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Decadenza: Le parole d'ordine della Chiesa postconciliare
Decadenza: Le parole d'ordine della Chiesa postconciliare
Decadenza: Le parole d'ordine della Chiesa postconciliare
E-book358 pagine6 ore

Decadenza: Le parole d'ordine della Chiesa postconciliare

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Info su questo ebook

In questo poderoso volume gli autori intendono dimostrare qualcosa di semplice: che negli ultimi decenni nella Chiesa cattolica si sono prese delle direzioni che non aiutano la sua missione spirituale e pastorale. Queste direzioni sono state favorite dall'uso di parole che sono servite come grimaldelli per giustificare certe pratiche e certi atteggiamenti. Qui gli autori ne identificano una decina: dialogo, pastorale, sinodalità, ponti, autoreferenziale, fragilità, misericordia, ecumenismo, discernimento periferie. Naturalmente c'è del buono in queste parole, ma in molti casi (non tutti ovviamente) vengono usate per far passare concetti e idee che non sono congruenti con la tradizione cattolica, a volte addirittura la oppongono.
Marcello Veneziani, nella prefazione, dice: "Come se la Chiesa avesse preso nei secoli un colossale abbaglio e avesse seguito una millenaria distorsione del suo compito, e solo oggi abbia la giusta percezione della sua missione nel mondo. Ed ora volesse correggersi, anzi diventare “evangelicamente corretta” tornare alle origini, povera e nuda, dialogica e caritatevole. Anche se poi il dialogo, la tolleranza, l'apertura si arresta quando ha davanti i cattolici della tradizione. A dimostrazione di quel che diceva Augusto del Noce: i cattolici progressisti si sentono più vicini ai progressisti non cattolici che ai cattolici non progressisti; ossia per loro è fondamentale l'essere progressisti, e accessorio l'essere cattolici e credenti".
Un testo di piacevole lettura, malgrado la mole, in cui gli autori vogliono comunque testimoniare il loro amore alla Chiesa, malgrado la sofferenza che essi provano nel dover scrivere di cose di cui avrebbero preferito non scrivere. Questo è certamente un libro per far riflettere, non ha nessuna intenzione di favorire una mancanza di rispetto per la Chiesa e i suoi Pastori, atteggiamento da cui gli autori si sentono profondamente lontani.
LinguaItaliano
EditoreChorabooks
Data di uscita31 mag 2020
ISBN9789887999416
Decadenza: Le parole d'ordine della Chiesa postconciliare

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    Anteprima del libro

    Decadenza - Aldo Maria Valli, Aurelio Porfiri

    cattolica.

    Dialogo

    Aurelio Porfiri - Ritengo adeguato aprire questo nostro dialogo parlando proprio della parola dialogo. Sembra un gioco di parole, ma in realtà è esattamente così che dobbiamo incominciare, chiarendo che cosa significa dialogare nella giusta maniera, non facendo divenire il dialogo uno scopo piuttosto che un mezzo. Sappiamo che la parola greca logos può significare varie cose, parola, verbo, ma a me interessa quel dia che, se non sbaglio, significa attraverso. Ora, se si attraversa qualcosa è per giungere da qualche parte, ma a me sembra che in tanto dibattito ecclesiale il dialogo non sia divenuto un metodo, una strategia per arrivare dove si vuole, ma piuttosto il fine stesso. Come se fosse importante il dialogo in sé, senza considerare a che cosa si vuole giungere. Una Chiesa che rinuncia alla sua radicalità, e nella quale infatti ci si sente sradicati, usa il dialogo come mezzo di sopravvivenza per pretendere una evangelizzazione che non si compie, in quanto la Chiesa dovrebbe annunciare che Gesù Cristo è il Signore del mondo e della storia e chiamare tutti dentro il suo ovile: ma questo non lo fa più perché si è incartata in se stessa, ed è così che il dialogo è divenuto da mezzo a fine. Il manifesto di questo atteggiamento lo abbiamo, a partire dal 1964, con la Ecclesiam suam di Paolo VI. L’enciclica di papa Montini lancia tale modo di operare su scala molto vasta, e lo stesso Paolo VI ne parlerà poi nel suo fortunato libro scritto da Jean Guitton. Nella Ecclesiam suam il Papa è molto chiaro: " La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio . La Chiesa si fa colloquio? Sembra bello, ma è anche un poco dubbio; la Chiesa deve colloquiare al solo scopo di convertire, non di convertirsi. La Chiesa non ha altro scopo che annunciare quella che si presenta come la Verità. Dobbiamo essere onesti: non si sta parlando di opinioni più o meno rispettabili, ma della Verità sostanziale sulla nostra vita e sul nostro destino eterno. Paolo VI dice poco più avanti: Ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli . Certo, detta così sembra suonare bene. Ma bisogna accostare il mondo e parlargli per convertirlo, questo è lo scopo, non per convertirsi. Non c’è e non ci deve essere altro scopo. Il che è confermato da questo passaggio: Il colloquio è perciò un modo d’esercitare la missione apostolica; è un’arte di spirituale comunicazione. Suoi caratteri sono i seguenti. La chiarezza innanzi tutto; il dialogo suppone ed esige comprensibilità, è un travaso di pensiero, è un invito all’esercizio delle superiori facoltà dell’uomo; basterebbe questo suo titolo per classificarlo fra i fenomeni migliori dell’attività e della cultura umana; e basta questa sua iniziale esigenza per sollecitare la nostra premura apostolica a rivedere ogni forma del nostro linguaggio: se comprensibile, se popolare, se eletto. Altro carattere è poi la mitezza, quella che Cristo ci propose d’imparare da Lui stesso: Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore; il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è paziente; è generoso. La fiducia, tanto nella virtù della parola propria, quanto nell’attitudine ad accoglierla da parte dell’interlocutore: promuove la confidenza e l’amicizia; intreccia gli spiriti in una mutua adesione ad un Bene, che esclude ogni scopo egoistico . Ecco, la sua autorità intrinseca deriva dalla verità che espone. Quindi il dialogo, per la Chiesa, espone una verità, non è soltanto un intrattenimento, fra due o più soggetti, del quale si perde lo scopo. Inoltre Paolo VI avverte: L’arte dell’apostolato è rischiosa. La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai principi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. L’irenismo e il sincretismo sono in fondo forme di scetticismo rispetto alla forza e al contenuto della Parola di Dio, che vogliamo predicare. Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo ". Bello, vero? Ma non è questo il dialogo che vediamo all’opera oggi nella Chiesa? Eppure il germe dell’equivoco lo si trova proprio in Ecclesiam suam . Leggiamo questi passaggi: " Com’è chiaro, i rapporti fra la Chiesa ed il mondo possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente parlando, la Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana; come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatematizzandoli e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via. Sembra a Noi invece che il rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma adattato all’indole dell’interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è infatti il dialogo con un fanciullo ed altro con un adulto; altro con un credente ed altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall’abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell'uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall'educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo. Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d'inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell'interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni. Suppone pertanto il dialogo uno stato d’animo in noi, che intendiamo introdurre e alimentare con quanti ci circondano: lo stato d’animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell'umano discorso ". Certo Paolo VI sapeva scrivere, e sapeva ben tornire le frasi che potevano contenere vari sottointesi. Qui a me sembra che ci sia una messa in primo piano del dialogo come fine piuttosto che come mezzo. E di certo nei decenni recenti siamo andati molto oltre rispetto al cauto Paolo VI, tanto che oggi il dialogo stesso è oramai lo scopo e non più la conversione. Spesso si sente dire che si dialoga con questo e con quello come se si trattasse di un successo in sé, ma non si dice mai che i risultati del dialogo molte volte non sono esaltanti.

    Aldo Maria Valli – Il dogma del dialogo - lo chiamo così perché mi sembra che ormai di dogma si tratti - nasce con il Concilio Vaticano II e con l’ottimismo del quale quel Concilio fu imbevuto. Sembrava a Giovanni XXIII che il mondo avesse molte cose buone da dare alla Chiesa e che il confronto (altra parola in auge all’epoca) fosse necessario alla Chiesa stessa per uscire da un certo isolamento, per rinnovarsi e apparire più dinamica, spigliata e simpatica, meno rigida, meno ingessata e meno austera. Eravamo all’inizio egli anni Sessanta del secolo scorso e in quel tempo l’importante era apparire giovani, freschi, aperti. La valutazione di papa Roncalli, come ben si vide in seguito, fu sbagliata, né poteva essere diversamente. Perché il mondo non ha nulla da insegnare alla Chiesa, ma è la Chiesa che deve insegnare al mondo. E deve insegnare, in ogni tempo, la via verso la Verità, ovvero la via della conversione. Da quella prospettiva erronea proviene anche il modo distorto di concepire il dialogo, che non è e non può essere un bene in sé, perché tutto dipende, come hai giustamente osservato, dal fine che vogliamo perseguire. E in questo senso possiamo osservare che la sbagliata concezione del dialogo è figlia della crisi dell’idea di Verità, una crisi che ha duramente colpito anche la Chiesa nel momento in cui essa ha incominciato a secolarizzarsi. Il dialogo, infatti, nella Chiesa è diventato un fine in sé man mano che l’idea di Verità si è appannata. Ecco così l’illusione di poter trovare tracce di Verità nella conversazione e non nella conversione! Ed ecco così l’affermarsi del dogma del dialogo in campo ecumenico e interreligioso, ma anche sociale e culturale.

    Quando parlo di dogma opero evidentemente una forzatura, ma forse neanche poi tanto. Pensiamo solo a come il mito del dialogo ha caratterizzato anche un pontificato, come quello di Giovanni Paolo II, che per il resto ha cercato di raddrizzare la barra rispetto a certe derive post-conciliari.

    Ora credo che la domanda che ogni cattolico deve porsi sia la seguente: ma Gesù dialogava? La risposta è no. Gesù non dialogava. Gesù insegnava. Ecco il punto. A causa della crisi dell’idea di Verità, crisi che la Chiesa ha acquisito dal mondo e fatto propria man mano che è andata secolarizzandosi, i pastori hanno smesso di insegnare e si sono messi a dialogare. La crisi dell’idea di Verità ha infatti innescato la crisi dell’idea di autorità, con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

    Una Chiesa che intimamente avverte di non essere più la custode della Verità ma soltanto una voce tra le altre, una Chiesa che si vergogna di proclamare che extra Ecclesiam nulla salus, una Chiesa che vuole apparire amichevole e simpatica, una Chiesa che tralascia il discorso sulle cose ultime per dedicarsi ai temi sociali è una Chiesa che fatalmente tradisce il Vangelo di Gesù e diventa relativista. E una Chiesa relativista, che rinuncia alla potestas docendi e si compiace del suo essere amichevole e simpatica, che altro può proclamare se non il dogma del dialogo?

    Ovviamente, caro Aurelio, quando noi diciamo queste cose veniamo prontamente bollati come tradizionalisti (anzi, come ultra-tradizionalisti). Invece siamo semplicemente cattolici. " Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Così ha detto Gesù. Non andate e dialogate, non andate e conversate. Ed ha aggiunto: Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato".

    Certo, qualche gesuita potrà sempre sostenere che all’epoca di Gesù non c’erano i registratori e quindi non possiamo essere sicuri che il Maestro abbia detto proprio così. E qualche teologo modernista potrà sempre dire che nel verbo predicare in realtà è contenuta anche l’idea del dialogo eccetera eccetera. Ma queste sono posizioni ideologiche.

    La Chiesa vive nel mondo, ma non è del mondo. Ecco perché quando il mondo cerca di tirarla dalla propria parte essa non solo può ma deve fare resistenza. Ma una Chiesa secolarizzata non ha queste preoccupazioni. Una Chiesa secolarizzata si preoccupa del proprio aspetto, non dei contenuti. Una Chiesa secolarizzata si esprime mediante il politicamente corretto. E quando poi arriva un papa, come Benedetto XVI, che nella Dominus Iesus spiega che mai e poi mai il dialogo può essere messo al servizio del relativismo, è la Chiesa stessa a remare contro quel Papa, dipinto come irrimediabilmente rigido e incapace di cogliere i segni dei tempi.

    E così ecco l’idea balzana di rincorrere i protestanti sul loro stesso terreno, perché Lutero sarebbe stato una medicina per la Chiesa. Ed ecco la dichiarazione di Abu Dhabi, nella quale possiamo leggere che Dio stesso ha voluto la diversità fra le religioni.

    Queste sono le aberrazioni a cui porta il dialogo elevato a dogma. Parlo di aberrazioni perché si tratta di atteggiamenti e affermazioni che non stanno in piedi né sul piano storico né su quello teologico. Però piacciono alla gente che piace. E questo solo conta per una Chiesa che bada alla propria immagine più che alla difesa della fede.

    AP - Mi sembra chiaro: si crede che dialogando si possa essere accettati meglio. Ora, c’è da dirlo con chiarezza: non penso che io e te neghiamo che il dialogo sia uno strumento da usare, ma ci fa problema quando esso diviene un fine. Forse si è preso esempio dalla vita politica, in cui il dialogo è veramente, spesso, quasi un fine, laddove ci sono situazioni di stallo fra Stati con propri diritti e proprie pretese. Anche se le pretese dell’uno contrastano con quelle dell’altro, il dialogare sembra già una cosa positiva. Ma qui non stiamo parlando di uno Stato che dialoga con un altro Stato (certo il Vaticano è uno Stato, ma il suo lato politico è al servizio della sua suprema missione, non il contrario), ma di una realtà sovranazionale che è portatrice di una verità eterna sulla nostra vita. Non pretendo che tutti accettino questa verità senza fiatare, ma è comunque dovere della Chiesa annunciarla con chiarezza, sempre e a tutti. A me sembra che, per mandare avanti il dialogo, invece di convertire gli altri ci si converta agli altri. Abbiamo una Chiesa che per mantenere il dialogo pensa che concedere sia la tattica giusta, ma per me, e non solo per me, non lo è. Pensiamo alla tattica usata con la Cina, con la ricerca del dialogo a tutti i costi, fino ad arrivare a un accordo provvisorio che tanto buono non deve essere se lo si è tenuto segreto. Quali sono stati i frutti reali del dialogo con la Cina in questi decenni, a parte qualche visita probabilmente pilotata di alcuni monsignori di curia? L’Associazione Patriottica è ancora pienamente in funzione e anzi con la scusa dell’accordo ci sono spinte per fare in modo che coloro che sono stati per decenni fedeli alla Santa Sede entrino di forza in questa istituzione che dal punto di vista strettamente cattolico è inesistente. A che cosa ha portato questo dialogo? Io penso si debbano mantenere canali diplomatici aperti, ma facendo molta attenzione, in quanto ci sono delle controparti che dal dialogo vogliono solo ottenere, senza dare niente o quasi niente. In fondo la Ecclesiam suam aveva parlato di questo, proprio riferendosi a coloro che apertamente negano Dio, i regimi comunisti: " Noi sappiamo però che in questo cerchio sconfinato sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione; sappiamo anzi che molti, in diversissime forme, si professano atei. E sappiamo che vi sono alcuni che della loro empietà fanno professione aperta e la sostengono come programma di educazione umana e di condotta politica, nella ingenua ma fatale persuasione di liberare l'uomo da concezioni vecchie e false della vita e del mondo, per sostituirvi, dicono, una concezione scientifica e conforme alle esigenze del moderno progresso. È questo il fenomeno più grave del nostro tempo. Siamo fermamente convinti che la teoria su cui si fonda la negazione di Dio è fondamentalmente errata, non risponde alle istanze ultime e inderogabili del pensiero, priva l'ordine razionale del mondo delle sue basi autentiche e feconde, introduce nella vita umana non una formula risolutrice, ma un dogma cieco che la degrada e la rattrista, indebolisce alla radice ogni sistema sociale che su di esso pretende fondarsi. Non è una liberazione, ma un dramma che tenta di spegnere la luce del Dio vivente. Perciò noi resisteremo con tutte le nostre forze a questa irrompente negazione, nell'interesse supremo della verità, per l'impegno sacrosanto alla confessione fedelissima di Cristo e del suo Vangelo, per l'amore appassionato e irrinunciabile alle sorti dell'umanità, e nella speranza invincibile che l'uomo moderno sappia ancora scoprire nella concezione religiosa, a lui offerta dal cattolicesimo, la sua vocazione alla civiltà che non muore, ma che sempre progredisce verso la perfezione naturale e soprannaturale dello spirito umano, abilitato, per grazia di Dio, al pacifico e onesto possesso dei beni temporali e aperto alla speranza dei beni eterni. Sono queste le ragioni che ci obbligano, come hanno obbligato i Nostri Predecessori e con essi quanti hanno a cuore i valori religiosi, a condannare i sistemi ideologici negatori di Dio e oppressori della Chiesa, sistemi spesso identificati in regimi economici, sociali e politici, e tra questi specialmente il comunismo ateo. Si potrebbe dire che non tanto da parte nostra viene la loro condanna, quanto da parte dei sistemi stessi e dei regimi che li personificano viene a noi radicale opposizione di idee e oppressione di fatti. La nostra deplorazione è, in realtà, lamento di vittime ancor più che sentenza di giudici. L'ipotesi d'un dialogo si fa assai difficile in tali condizioni, per non dire impossibile, sebbene nel nostro animo non vi sia ancor oggi alcuna preconcetta esclusione verso le persone che professano i suddetti sistemi e aderiscono ai regimi stessi. Per chi ama la verità, la discussione è sempre possibile. Ma ostacoli d'indole morale accrescono enormemente le difficoltà, per la mancanza di sufficiente libertà di giudizio e di azione e per l'abuso dialettico della parola, non già rivolta alla ricerca e all'espressione della verità obbiettiva, ma posta al servizio di scopi utilitari prestabiliti. Ora, a me sembra che le parole di Paolo VI in questo senso siano molto equilibrate e chiare, anche se, come detto in precedenza, si avverte nel documento un atteggiamento che a volte sembra ondivago. Eppure le parole di ferma presa di distanza mi sembrano inequivocabili: Sono queste le ragioni che ci obbligano, come hanno obbligato i Nostri Predecessori e con essi quanti hanno a cuore i valori religiosi, a condannare i sistemi ideologici negatori di Dio e oppressori della Chiesa, sistemi spesso identificati in regimi economici, sociali e politici, e tra questi specialmente il comunismo ateo" .

    Certo, il problema enorme che sta al fondo di tutto questo e del Concilio stesso è il problema del rapporto con il mondo, un problema che la Chiesa comunque, essendo nel mondo (anche se non del mondo) non può mai eludere. Io credo che questo rapporto veda la Chiesa in grave sudditanza rispetto alle idee del mondo, perché anch’essa è prigioniera dei dogmi che regolano le nostre società, come quello del politically correct, del buonismo, dell’idea cieca di progresso.

    AMV – Ti dirò in tutta sincerità che ho maturato un’idiosincrasia per la parola dialogo. Ammetto di essere prevenuto, ma quando sento parlare di dialogo mi viene l’orticaria e mi passa ogni voglia di dialogare. Più invecchio e più avverto, specie nella vita di fede, il desiderio di andare all’essenziale. Per cui ho l’impressione che nel dialogo molto spesso si perda un sacco di tempo e non si acquisisca niente di buono.

    Mi riferisco, in particolare, al dialogo ecumenico. E a questo proposito voglio proporti una riflessione. Senti qua: Oggi " abbiamo a che fare con un’inflazione del dialogo. Si vuole ‘aprire un dialogo’ con ognuno e possibilmente con tutti. Non è tanto importante l’argomento che trattiamo; è più importante la relazione che intessiamo nel dialogo. Il percorso è la meta".

    Sai chi l’ha detto? Non un cattolico conservatore e ultra-tradizionalista, bensì un teologo evangelico: Jürgen Moltmann, già docente a Tubinga e autore del celebre Theologie der Hoffnung, Teologia della speranza, del 1964. La riflessione sul dialogo è contenuta nel suo articolo La Riforma incompiuta. Problemi irrisolti, risposte ecumeniche, pubblicato in Concilium (n. 2, 2017, pag. 142), ed è resa ancora più interessante dal fatto che Moltmann introduce una distinzione tra dialogo e disputa. Scrive infatti: " Il dialogo dei nostri giorni non è funzionale alla verità, bensì alla comunione", ed è così che subisce una sorta di edulcorazione. Il tentativo di evitare gli spigoli porta all’appiattimento, e la teologia ne risente.

    " In passato – spiega Moltmann dall’alto della sua lunga esperienza – la gente si lamentava della voglia di litigare che avevano i teologi (rabies theologicorum); oggi la teologia è diventata una faccenda talmente innocua che difficilmente trova ancora pubblica considerazione". Alla ricerca della comunione, le asperità sono limate fin quasi a scomparire. E ciò che resta è spesso una tolleranza priva di contenuti che sacrifica la passione per la verità.

    Moltmann è esplicito nel suo elogio della disputa: " Dobbiamo imparare nuovamente a dire di no. Una controversia può portare alla luce più verità di un dialogo tollerante. Abbiamo bisogno di una cultura teologica della disputa, condotta con risolutezza e rispetto, per amore della verità. Senza professione di fede la teologia è priva di valore e il dialogo teologico degenera in puro scambio di opinioni".

    Più chiaro di così l’anziano teologo evangelico non potrebbe essere, ed è significativo che la sua rivalutazione della disputa, contro l’inflazione del dialogo, sia arrivata proprio nell’anno in cui, tra molteplici inni al dialogo e ben poca attenzione per la questione della verità, si è celebrato il mezzo millennio dalla Riforma. " Comunione e verità non procedono più di pari passo?", si chiede Moltmann.

    Come è stato giustamente notato (mi riferisco a Silvio Brachetta su Vita nuova, il settimanale cattolico di Trieste) sembra che oggi non ci sia alternativa possibile: o si dialoga all’insegna del buonismo o si fa polemica aggressiva. Non c’è più posto per la sana, virile disputa.

    Osservazioni condivisibili, alle quali però il professor Stefano Fontana, sempre su Vita nuova, ha aggiunto un’ulteriore riflessione, secondo me importante: Jürgen Moltmann ha ragione nel chiedere di smetterla con il dialogo e di tornare alla disputa, " però non va dimenticato che l’assolutizzazione del dialogo deriva proprio dalla penetrazione nella Chiesa cattolica della mente protestante".

    " La questione dell’abuso cattolico del dialogo – scrive Fontana – è antica. Già le opere preconciliari di Karl Rahner ponevano le basi per un dialogo senza contenuti. Il conciliarismo successivo al Vaticano II ha applicato e sviluppato il concetto, utilizzando maldestramente l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI. È vero: Oggi si dialoga senza sapere più per quali contenuti dialogare, ma, proprio in omaggio alla verità, non bisognerebbe dimenticare che questo vizio è dovuto alla penetrazione del protestantesimo nella mente cattolica".

    È d’altra parte significativo che il fastidio per il dialogo fine a se stesso sia manifestato da un protestante come Moltmann. " Vuoi vedere – si chiede Fontana – che i protestanti si ravvedono prima dei cattolici?".

    La Chiesa del con-venire, dice Fontana (e io con lui) non sa più su che cosa e su Chi con-venire. In nome del dialogo, ha rinunciato alla Verità. Ma tutto ciò non è dialogo. Tutto ciò è tradimento.

    Giustamente hai notato che nell’ Ecclesiam suam Paolo VI non dice che il dialogo ha valore in sé, ma che occorre dialogare per convertire. Tuttavia, mi sento in linea con Romano Amerio quando, in Iota Unum, parla di equazione incoerente e impossibile " tra il dovere che incombe alla Chiesa di evangelizzare il mondo e il suo dovere di dialogare col mondo".

    La storia è lì a dimostrarlo. Eliminati tutti i punti in cui Montini stigmatizza il " compromesso ambiguo così come l’irenismo e il sincretismo ( Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede… Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo"), l’ Ecclesiam suam è stata ridotta a manifesto di una superficiale e indistinta amicizia tra la Chiesa e il mondo, e a non molto è servita la Dominus Iesus (anno 2000) di Joseph Ratzinger con la sua una denuncia di quella ideologia del dialogo che, penetrata anche nella Chiesa cattolica, si sostituisce alla missione e all’urgenza dell’appello alla conversione.

    Insomma, a dispetto delle preoccupazioni di Paolo VI, il relativismo è entrato nella Chiesa ed ha usato l’idea di dialogo in modo strumentale. Ecco perché chi ha a cuore la questione della Verità dovrebbe far sua la proposta di Moltmann e rivalutare la disputa, lo scambio vivace di opinioni, la controversia che mette sul tavolo ragioni diverse. Solo che, per disputare, occorre saper ragionare, e proprio questo, oggi, è il problema. Perché la nostra è sì crisi di fede, ma forse, prima ancora, è crisi della ragione.

    AP - In fondo, se ci pensi bene, se guardiamo al dialogo nel suo contesto laico, ne vediamo il vero volto. In effetti, quando si vuole dare una versione edulcorata dell’incontro tra le diplomazie di due dati paesi, si dice che essi dialogano, ma in realtà tutti sappiamo che stanno negoziando. Ogni paese difende il proprio interesse nazionale, così come è concepito in quel momento e in quella data prospettiva storica e politica.

    Per tornare ai cinesi, io, come ben sai, sono stato sempre molto sospettoso quando viene sbandierato Matteo Ricci come il missionario che cercava prima l’amicizia del popolo cinese. Ma quale amicizia! Questo gesuita di Macerata si sobbarcò un viaggio del genere, ai suoi tempi davvero proibitivo, per convertire i cinesi a Cristo! L’amicizia può essere stata una conseguenza, ma non è stata la ragione della sua missione. E che cosa accade poi? Se mettiamo avanti il concetto di amicizia, alla fine ci si ferma a quello e non si smuovono i cuori alla ricerca della vera ragione di ogni impulso missionario. Fra l’altro mi chiedo: bisogna dialogare per conquistare l’amicizia? A volte serve, a volte no. Comunque la Chiesa non dovrebbe cercare una vaga amicizia, bensì dovrebbe mettere in atto tutte le azioni che le sono possibili per la conversione dell’interlocutore. Sì, hai ragione se lo pensi: sto proprio parlando del tanto deprecato proselitismo! Proselitismo che non solo non è male, ma è necessario. Se dobbiamo sacrificare il proselitismo al dialogo, forse c'è qualcosa che non va.

    Hai detto che ti irrita sentir parlare di dialogo, e ti capisco. Irrita anche me, come quando sento parlare di amore, pace e via dicendo, tutti termini ampiamente abusati per farli corrispondere a qualunque cosa e al contrario di qualunque cosa. Accade a questi termini, che di per se stessi sono belli e positivi, che li si usa oramai come termini generici, parole talismano, come direbbe Plinio Corrêa de Oliveira, parole che divengono slogan attraverso cui far passare qualunque altro concetto, parole che in fondo perdono il loro vero significato. Chiamiamo tutto dialogo, ma c’è una differenza fra dialogo, negoziazione, conversazione, intrattenimento e via dicendo. Ora, non c’è nulla di male nel fatto di cercare l’amicizia dell’interlocutore, ma senza perdere di vista lo scopo primo e precipuo del dialogo per la Chiesa, che è il portare le anime a Cristo. Mi viene un pensiero che sembrerà scorretto, ma sono certo che a te questo non spaventa: non sarà che la Chiesa liquida, che fa fatica a riconoscere la propria identità, la propria aderenza ai dogmi, alla Tradizione, preferisce mettere il dialogo al primo posto perché ha inconsciamente scalzato ciò che al primo posto dovrebbe stare? Oggi quanti sacerdoti annunciano la gravità del peccato, l’inferno, il giudizio finale? Non sarà che questo dialogare è in fondo un traccheggiare? Nel concetto ambiguo e vago di dialogo alla fine la Chiesa liquida si scioglie!

    Trovo citate in filosofico.net, sito internet di filosofia animato da Diego Fusaro, queste citazioni del filosofo Hans Georg Gadamer, un altro grande nome del pensiero del secolo passato. Parlando di un suo viaggio a Napoli dice: " I n uno dei quartieri popolari dove arrivai bighellonando vidi la seguente scena: da una stanza all’ultimo piano di un palazzo, si aprì una finestra e una vecchia signora calò una lunga fune con un cesto dal quale alcuni bambini che giocavano presero dei pupazzi ritagliati dalla carta colorata, con una gioia che mi commosse fino alle lacrime. Imparai che la povertà non esclude la gioia (...) l’intesa tra gli uomini avviene sulla base di un orizzonte comune che vive nella lingua che parliamo, e nei testi eminenti che costituiscono il patrimonio di questa lingua (...) l’esperienza di verità si dà solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione. E quindi siamo solo un fenomeno linguistico? Se una cosa non viene detta, non esiste? Se riduciamo tutto a una costruzione linguistica mi sembra che iscriviamo anche il soprannaturale nel naturale, cosa che non fu sconosciuta alla teologia del ventesimo secolo. Eppure la Bibbia ci dice che il nostro è il Dio nascosto, il Dio di cui non si voleva neppure pronunciare il nome. Vero è che Cristo è il Logos, ma sappiamo bene che questo termine non significa soltanto parola", perché ha un significato ben più ampio.

    Ricordo che lessi in un libricino di monsignor Brunero Gherardini, che ho conosciuto, un passaggio che faceva proprio riferimento a quello che mi sembra il tema principale di quanto andiamo dicendo: il male di aver fatto divenire il dialogo un fine invece di un mezzo. Sembra una cosa talmente evidente ma oggi fa parte delle cose che non possono essere criticate, che sono al di fuori della possibilità di critica, pena l’essere accusati di ogni tipo di nefandezza. In questo devo dare ragione a Gadamer: a livello naturale la verità viene spesso architettata come una costruzione linguistica, come un dato che è il frutto non della propria natura oggettiva ma di una operazione massiccia di informazione che vede protagonisti apparati dei media, della cultura, della società. Se dobbiamo dire che questa è la verità, cioè un costrutto linguistico, allora il dialogo deve essere un fine, al centro della discussione. Ma possiamo aderire ad una tale visione?

    Vorrei farti anche un’altra osservazione. Guarda il dialogo ecumenico. Ora, bisogna rispettare tutti, perché tutti hanno una dignità. Ma non dovrebbe essere nostro dovere annunciare a tutti che la verità in modo completo è solo nella Chiesa cattolica? Quindi il dialogo ecumenico si è ridotto a una convivenza senza necessità di toccare i fondamenti della verità e dell’errore. Hai ben richiamato il concetto di disputa, un concetto che è stato nascosto dalla cultura iper-buonista in cui ci troviamo a vivere. La disputa non è tanto contro le persone, ma contro le idee. Si dovrebbe facilmente fare una differenza fra disputa e diffamazione: la seconda attacca la persona in se stesse, la prima attacca le idee. E sulle idee si può e si deve discutere. Ma oggi tra i diritti inviolabili di ognuno c’è anche quello di coltivare idee sbagliate, senza possibilità di avere qualcuno che ci invita a ripensarle.

    AMV – Vorrei condurti a riflettere anche sull’esperienza dei convertiti. Penso, per esempio, a un cardinale Newman, a un cardinale Manning, ma pure a due coniugi come Scott e Kimberly Hahn, autori di quel bellissimo libro che è Rome sweet home, nel quale raccontano la storia del loro approdo alla Chiesa cattolica. Da che cosa sono attirati coloro che si convertono al cattolicesimo? Se

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