Credere e appartenere: Monaci, eretici, mercenari
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Anteprima del libro
Credere e appartenere - Marco Bouchard
penale.
Indice
Introduzione
Dal credere all’appartenere
Credere e appartenere (ovvero l’obbedienza)
Credere senza appartenere (ovvero la libertà)
Appartenere senza credere (ovvero la sicurezza)
Dalla cittadinanza al nomadismo
Credere e appartenere sulla soglia
Bibliografia
I miti aborigeni sulla creazione narrano di leggendarie creature totemiche
che nel Tempo del Sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente
cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano
– uccelli, animali, piante, rocce, pozzi –,
e col loro canto avevano fatto esistere il mondo
Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti
Introduzione
La fede si è sempre manifestata esteriormente attraverso una qualche forma di culto e nell’edificazione di un luogo di ritrovo e preghiera. Spesso non è mancato il sostegno di una struttura ecclesiastica. Tuttavia i rapporti tra le convinzioni di fede e l’esigenza di appartenere a una chiesa non sono mai stati pacifici. Da un lato dogmi, concili, sinodi e diete hanno cercato di garantire uniformità e coerenza. Dall’altro ogni epoca ha conosciuto eresie, apostasie, scismi, riforme e controriforme. Nonostante queste tensioni il credere e l’appartenere sono sempre stati fattori decisivi per l’identità dell’individuo non solo nella sua dimensione religiosa ma anche come membro della comunità civile.
Il recente processo di secolarizzazione che ha attraversato le chiese storiche
del mondo cristiano, l’ebraismo e, sotto certi aspetti, l’Islam ha sensibilmente modificato l’incontro tra il credente e la chiesa di riferimento. I nuovi movimenti religiosi, pur così imponenti nel cosiddetto Terzo Mondo, non contraddicono quel processo di secolarizzazione. Oggi le nuove manifestazioni del religioso non si esprimono più in chiave di mera obbedienza per realizzare una piena corrispondenza tra fede e appartenenza. Anche il fondamentalismo, in tutte le religioni, denuncia un bisogno collettivo di sicurezza tanto intenso quanto sintomatico dell’estrema fragilità in cui si dibatte la ricerca identitaria dell’essere umano contemporaneo. Ma non è più tempo di obbedienza.
Il tema è stato affrontato soprattutto dalla sociologia straniera con testi di notevole interesse: in particolare da Grace Davie¹ – a cui si deve la fortunata formula «credere senza appartenere» – e da Danièle Hervieu-Léger che ha pubblicato il noto Catholicisme, la fin d’un monde². Per quest’ultima il motto della collega inglese può essere facilmente rovesciato nell’ipotesi opposta dell’appartenere senza credere, per descrivere la tendenza simmetrica a trovare conforto nella formale adesione all’evento religioso pur senza alcuna partecipazione spirituale. In Italia il dibattito su questi argomenti è stato affrontato soprattutto dalle analisi e dalle pubblicazioni del cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) e del suo fondatore, Massimo Introvigne.
I lettori interessati ad avere un’agevole guida sui processi intrecciati di secolarizzazione e di «ritorno» al religioso, nonché sulle diverse valutazioni che sono state date su quei fenomeni apparentemente contrastanti, possono trovare soddisfazione nella lettura del volume di Peter Berger, Grace Davie e Effie Fokas, America religiosa, Europa laica?³
Il mio lavoro ha però l’ambizione di sondare il rapporto tra il credere e l’appartenere oltre i confini del religioso, nella vita civile e istituzionale della comunità laica, per comprendere se non vi siano andamenti paralleli nei due versanti del sacro e del profano. La fede e il credere non sono, infatti, espressioni esclusive del fatto religioso. Una società organizzata non può cementare i legami che la tengono unita senza ricorrere a princìpi e valori condivisi. E i valori, in modo particolare, richiedono scelte fondate sulla fiducia: dunque sulla fede e su un credere – quand’anche permeati da una matrice religiosa – che siano idonei a svolgere una funzione laica e terrena. Tutte le moderne Costituzioni propongono questo sfondo e non è un caso che, ancora ai giorni nostri, nelle democrazie europee (ad esempio in Ungheria) o nelle democrazie arabe (in Tunisia) si cerchi di introdurre nel testo costituzionale il riferimento divino.
Mi sono, allora, posto la domanda: negli apparati civili e istituzionali non ritroviamo sviluppi e relazioni tra credere e appartenere molto simili a quelli verificabili nelle chiese e nei movimenti religiosi?
La risposta, ovviamente, non è semplice. Ma non vi è dubbio che ci sono delle similitudini che meritano di essere valorizzate. Ho provato, pertanto, a immaginare tre scenari. In un primo scenario credere e appartenere trovano perfetta corrispondenza. Quando credere e appartenere combaciano, perché la fede implica un’appartenenza e viceversa, si avvera il tempo dell’obbedienza. In un secondo scenario la fede si emancipa dall’istituzione nella quale ha trovato accoglienza: credere e appartenere si discostano perché l’organismo espelle l’individuo conflittuale o perché il credente non si riconosce più nell’ente di cui ha fatto parte. È il tempo della libertà. In un terzo scenario prevale un’esigenza di sicurezza. Manca la fede, difetta l’adesione spirituale, ma si sente la necessità di appartenere per proteggersi dalla paura di perdere un’identità significativa.
Obbedienza, libertà e sicurezza sono, dunque, i termini che descrivono l’accordo o le distonie tra credere e appartenere.
La parte più difficile del lavoro è consistita, tuttavia, nel cercare di definire i termini del credere e dell’appartenere perché la natura interdisciplinare delle mie riflessioni m’impediva di affidarmi a un linguaggio specifico. Mi ha però guidato la convinzione secondo cui credere e appartenere sono legati da un filo potente perché la fede rinvia sempre a una qualche struttura visibile e riconoscibile. La fede e il credere si esprimono attraverso dei rituali che consacrano e stabilizzano una dichiarazione di fiducia o l’assunzione di una promessa di fedeltà. È qui che la speranza e la promessa si fanno legge e comandamento. Per questo il fatto religioso del credere si unisce con il fatto giuridico-politico del patto e dell’impegno. E per questo si giustifica un’analisi dei rapporti tra il credere e l’appartenere non limitata a un contesto «ecclesiastico» ma estesa a tutta la vita sociale organizzata.
Ho illustrato l’obbedienza attraverso i due modelli storici del monaco e del militante comunista. Queste due figure storiche sono accomunate da un profondo bisogno di alterità, dalla ricerca di una trasformazione di sé e del mondo, dalla loro posizione intermedia tra una realtà utopica e le relazioni umane del presente. Altri paralleli sarebbero stati altrettanto convincenti. Basterebbe pensare a tutta la tradizione ereticale, perfettamente sovrapponibile all’antagonismo politico che ha connotato la militanza novecentesca e alle comuni idee di testimonianza, di salvezza, di annuncio, di memoria e di attesa. Con questi due modelli ho cercato di rappresentare la radicalità della scelta obbediente, nei suoi pregi e nelle sue tragiche conseguenze.
Ho illustrato la libertà attraverso le figure poco conosciute di Istvan Bibò e di Sebastiano Castellione: due precursori, delle libertà politiche, il primo, e della libertà di coscienza, il secondo. Istvan Bibò è stato un personaggio simbolico della rivoluzione ungherese del 1956 mentre Sebastiano Castellione è stato un umanista appassionato, convinto seguace di Calvino ma da quest’ultimo emarginato per la sua capacità di coltivare – in un’epoca che non lo permetteva – il dubbio e la tolleranza. La libertà del credere affermata a costo di rinunciare all’opportunità delle appartenenze comporta sempre l’oblio dei contemporanei. La storia, a volte, riabilita queste coscienze illuminate. Le mie semplici pagine vogliono anche essere un attestato di gratitudine nei loro riguardi.
Ho illustrato la sicurezza attraverso il fenomeno dei cosiddetti atei devoti e il ruolo – mai superato – dei mercenari. Quanto ai primi merita molta attenzione un diffuso atteggiamento di formale devozione e ossequio verso la chiesa-istituzione con finalità spesso strumentali e non sostenute da un’intima condivisione dei valori religiosi affermati. Questo non vale solo per le chiese cristiane ma, a maggior ragione, per il mondo musulmano. Sul versante civile ho riflettuto sulla nuova figura del mercenario che incarna molto bene questa tendenza a schierarsi – anche a rischio della vita – per motivi e interessi che nulla hanno a che vedere con i princìpi e i valori della parte con cui ci si schiera. Il mercenario è il prototipo del bisogno di sicurezza spogliato di qualsiasi valore implicante un atto di fede. Le sue prestazioni sono solo oggetto di valutazione e commercio economico.
Il quinto capitolo è dedicato alla cittadinanza: lo strumento politico fondamentale per realizzare la più alta combinazione civile tra «credere» e «appartenere». Dalla Rivoluzione francese a oggi essa ha conosciuto un’evoluzione che ci permette di riconoscerne l’insostituibilità, da un lato, e la necessità attuale, dall’altro, di declinarla secondo termini plurali. Non è estranea a questa prospettiva una sorta di nomadismo che connota la cittadinanza contemporanea. Le migrazioni e le istituzioni sovranazionali non consentono più delle appartenenze esclusive e limitate dai confini territoriali della nazione elettiva. Non solo le persone possono essere titolari di diverse cittadinanze ma concorrono ormai alla formazione della volontà politica di Stati dei quali non sono cittadini.
Non ho le competenze per descrivere i tratti delle evoluzioni ecclesiastiche del credere e dell’appartenere e delle loro intersezioni. Ci penserà qualcun altro. Ma in questo affresco non può mancare l’osservazione della profonda trasformazione dei rapporti tra il religioso e la società civile così ben descritta dalla storia moderna della cittadinanza.
Il religioso continua ad avere una funzione rilevante: non più come cemento della vita associata ma come dispensatore di valori nella società secolarizzata. Questa trasformazione non lascia indenni le chiese storiche che sono dibattute tra i pericoli di una chiusura autoreferenziale e i rischi di dispersione quando si accentuano le aperture verso l’esterno.
Credo che le chiese, oggi, debbano affrontare la sfida che viene loro mossa dai messaggi di salvezza lanciati da fonti largamente competitive. Questi messaggi di salvezza dalla paura, dalla sofferenza, dalle incertezze non provengono solo dai sagrati delle chiese, dalle sinagoghe o dai minareti. Anche le scienze e le tecniche «dicono la salvezza» dei nostri corpi e delle nostre relazioni. Dalla