per gestire alunni problematici… Potrebbe diventare un serial-killer di teen-ager e invece l’incontro con un certo Aldo Rock lo trasforma in un Iron Prof., mutazione genetica necessaria per sopravvivere in un mondo scolastico alla deriva.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835825838
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    Anteprima del libro

    Iron Prof. - Giovanni Ciot

    giugno

    1.

    Primo giorno di scuola

    Se non avessi intrapreso la strada del triathlon sarei diventato, senza ombra di dubbio, un serial killer piuttosto fantasioso. Avrei preso di mira i preadolescenti delle Generazione Z, quegli insopportabili undicenni nati dopo lo scoccare del secondo millennio.

    Sono un insegnante, quotidianamente impegnato a tenere a bada dalle venticinque alle ventotto pesti scatenate. Oltre a questo i miei compiti sono: istruirle, trasmettere l’amore e la passione per la scrittura, per la Storia e la Geografia, portarle in gita, affrontare i loro amorevolissimi genitori, che ne sanno sempre più di te in ogni campo, qualunque attività svolgano, dal macellaio al giardiniere, dal dentista all’avvocato. Caricati a molla come i figli, si sono autopromossi a nuova categoria sociale: tuttologi cattedratici esperti in pedagogia, ortografia, alimentazione, innovativi metodi educativi e originali sistemi di valutazione, nonché infallibili controllori del tuo operato. Nato sotto uno Zodiaco perverso, nella costellazione della Sfiga, l’insegnante di scuola media svolge un’attività che ormai può essere esercitata solo da maghi di una certa levatura.

    Doti particolari richieste: possesso di poteri sovrannaturali che nessun corso di aggiornamento può conferirti. È l’unico mestiere che può legalmente sconfinare nell’esorcismo, nell’illusionismo, nella stregoneria, senza rischiare condanne per circonvenzione di incapaci.

    Aggiungeteci il fatto che il sottoscritto è nato alla fine degli anni Settanta in una piccola provincia nel Nord-Est d’Italia, all’epoca uno dei paesi più ricchi del pianeta, dove ha vissuto la spensierata illusione degli anni Ottanta e Novanta con la certezza che sarebbe diventato sicuramente un regista di successo o al limite uno scrittore oppure, vedendola proprio nerissima, uno sceneggiatore cinematografico.

    Ma le cose vanno spesso un po’ diversamente da come le immaginiamo: mia madre, a mia insaputa, mi aveva iscritto al concorso della scuola.

    Il sottoscritto, in effetti, non aveva tantissimo da fare: nessun regista che mi chiamasse a casa, precisamente nella sperduta Pordenone, per fargli da aiuto, nessun editore che mi proponesse un contratto e nemmeno gli autori di Centovetrine sembravano interessati alla mia voglia straripante di scrivere. E quindi, quando scoprii l’inganno materno, essendo un po’ in ansia per il futuro, l’ultimo briciolo di coscienza mi spinse a presentarmi nell’enorme aula bunker dove sarebbe stata selezionata la futura classe docente, quella che avrebbe dovuto formare «culturalmente e civilmente» le generazioni a venire.

    In quel tetro sotterraneo, in quella psiche un po’ arrugginita avvennero miracolosamente scontri neuronali che riportarono a galla con sorprendente nitidezza ricordi liceali e reminiscenze universitarie.

    Riuscire a mettere il punto finale sul tema, fu la mia più grande sorpresa.

    Di tanti sforzi scolastici, qualcosa, in fondo, era rimasto.

    E anche l’orale andò liscio, forse per il semplice fatto che non provavo la minima tensione, a differenza di tanti candidati pallidi e catatonici che, avendo preso la cosa sul serio, ne hanno pagato tragicamente le conseguenze, ritrovandosi rinchiusi in quei bunker postatomici ogni volta che lo Stato italiano metteva a bilancio un risolutivo concorsone.

    «Bravissimo Giovanni! Sei arrivato diciannovesimo! Ti chiameranno a breve», affermò con orgoglio mia madre che si era recata di persona a controllare i risultati.

    Dolce madre italiana iperattiva e un po’ ansiogena per il futuro del suo cucciolo, ma che non aveva alcuna intenzione di stroncare la vena artistica del figlio: «Nel tempo libero potrai coltivare ugualmente le tue passioni», mi aveva assicurato con tono amorevole. Insegnante anche lei, avviata verso la pensione, mi avrebbe volentieri trasmesso il suo bagaglio di esperienza.

    Come ogni criminale che si rispetti, io non mi sono mai degnato di tornare sul luogo del delitto e le ho solo risposto: «Ma’, mo’ ti ho fatto contenta… il concorso l’ho passato, anche bene… ma appena mi chiamano, sappi che rifiuterò la cattedra e tornerò a fare il regista o al limite lo sceneggiatore… anche di qualche soap, ma io in una scuola non metterò mai piede».

    E fu così che pochi mesi dopo mi trovai in una scrostata aula semibuia di Polceligo Bassa con i neon fulminati che nessuno si è mai azzardato a cambiare e con le tapparelle bloccate a metà da decenni, mentre in sottofondo figure confuse, elettriche, alcune probabilmente marziane facevano volare astucci e diari, ridacchiando ed emettendo versi satanici. Lillipuziani in grado di mettere al tappeto un povero Gulliver spaesato e senza difese.

    Senza farla troppo lunga: loro sembravano decisamente contenti di stare al mondo.

    Che ci faccio io qui?, si chiese Bruce Chatwin¹, pur trovandosi in luoghi più interessanti di un’aula di scuola media di un minuto paesino a ridosso delle ridenti Prealpi friulane.

    E io me lo sarei ripetuto tutte le mattine per parecchi anni.

    In quell’alba strepitante e tragica cominciò quindi a scendermi copioso del sudore freddo dalle tempie imperlate. Ma perché lo Stato italiano non prevede un periodo di prova? In questo modo uno il proprio destino lo può scegliere con più chiarezza e si eviterebbero tanti equivoci e scollamenti in un paese già di per sé complicato.

    Improvvisamente, senza che io avessi mosso un dito, il silenzio assoluto calò nell’aula. Dall’ultimo banco, probabilmente un Kevin o un Ryan dalla pettinatura moicana mi chiese maligno: «Ma è vero che lei non ha mai insegnato?».

    E giù risate a profusione, mentre la sedia sulla quale ero seduto era diventata un sofà che mi inghiottiva con lento piacere.

    Questi qui sono più perfidi e informati del Mossad e quello lì dev’essere il bulletto che tiene in scacco tutta la classe.

    Beato lui, penso con invidia.

    Quanto darei per un po’ di rispetto. «Sono ben dieci anni che insegno! Cerca di essere più educato, tu!», ribattei con la credibilità di un attore di Beautiful.

    Di quei primi giorni conservo un ricordo sfumato, confuso da urla, da dolore di mani sbattute sulla cattedra alla ricerca di un’improbabile autorità, non capendo che più io alzavo la voce, più loro reagivano ancora più rumorosamente, che più io li caricavo di compiti, meno loro ne facevano.

    Naufragavo in un mare di disperazione molto chiassosa.

    Poi, con il tempo, ho capito che bisogna agire per sottrazione, come direbbero certi psicologi fighetti che non ci sono mai quando ne hai bisogno.

    E nel momento in cui finalmente scopri il potente, arcano segreto del Silenzio, di certi sguardi diretti che possono fare più male di uno spillo, quando trovi il divino equilibrio tra premi e punizioni, allora puoi guardare lo Zen negli occhi e finalmente sorridere.

    Ma il triathlon che c’entra? Ti starai chiedendo. E cosa sarà mai questa disciplina da invasati che ti ha salvato dalla galera?

    Quel perverso zodiaco mi aveva concesso un’ancora di salvezza: un’ora di buco il venerdì dalle undici a mezzogiorno. E per decomprimere un sistema nervoso messo a dura prova durante l’infinita settimana, cominciai a passeggiare, dirigendomi verso Polceligo Alta, con le cuffiette della radio sintonizzata su Radio Deejay. Uno dei colpi di genio di Pasquale Di Molfetta, al secolo Linus, è stato quello di invitare nell’ultima mezz’ora di Deejay chiama Italia del venerdì, il primo o uno dei primi Iron Man italiani a parlare di sport soprattutto estremi, Aldo Calandro, al secolo Aldo Rock.

    Un personaggio altamente cinematografico e altamente radiofonico, dalla voce inconfondibilmente motivazionale e carico di una saggezza strampalata e geniale.

    Orbene, nel tempo io sono diventato un addict di questo spacciatore ciceroniano, che concludeva ogni suo intervento radiofonico con ordini perentori e solenni: «Uomo: nuota, pedala e corri! Lo sai che cos’è il Coraggio, uomo? Il Coraggio è la Paura che ha cominciato a credere in se stessa!».

    Una sorta di Pizia atletica del ventunesimo secolo.

    Nel tempo è diventato il sacerdote di una liturgia sportiva per quanti un tempo affondavano nel grasso e nell’ozio divanesco. È riuscito a creare frotte di seguaci, pazzi furiosi che si ammazzano di vasche in piscina, di chilometri percorsi in bici e a piedi.

    È diventato pure un personaggio di Geronimo Stilton: Topaldo Rock! Consacrazione estrema riservata a pochi eletti.

    Se penso che mio padre impiegava il tempo libero per andare a vendere «l’Unità» casa per casa, per come è andata a finire, non so se sto messo peggio io o se era messo peggio lui. Lui veniva ricompensato con dei viaggi premio a Mosca, io con delle patacche di vile metallo chiamate anche medagliette di partecipazione.

    Se l’Ideologia lo aveva convinto a tentare di salvare il mondo con marxiana disciplina, noi figli abbiamo capito che è meglio non mettersi in testa di salvare il mondo e invece che fare danni agli altri, scegliamo di farne a noi stessi e alle nostre articolazioni.

    Come direbbe quell’allegrone di Cioran: Ogni generazione ha bisogno del proprio delirio per sopravvivere, per colmare un vuoto esistenziale.

    Finita l’ora di buco, a mezzogiorno ho dovuto nuovamente varcare la soglia dell’inferno. Ho afferrato i libri in sala professori e mi sono diretto nella mia classe, tentando di ricominciare la mia lezione.

    Mi sono seduto e ho aperto il libro di Geografia e da qualche classe più in là è partito un boato primordiale, che si è diffuso per tutta la scuola: «Naaasssimm! Ti prendo a calci in culo fino in Africaaa!».

    Eccoli qui i magnifici risultati dell’ultimo corso di aggiornamento sull’integrazione e sulle politiche di accoglienza. Il collega di Tecnologia è preda di un’evidente deriva leghista.

    Loris Sperandio è stato convocato già una volta in presidenza. E

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