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Jack è cattivo
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E-book250 pagine3 ore

Jack è cattivo

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Info su questo ebook

Questi cinquanta racconti non sono cinquanta racconti. Sono altrettante finestre aperte sulle straordinarie, infinite, patafisiche possibilità della mente umana di muoversi in direzioni non sempre immaginabili per altre menti. Jack è cattivo ci regala narrazioni brevi, distillate e potenti, ma soprattutto ci impedisce di restare nella nostra tiepida convinzione che… se è psichiatria non ci riguarda. Ci riguarda eccome, nella comune, eterna lotta degli umani per esserci, per essere qualcosa.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2019
ISBN9788831650250
Jack è cattivo

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    Anteprima del libro

    Jack è cattivo - Gianluca Ottone

    grazie

    Prefazione

    Questi cinquanta racconti non sono cinquanta racconti. Sono altrettante finestre aperte sulle straordinarie, infinite, patafisiche possibilità della mente umana di muoversi in direzioni non sempre immaginabili per altre menti. Direzioni talvolta intrise di bruciante commozione e sofferenza, talvolta comodamente etichettabili come follia, il che ci rassicura, sì, ma fino a un certo punto. Se scorriamo tutti questi frammenti abbiamo una più ricca opportunità, quella di capire che la mente umana è in definitiva sempre la stessa, e che qualunque possibile anomalia ha sempre non soltanto una spiegazione, una logica, ma anche una emozione e un vissuto. Allora possiamo comprendere, per fare un esempio, che cosa sia un pensiero fisso: per qualcuno non occupa che lo spazio di un calzino spaiato rimasto appiccicato al cestello della lavatrice dopo la centrifuga, ma per qualcun altro può significare essere risucchiato interamente dentro il cestello a mille giri, e non riuscire a fermarlo se non con tempo, fatica, talvolta anche farmaci, o perché no, altre sostanze. Può essere facile giudicare, ma dopo un giretto dentro il cestello la prospettiva potrebbe cambiare.

    La struttura logica del pensiero umano si riproduce, serena, in mille occasioni: una brava casalinga vede una bella giornata di sole ed espone all’aria frizzante e alla luce biancherie e tappezzerie. Logico, no? Al personaggio di un racconto, invece, capita di pensare che sono i propri organi interni, poveretti, a non aver mai visto la luce, e questo può generare una emozione così forte da evocare la tentazione di comportamenti che chiunque altro vedrebbe come molto strani. Eppure hanno una logica, e questa logica è terribilmente trasparente. A saper vedere, qui la logica è assai più trasparente di quella che l’uomo comune ama spiaccicarsi sugli occhi, non accorgendosi che la trasparenza non è maggiore di quella di una fetta di prosciutto. Per vedere attraverso questi racconti bisogna saper fermare il tempo e amplificare i dettagli come accade, con tocco magistrale, in gemme come La mela o Viaggiatori, e naturalmente in Un po’ di luce dentro, che ci racconta proprio del buio degli organi interni.

    Ottone ci parla di condizioni in cui si vedono le più piccole emozioni illuminate a giorno come i gatti vedono al buio, e che possono diventare abbaglianti se esposte al sole. E allora possono fare male, molto male. Ciò nonostante la narrazione non indulge sul male ma procede oltre: non è saggio o testimonianza, ma letteratura, e della migliore, e questo è un piccolo miracolo di cui, detto tra parentesi, la scuola non ha merito, ce l’hanno invece letture personali avide e bulimiche, ma fertili. Certo, non è un mistero che l’autore ci porti a visitare personaggi con vicende note alla psichiatria, con le loro fatiche, le fatiche dei familiari (Gli occhi ciccioni) e certi momenti tristi, o bizzarri. Talvolta esaltanti, talaltra schiaccianti. Come in Coincidenze, dove i ruoli si confondono, e Jack, il cattivo, ne fa qualcuna delle sue.

    Sarebbe comunque assai riduttivo pensare questa raccolta come una serie di vignette su casi psichiatrici: quanta vita vera, quante esperienze (il taxi, la setta buddista, poi quella cristiana, lavori lasciati e trovati… partenze e ritorni…) e quante passioni: Anna, da sola, già lucida l’occhio del lettore: "Cosa guardi attraverso la finestra. Non saprò mai cosa pensi. Ho saputo guardare e immaginare, ma mai penetrarti se non col sesso che ci ha uniti forse poco. Il mio seme è morto alla luce delle lampade. Da Vita è divenuto sporco, ha insozzato lenzuola e la tua pelle. Ma siamo puliti, credimi. [...] C’è un piazzale, una strada, muretti, gente e schiamazzi. Invento accanto al tuo lume, cara Anna, seduta a più non posso sulla noia e la lontananza, spogliati. Spogliati ancora perché forse torna, abbracciami perché se torna sarò costretto a vedere. Aspiro tabacco, il tuo odore mi pregna e mi appaga, credimi, soddisfa."

    In conclusione, la lettura di Jack è cattivo ci regala narrazioni brevi, distillate e potenti, ma soprattutto ci impedisce di restare nella nostra tiepida convinzione che… se è psichiatria non ci riguarda. Ci riguarda eccome, nella comune, eterna lotta degli umani per esserci, per essere qualcosa, come Raymond Carver riassunse in poche fulminanti parole:

    And did you get what

    you wanted from this life, even so?

    I did.

    And what did you want?

    To call myself beloved, to feel myself beloved on the earth.

    (E hai ottenuto quello che

    volevi da questa vita, nonostante tutto?

    Sì.

    E cos’è che volevi?

    Potermi dire amato,

    sentirmi amato sulla terra.)

    Franco Nanni

    Note dell’autore

    Sentivo una brezza che giungeva lentamente nel pomeriggio e si gonfiava piano, fino a diventare un vento che soffiando forte, la sera, mi sosteneva come un aquilone e mi impediva di cadere nei mulinelli che le brutture del mondo formavano. Anziché annegare, per magia mi sembrava di volare. Quando mi sedevo alla scrivania quella forza diventava musica e allora trascrivevo le note della melodia che sentivo con le dita inesperte che battevano lente sulle lettere della tastiera. A volte percepivo chiaramente un ritmo formato da parole, sillaba per sillaba, che si ripeteva. Altre volte, soprattutto dopo aver combinato sonniferi e alcol, sentivo una vera e propria voce impersonale, femminile, non calda, ma morbida e decisa, scrivevo ciò che mi dettava. A quel tempo non ero stabilizzato, non prendevo il Litio e gli altri farmaci che prendo oggi.

    Ho iniziato a leggere con Poe e Lovecraft, a scrivere con John Fante, Kerouac, Henry Miller, Burroughs, Bukowski, poi C. S. Lewis (la trilogia dello spazio mi ha segnato a vita: Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra, Quell'orribile forza; soprattutto Perelandra: ho sognato quel giovane mondo fluttuante e la sua Eva per anni), Philip Dick, poi Camilleri, Lucarelli, Saviano…

    Più volte mi è capitato di bruciare la mia intera produzione. In genere accadeva quando ero sotto l’effetto delle benzodiazepine. Allora i miei demoni si scatenavano e ne facevano di tutti i colori, il giorno dopo non ricordavo nulla¹. Mi succedeva anche di scoprire interi racconti e poesie sul mio computer e non ricordare di averli scritti. Poi cercavo a lungo senza trovare per realizzare che la notte prima avevo di nuovo distrutto, offuscato dai sonniferi, accecato dalla rabbia di non meritare la gioia della scrittura (un diavolo aggrappato al mio orecchio mi urlava di continuo che non avendo studiato, io non avevo il diritto di scrivere). Bruciai l’ultimo diploma di scuola una notte nel tentativo di eliminare l’evidenza della mia ignoranza. Fui poi costretto ad affrontare una scomoda trafila burocratica per ottenerne una copia…

    Nell’aprile del 2019, di comune accordo con la mia psichiatra, abbiamo sostituito il Carbolithium con il Resilient (una diversa formulazione di Litio, a rilascio prolungato). Questo ha innescato una nuova fase che si è manifestata con potenza.

    Le idee sono diventate figure reali che con sorpresa potevo osservare ad occhi chiusi, come sculture a tutto tondo, semplicemente girandoci attorno. Quando andavo a dormire, una presenza buona e frenetica mi dettava interi paragrafi nella testa, ogni parola era una macchiolina di colore che andava a comporre un preciso paesaggio impressionista. Mi svegliavo insieme a questa carica euforica che mi fischiettava dentro e cantava:

    «Buongiorno Gianluca! Ci alziamo? Viviamo? Scriviamo? Urrà!».

    Dopo un timido e forse maldestro tentativo di condividere ciò che mi stava succedendo sui social networks, ho capito che ciò che scrivevo non era adatto a quei luoghi.

    Una mattina mi sono svegliato con una pesante palla densa di significati nella mente, una sola parola dentro agli occhi: blog. Perché blog? Non sapevo di preciso cosa fosse un blog, ma quella palla insisteva e suggeriva immagini che presto mi convinsero.

    Ho creato il blog Jack è cattivo. Con il solo uso dello smartphone, in dieci giorni ho rieditato, scritto, riscritto e pubblicato più di cinquanta racconti. Poi, esausto, mi sono ricordato di avere un computer dotato di un grande schermo confortevole e ho visitato Jack per la prima volta senza le limitazioni del telefono.

    Eccolo lì, mi piaceva. Qualcosa di significativo aveva preso vita.

    Jack aveva senso, diritto di esistere, conteneva circa ventisette anni di scrittura, di storia personale, Jack era Gianluca, la malattia, il mio amico immaginario, il mio nemico inseparabile, la mia ricerca, il significato di ciò che devo ancora capire.

    Jack è cattivo era un libro.

    Negli ultimi anni sulla carta sono nati e cresciuti due alter ego. Giungono entrambi dalle mie dimensioni parallele, mondi dove la distinzione tra il reale e l’irreale non è netta, ma vivono ancorati saldamente alla mia anima.

    Pietro Zincato è un serio professionista dell’edilizia, trova soddisfazione nell’eseguire con estrema precisione il proprio lavoro. È affetto da disturbo Bipolare, ha impulsi autolesivi, fa uso di sostanze e vive con la sua gatta Bipo con la quale ha l’abitudine di confrontarsi.

    Giona Gesì ha la sindrome di Tourette e risolve le situazioni rifiutando le persone. Cresciuto nella solitudine e nel rigetto si è inventato di dare un nome ai propri tic e alla propria malattia: Jack. Jack è il suo antagonista, il demone burlone e maledetto che si diverte a mettergli il bastone tra le ruote. Jack è cattivo.

    Buona lettura,

    Gianluca.

    racconti

    Una pietra che rotola

    Riesco ad ascoltre musica e non me ne capacito, sono nello studio, dove tengo il computer.

    Bob Marley è resuscitato nella stanza e ad un certo punto mi chiede «how does it feel? How does it feel? To be on your own, like a rolling stone?».

    Ne ha parlato anche Jimi Hendrix proprio ieri, l’avevo ascoltato, pregato di ripetere con la chitarra quell’ultima nota perché mi era schizzata via di striscio vicino alla pelle ma senza contatto, non l’avevo proprio capita.

    «How does it feel?»².

    La sua esecuzione ogni volta mi riempie e mi sorvola risucchiandomi e portandomi con sé e mi satura e fa riversare sulle mie guance quarantenni tutta la vita che ho spinto e tenuto sott’acqua dal 1997 in poi.

    Musica. Lo so che sembra incredibile, ma io per dieci anni non ho attinto alla linfa e sono rinsecchito come muschio bruciato dal sole su di un davanzale di travertino scadente.

    Viraggi, una crisi dopo l’altra, e poi farmaci, sempre farmaci, una quantità di farmaci. Il mio sangue è così pieno di sostanze chimiche che le zanzare non mi pungono più. Quelle che ci provano muoiono sul colpo mentre succhiano, seccano all’istante in un’espressione di amara sorpresa.

    Musica. Come una pietra che rotola mi travolge e mi libera. Penso a quell’altra pietra, quella pesante usata per chiudere un sepolcro e che per spostare era necessario spingere e fare girare.

    «Like a rolling stone».

    La pietra tombale di Lazzaro, per intenderci.

    Mi fa sentire come se fossi stato rapito dagli alieni. E niente è più alienante che essere rapito da un alieno umano.

    Tutto perduto, l’uomo di Dio si è ucciso di gloria e ora tutto è perduto, come in un campo di battaglia. Rimasugli putrescenti sul terreno ormai silenzioso con i miasmi della decomposizione che avvelenano l’aria. Io grigio e piccolo, gravemente ferito in lontananza, subisco l’ultima brezza gelida del giorno sul calar della sera. Mi accovaccio, mi abbraccio le ginocchia e cedo al vento.

    «Chiedi sempre scusa se qualcuno si fa male».

    Il ruscello che mi sgorga tra le mani senza controllo da torbido diventa man mano sempre più trasparente. Per troppi anni mi sono cucito la bocca, ingoiando questo rivolo che se pur flebile continuava a tornare come un rigurgito. Dove sono i miei ultimi quindici anni di vita?

    Qualcuno si è fatto male. Qualcuno non ha chiesto scusa.

    Ah, you never turned around to see the frowns

    On the jugglers and the clowns when they all did tricks for you

    You never understood that it ain't no good

    You shouldn't let other people get your kicks for you

    How does it feel

    How does it feel

    To be on your own

    With no direction home

    Like a complete unknown

    Like a rolling stone?

    In tanti stanno rotolando come sassi di frana. Raccolti su se stessi girano. Cozzano l’uno contro l’altro e si spezzano, ne sento il rumore che non dà tregua, rimbalzano e si spaccano, si aprono, i pezzi cadono e si frantumano. Io non ho più il coraggio di una volta.

    Non voglio più guardare giù.

    Il tempo è un mostro cosmico intangibile che divora le età.

    Trampoli

    «Sono fuori!».

    Mi urla una donna nell’orecchio, mi supera e la vedo correre con il terrore sulla faccia.

    «Sono fuori!».

    Ripete senza guardarmi, corre con i tacchi spezzati, il rimmel che le cola sulle guance e gli occhi pieni di terrore, inciampa ma non cade, sparisce dietro l’angolo di una casa sventrata da una bomba. Polvere nell’aria. Un urlo agghiacciante e un boato esplodono alle mie spalle, una nebbia rossastra mi copre la testa e sento una presenza enorme che si avvicina alle mie spalle. Sono spaventato e inizio a correre senza guardare indietro.

    C’è qualcosa sotto i miei piedi, le mie ginocchia si piegano, casco rovinosamente a terra sbattendo il mento,  sento in bocca i denti scheggiarsi l’uno contro l’altro. Non riesco a muovere le gambe, sono vincolate a qualcosa che mi tiene fermo. Sento delle aste che come prolunghe mi tengono a terra con il loro peso. È buio e vedo poco ma riesco a scorgere qualcosa che sporge dai lati delle mie ginocchia e delle caviglie. Tocco con le dita. Sono bulloni di acciaio, grossi freddi bulloni di acciaio. Provo a muovere le gambe e sento di avere degli spessi perni all’interno delle ossa che le attraversano da parte a parte. Provo ancora ad alzarmi e poi capisco. Trampoli, sono trampoli. Enormi, lunghi e pesanti. Assicurati alle mie gambe in modo permanente. Ancora un boato alle mie spalle e tra le urla di terrore, sento una risata bassa, parole incomprensibili pronunciate in una lingua sconosciuta e con una voce potente, gutturale e maligna. Mi volto e vedo una figura enorme, grande come un palazzo intero, emergere dalla nebbia rossa e camminare verso di me. Man mano che la figura si avvicina sopraggiunge il silenzio. Io provo ad alzarmi, ci provo con tutto me stesso, voglio scappare via ma non ci riesco, i trampoli mi bloccano a terra. Mi volto e ciò che vedo mi terrorizza. Vedo due gambe che sembrano colonne e, guardando verso l’alto, vedo un ventre enorme con una veste bianca, poi vedo un volto coperto da una maschera nera e un cappello uguale a… quello dei Puffi… Pulcinella… sì è proprio lui, un Pulcinella alto venti metri. Dietro di lui scorgo un’altra figura delle stesse dimensioni, è il Dottor Balanzone e più dietro c’è anche Arlecchino…

    «I demoni dell’inferno sono usciti! Scappate!».

    Jack

    Il mio sogno è essere sereno. Tutti questi fossi da saltare. Saltare. Pugni in faccia. Sì, Jack.

    Jack.

    A volte me ne sto seduto sulle gambe, diventano insensibili, schiena dritta, non vedo e non sento.

    Non penso. Sono come legno, le mie fibre si allentano quando la mente acquista spazio e si diluisce nell’ambiente. Come acqua nell’acqua.

    Al mio fianco, debolmente, eccolo c’è il tremore, continua ripetuto, una vibrazione malata che smuove le molecole dell’aria. Fratello nero, parte scissa che risuona protestando la propria esistenza, parte buia che in quei momenti esce, scacciata con la forza buona di quel silenzio, ma che non si allontana, non mi lascia mai definitivamente. Tutti i giorni me lo porto appresso. Sì. Sotto la camicia, sotto la pelle. Mi brucia.

    Quando è rabbioso e agonizza l’aria aperta dell’esterno, quando dispera un po’ di dolore, morde e graffia, ingoia lembi di carne all’interno della parte magica che ormai lo avvolge tutto. Nei giorni in cui gli spasmi del bisogno lo imbestialiscono, è terribilmente difficile controllare la sua forza. La gente per strada guarda, impallidisco e mi piego, trattengo urla di disperazione. E a vita devo continuare a sopravvivere a questa tortura.

    «Ucciditi e lo ucciderai».

    Jack è cattivo.

    Jack lancia le cose e le distrugge.

    Mi dà i pugni e mi afferra i muscoli della faccia tirandoli e schiacciandoli soprattutto quando ci sono le persone a guardare. Mi prende per i capelli e mi tira facendomi piegare il collo. Ho sempre male ai muscoli del collo.

    Jack è un bastardo, manda affanculo la gente e

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