Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La Donna Cristiana
La Donna Cristiana
La Donna Cristiana
E-book1.134 pagine14 ore

La Donna Cristiana

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La parità di diritti tra i due sessi, la libertà della donna di lavorare fuori casa e di vestirsi come vuole sono dati ormai del tutto scontati e indiscussi, talmente radicati da escludere qualsiasi voce di dissenso. A pensarla diversamente possono essere solo gli ambienti del fondamentalismo islamico "fanatico"; oppure possono essere i Padri della Chiesa che, come si ritiene oggi, non avevano ancora sviluppato la consapevolezza della vera dignità della donna.
Ebbene, questo libro si presenta come una voce di dissenso, anzi come un totale ribaltamento di prospettiva: non più dare per scontato che l'emancipazione femminile sia una conquista della civiltà, bensì ripensare la questione, tornando ad ascoltare la voce proprio di coloro (i Padri della Chiesa) che furono i più tenaci sostenitori della concezione patriarcale: si propone cioè di capire le ragioni di chi non la pensa come noi. Si offre al lettore la possibilità di accostarsi alla presunta "misoginia" dei Padri non con i soliti schemi mentali di oggi, per i quali "sottomissione", "clausura", "velo", "obbedienza al marito" sono cose necessariamente negative, ma con uno spirito di umiltà e di rispetto, per verificare se forse esista una libertà della donna che non sia solo quella di lavorare e guadagnare soldi, e se esista una dignità che possa esprimersi anche nell'essere pudica, portare il velo e dedicarsi alla famiglia.
Utile strumento di studio per l'ampia e dettagliata documentazione che offre, basata rigorosamente sui testi biblici e patristici, questo libro offre al contempo un grande affresco di una società alternativa (dove, paradossalmente, il modello cristiano delle origini si rivela più vicino all'Islam fondamentalista odierno che all'Europa "cristiana"); diventa un itinerario spirituale per riscoprire i valori della pazienza, della libertà interiore, della povertà e dell'abbandono a Dio; diventa, infine, un'occasione per rimettere in discussione, secondo una prospettiva genuinamente cristiana, gli "assiomi" della società occidentale moderna (emancipazione femminile, benessere, diritti umani...) e volgere il nostro sguardo a vedere che esistono modi diversi di concepire la vita, modi diversi di intendere la dignità femminile.
LinguaItaliano
Data di uscita1 gen 2010
ISBN9788896720516
La Donna Cristiana

Correlato a La Donna Cristiana

Ebook correlati

Cristianesimo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La Donna Cristiana

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La Donna Cristiana - Dag Tessore

    INTRODUZIONE

    Una delle caratteristiche dell’Occidente moderno è la varietà di opinioni: vi è chi sostiene vivamente il progresso industriale e le biotecnologie per le modificazioni genetiche, e chi invece è ambientalista e naturista; chi è a favore della politica belligerante degli Stati Uniti e chi anzi la avversa tenacemente. Ma su un tema pare esservi una straordinaria e incredibile uniformità: la donna. Fino a una cinquantina di anni fa vi era ancora un certo dialogo tra i sostenitori della donna tradizionale, dedita alla famiglia e custode del pudore, e i fautori di un’emancipazione totale o parziale. Negli ultimi decenni, invece, pare che la concezione femminista (o paritaria) abbia a tal punto prevalso, da escludere qualunque dissenso: nel mondo cristiano occidentale quasi nessuno ormai – e neppure vescovi, preti e monaci – osa contestare il principio di parità tra i sessi o il diritto della donna a lavorare fuori casa. È come se si fosse creato un tabù. Ciò rende compatto e unanime anche il giudizio negativo sulla condizione femminile in altre culture e religioni, specialmente nell’Islam. Proprio quest’Occidente che tanta importanza dà al dialogo, alla tolleranza e all’aconfessionalismo, sembra però schierarsi su una posizione fortemente dogmatica in questo campo e rifiutare ogni dialogo con chi ha una concezione del rapporto tra uomo e donna diversa dalla sua.

    Ma è evidente che, fintantoché non ci si apre ad ascoltare senza pregiudizi le ragioni degli altri e si continua a guardare alle donne velate come a soggetti emarginati, da aiutare e da salvare, il nostro rimarrà un monologo incapace di vedere oltre i propri orizzonti. Del resto, non si tratta qui affatto di un tema secondario: la concezione sulla natura e il ruolo della donna influisce in maniera determinante sull’assetto della famiglia e sulla struttura stessa della società.

    Ora, questo libro non vuole essere una presa di posizione contro il femminismo o contro la mentalità occidentale: esso intende solamente offrire gli strumenti per capire chi la pensa diversamente da noi, e farà ciò illustrando il pensiero dei Padri della Chiesa sulla donna, operando però un totale ribaltamento di prospettiva: non più dare per scontato che i Padri della Chiesa (o oggi i musulmani o gli ebrei ortodossi) non avessero o non abbiano ancora raggiunto una sufficiente consapevolezza della vera dignità della donna, bensì ascoltare la loro voce e cercare di capire le loro ragioni. Si offre così al lettore la possibilità di accostarsi alla presunta misoginia dei Padri non con i soliti schemi mentali di oggi, per i quali sottomissione, clausura, velo, obbedienza al marito sono cose necessariamente negative, ma con uno spirito di umiltà e di rispetto, per riconoscere che esistono altri modi di concepire la dignità della donna.

    Questo libro dunque intende essere innanzi tutto un’esposizione dettagliata della dottrina cristiana antica sulla donna; una dottrina espressa soprattutto dai Padri dei primi cinque secoli ma in buona parte seguita e ribadita dal magistero ecclesiastico fino a una cinquantina di anni fa. Attraverso l’esame dei contesti storici e sociali in cui operarono Gesù, gli Apostoli e i Padri, e attraverso più di duemila citazioni dalla Bibbia e dagli scritti patristici (in gran parte tradotte qui per la prima volta in italiano), intendiamo offrire al lettore innanzitutto uno strumento di studio, ricco di notizie, testi e documenti. Il nostro metodo di lavoro, in effetti, non è consistito in una ricerca di fonti e citazioni tendenziose per sostenere una nostra tesi, ma, al contrario, in un’accurata raccolta e disamina del materiale biblico-patristico allo scopo di individuare ed esporre gli insegnamenti che oggettivamente ne risultavano, senza cercare in nessun modo di forzare i testi e i dati verso una direzione o l’altra per assecondare presupposizioni e aspettative personali.

    Il nostro scopo però è stato non solo di conoscere, ma anche di capire la posizione dei Padri: perché erano contrari all’emancipazione femminile? Che cosa c’è dietro il loro moralismo in apparenza così severo e misogino? Erano semplicemente condizionati dalla mentalità del loro tempo o vi è qualcosa di più profondo nel loro insegnamento? Per rispondere a queste domande non possiamo limitarci a esporre la loro dottrina sulla donna, ma dobbiamo indagare la questione alla radice: qual è la concezione cristiana della vita, della morte, della libertà, della dignità umana? Molte pagine saranno dedicate dunque a temi apparentemente estranei all’argomento del libro. Ma noi siamo convinti che solo penetrando nella sua globalità le dinamiche e le basi spirituali dell’approccio cristiano alla vita, si potrà cogliere il senso genuino ed autentico dell’ideale patriarcale. Esaminando i meandri della psicologia patristica, cominceremo a capire che cosa significava per essi liberazione dalla schiavitù dell’ego tramite l’obbedienza, e comprenderemo allora in una luce nuova il concetto di sottomissione della moglie al marito. A tal fine ricorreremo spesso a osservazioni ed esempi tratti anche dalla realtà di oggi: il lettore saprà che non si tratta in nessun modo di opinioni e riflessioni personali dell’autore, bensì solamente di un espediente per far intendere meglio lo spirito dell’insegnamento patristico. In ciò il nostro proposito è sempre stato quello di mantenerci imparziali e scrupolosamente fedeli alla Bibbia e ai Padri, ora citandoli alla lettera, ora riassumendone le idee, ora spiegando a parole nostre il loro pensiero per renderlo il più possibile chiaro e comprensibile al lettore moderno.

    In questo modo il libro diventa anche, indirettamente, uno strumento per capire una realtà che oggi ci si fa sempre più presente e minacciosa: l’Islam e la sua concezione della donna. Comprendendo le motivazioni profonde della concezione patriarcale cristiana antica, sapremo anche vedere con occhi meno velati da pregiudizi la condizione della donna musulmana di oggi. I Padri infatti ci spingono ad interrogarci: veramente poter guadagnare soldi e poter viaggiare è libertà? Doversi vestire in maniera casta e pudica è contrario alla dignità della donna? Prendersi cura del marito e occuparsi dei bambini è davvero così umiliante e degradante? Possederemo quindi forse qualche elemento in più per aprire uno spiraglio di dialogo con l’Islam, cosa oggi quanto mai necessaria.

    Ci troviamo così di fronte a una constatazione che fa riflettere: la nostra concezione odierna della donna non solo non è universale e ovvia, ma è anzi un’eccezione di questi ultimi anni: che la donna sia portata per natura a essere sottomessa all’uomo e dedita ai bambini e alla famiglia più che a lavorare fuori casa, è sempre stato ritenuto scontato e naturale sia nel Cristianesimo (in tutte le sue diverse ramificazioni) sia nelle altre grandi religioni dell’umanità. Questo libro ci mostrerà con chiarezza quanto l’approccio cristiano tradizionale alla vita (e non solo in relazione alla donna e all’etica familiare, ma anche a tutti gli aspetti dell’esistenza) sia in stridente contrasto, punto per punto, con la mentalità odierna occidentale e con il modo di vivere dei Paesi cristiani di oggi; allo stesso tempo mostrerà anche quanta sorprendente affinità vi sia tra questo Cristianesimo tradizionale e molte culture che ancora sussistono nel mondo moderno: innanzitutto e soprattutto l’Islam, poi, in parte, l’Ebraismo ultra-ortodosso, l’Induismo, ecc.

    Questo libro, infine, vorrebbe essere un’occasione per ripensare una questione – quella dell’emancipazione femminile – che a noi oggi sembra ormai chiusa e fuori discussione. La profonda spiritualità e la sensibilità umana dei Padri della Chiesa mostreranno che il modello patriarcale non può essere semplicemente liquidato come maschilismo e misoginia, ma ha delle radici religiose, etiche e filosofiche degne per lo meno di rispetto.

    «Non biasimare prima di avere indagato;

    prima rifletti e poi condanna;

    non rispondere prima di avere ascoltato» (Sir 11,7-8).

    CAPITOLO I

    CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CRISTIANI:

    LE FONTI DELLA FEDE APOSTOLICA

    1. La scelta di credere in Cristo

    È necessario che, prima di addentrarci nel tema specifico di questo libro, diamo risposta a un interrogativo di fondo. Il lettore moderno cattolico, abituato a ricercare la dottrina della Chiesa soprattutto nelle encicliche del papa, nei libri di teologi moderni, negli scritti pubblicati dalle conferenze episcopali o negli atti del Concilio Vaticano II, si stupirà di vedere che noi qui, nel presentare la dottrina cristiana sulla donna, non citiamo quasi mai quei testi, e ci riferiamo invece costantemente ai Padri della Chiesa, citando opere oggi praticamente ignorate, come i decreti del Concilio di Laodicea e le lettere canoniche di Dionigi di Alessandria. Non possiamo non dare un chiarimento previo su questa nostra scelta apparentemente così peculiare. E per fare ciò dovremo esaminare innanzi tutto quali siano le fonti del Cristianesimo e, ancor più alla radice, che cosa sia il Cristianesimo: quale sia stata la natura e lo scopo della missione di Gesù, degli Apostoli e successivamente della Chiesa.

    Negli antichi testi dei Padri troviamo ad esempio precetti, da essi considerati come volontà di Dio, sui doveri del marito e della moglie, oppure, come vedremo, sull’abbigliamento femminile. Ci si chiederà allora: chi li ha dettati? Risalgono essi verosimilmente a Cristo e agli Apostoli? Bisognerebbe veramente seguirli come leggi divine o si tratta solo di direttive disciplinari valide per quel tempo e legate a quel contesto storico particolare? Insomma, in che cosa consiste il fare la volontà di Dio? Che cosa significa cioè essere cristiani?

    La letteratura cristiana antica, già a partire dagli stessi Vangeli, ci riferisce di un numero immenso di persone che, in un dato momento della loro vita, credettero in Cristo. Così avvenne al centurione che stava presso la croce (cfr. Mt 27,54), così a santa Lidia (cfr. At 16,14), così a sant’Agostino, che ancora a vent’anni era pagano e conduceva una vita scapestrata e libertina (e le storie di conversioni di oggi non differiscono molto da quelle antiche). Che cosa significò per tutti costoro diventare cristiani? Probabilmente non significò aderire a un progetto di riforma sociale, a una proposta di miglioramento delle condizioni di vita, bensì credere che un uomo, Gesù, fosse l’eterno, unico, infinito, sommo Dio, incarnato e venuto tra la gente. Credere che Gesù fosse il Figlio di Dio, cioè Dio stesso fatto uomo, era (ed è) il centro e il fondamento dell’essere cristiani. Per gli ebrei, quali erano ad esempio gli Apostoli, ciò significava credere che «il Dio dei tempi antichi» (Dt 33,27), il Creatore del mondo e Signore di Israele, «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 4,5), fosse sceso ora in carne umana in mezzo al suo popolo.

    Per i pagani significava credere che «veramente quest’uomo era il Figlio di Dio» (Mc 15,39; cfr. Mt 16,15-16; Gv 11,27). Ma fu soprattutto la sua resurrezione dopo la morte a rendere credibile tutto ciò: che davvero quel Dio di cui parla la Bibbia esiste e che davvero egli si è incarnato e ha parlato nella persona di Gesù di Nazaret. Da quel momento diventare cristiani significava credere alla testimonianza di coloro che lo avevano visto risorto: «Chi ha visto ne dà testimonianza – scrive l’apostolo Giovanni – e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero» (Gv 19,35). La testimonianza degli Apostoli diventa quindi il fondamento della fede cristiana: «Ciò che era fin da principio – dice ancora Giovanni –, Ciò che noi abbiamo udito, Ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, Ciò che noi abbiamo contemplato e Ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita, poiché la Vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza…» (1Gv 1,1-2).

    Ora, è chiaro che nel momento in cui una persona, nel I secolo d.C., nel II o nel XXI, crede che esiste un Dio reale e che questi si è incarnato proprio in Gesù, non solo naturalmente si pone in un atteggiamento di adorazione verso Gesù-Dio, ma anche in una disponibilità umile e totale ad ascoltare ciò che egli dice e ad obbedirgli, se veramente crede che egli è Dio. A questo punto però si pone il problema: come sapere esattamente che cosa egli abbia insegnato durante il suo soggiorno su questa terra? Alcune persone lo conobbero e lo ascoltarono di persona, ma alle generazioni successive non rimase che fidarsi della testimonianza di chi lo aveva conosciuto. Ad esempio sant’Ireneo di Lione, uno dei grandi Padri della Chiesa, apprese l’insegnamento di Cristo da san Policarpo († 155), il quale a sua volta era stato discepolo di san Giovanni, amico, apostolo e testimone oculare di Gesù. Verso il 130 d.C. il vescovo Papia scriveva: «Se incontravo qualcuno che diceva di essere stato seguace degli Apostoli, io subito lo interrogavo su che cosa fossero soliti insegnare Andrea, Pietro, Filippo […] e gli altri discepoli del Signore»1. D’altronde, sarebbe stato del tutto fuorviante (come lo sarebbe anche oggi) rifarsi al solo Vangelo, come se esso contenesse tutti gli insegnamenti di Gesù, quando invece è evidente che molti di essi furono tramandati per via orale e messi per iscritto solo più tardi, dagli Evangelisti, dagli Apostoli e dai Padri2.

    2. La testimonianza degli Apostoli e la tradizione orale

    Gesù si era presentato ai suoi contemporanei come l’inviato di Dio, il Figlio stesso di Dio. È naturale dunque che coloro che credettero in lui ascoltassero e custodissero le sue parole come parole di Dio. In questo spirito furono scritti i Vangeli: come fedele testimonianza dei fatti e dei detti di Gesù. È possibile naturalmente dubitare della sincerità degli Evangelisti e dei primi discepoli di Cristo. Non entriamo nel merito di tale questione irresolubile e ci limitiamo a constatare che, se pur si vuole escludere ogni elemento di fede, tuttavia anche sul piano meramente storico e psicologico è assai verosimile, come si deduce dalla lettura stessa degli scritti neotestamentari, che i discepoli cercassero di memorizzare accuratamente tutti gli insegnamenti del loro Maestro e di trasmetterli con la più scrupolosa fedeltà ai posteri. Se infatti essi credevano – e difficilmente se ne può dubitare – che colui era il Figlio di Dio, è del tutto naturale che si impegnassero con zelo a trasmettere ai loro seguaci tutto ciò che avevano udito da Cristo ed è naturale che la seconda, terza e quarta generazione cristiana si rifacessero continuamente a ciò che era stato riferito loro dagli Apostoli che avevano conosciuto Gesù. In san Paolo, come pure nei testi dei primi cristiani (san Clemente, sant’Ignazio di Antiochia, Tertulliano, ecc.) si nota infatti un’insistenza continua sul seguire la tradizione: «Vi ho trasmesso anzitutto quello che anch’io ho ricevuto», scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 15,3); e intorno al 190 d.C. Clemente di Alessandria «affiderà alla scrittura a beneficio dei posteri – come riferisce Eusebio – le tradizioni che egli stesso aveva ricevuto dalla viva voce degli antichi presbiteri»3. Se infatti alcuni insegnamenti di Gesù furono messi prestissimo per iscritto (nei Vangeli e nelle Lettere del Nuovo Testamento), altri furono tramandati da maestro a discepolo per via orale.

    L’insistente fedeltà dei primi Padri della Chiesa alla immutabile e santissima tradizione, al «deposito» della fede (1Tm 6,20) consegnato da Gesù agli Apostoli, fa pensare che difficilmente un uomo come Clemente si sarebbe permesso di insegnare come dottrina di Cristo opinioni sue personali, non attinte dalla tradizione orale allora ancora vivissima; tanto più che lo stesso Clemente attesta: «Questi maestri [tra cui Panteno, discepolo indiretto dell’apostolo Giovanni e padre spirituale di Clemente] conservavano la vera tradizione della beata dottrina [di Cristo]: essi l’avevano ricevuta di padre in figlio [cioè per trasmissione orale da maestro a discepolo] accogliendola così direttamente dai santi Apostoli Pietro e Giacomo, Giovanni e Paolo. In tal modo, grazie a Dio, essi sono giunti sino a noi, depositando anche in noi quei preziosi semi dei padri e degli Apostoli»4. La comunità cristiana dei primi secoli si sentiva dunque solidamente unita e compatta non intorno a un capo umano, bensì intorno all’idea di Tradizione, che «le Chiese hanno ricevuto dagli Apostoli, gli Apostoli da Cristo, Cristo da Dio»5, per custodire e tramandare senza mutamenti il depositum fidei ricevuto da quelli che già venivano chiamati i Padri, ovvero i cristiani delle generazioni precedenti. L’unica autorità riconosciuta era quella di Cristo e del suo insegnamento, del quale i vescovi, per quanto degni di venerazione e obbedienza, non erano però che semplici custodi e trasmettitori (più ancora che interpreti). Assunse quindi fondamentale importanza il concetto di ortodossia, cioè la retta dottrina fedelmente trasmessa, in opposizione alle opinioni personali che erano le eresie (in greco hairesis significa appunto scelta personale). Come scriveva sant’Ippolito all’inizio del III secolo: «Nessun eretico né altro uomo potrà condurre in errore chi osserva la tradizione degli Apostoli. Difatti le eresie si sono moltiplicate perché i capi non vogliono istruirsi all’insegnamento apostolico, ma fanno ciò che vogliono, seguendo i loro capricci…»6. E Tertulliano: «Per noi [ortodossi] non è lecito introdurre nulla a nostro arbitrio», mentre tra gli eretici «ciascuno modella a suo piacimento il patrimonio dottrinale ricevuto»7. Se dunque la Chiesa fin dalle origini condannò categoricamente tutte le «innovazioni»8, non era per reprimere ogni creatività personale, ma semplicemente perché non ha senso essere creativi là dove si tratta solo di riferire fedelmente un messaggio, quello di Cristo appunto.

    3. Il ruolo dei Padri e dei Concili

    Man mano che, durante i primi secoli, si presentavano nuove domande e problematiche concernenti la vita individuale e sociale (ad esempio: i cristiani devono osservare il sabato come gli ebrei? Le donne possono ricevere l’ordinazione sacerdotale? In che giorni bisogna digiunare? E così via), i capi delle varie comunità cristiane, cioè i vescovi, si riunivano in concili e davano delle risposte alle singole questioni: su ogni questione – diceva san Cipriano – «noi dobbiamo risalire alla fonte del Signore, cioè alla tradizione dei Vangeli e degli Apostoli»9. Si trattava quindi non di inventare delle soluzioni, ma di indagare su ciò che, su ogni singolo problema, aveva insegnato Gesù Cristo, sulla base delle testimonianze sicure e unanimi che ne dava la catena di discepoli risalente agli Apostoli, i quali per altro «neppure essi si scelsero alcuna dottrina per introdurla a loro piacimento, ma la dottrina ricevuta da Cristo la trasmisero fedelmente ai pagani»10. E come dirà Cirillo di Alessandria: «Si può forse pensare che Cristo, nel dettare la Legge, abbia omesso qualcosa di necessario? Forse che gli uomini di Chiesa possono inventare qualcosa di meglio? Non è forse sciocco e offensivo ritenere insufficiente ciò che Cristo ha stabilito?»11

    È fondamentale dunque tener presente che, quando i concili si riunivano per affrontare questioni dogmatiche o disciplinari, oppure quando i Padri, in quanto vescovi o sacerdoti, si accingevano a scrivere libri sui doveri del marito e della moglie, sulla liturgia o su qualunque altro tema, il loro intento non era quello di elaborare idee personali, innovative, di esplorare nuovi percorsi, come si usa fare oggi, bensì di ricercare tra i documenti scritti dell’epoca apostolica o di poco posteriore, oppure fra le tradizioni tramandate ancora a voce e ritenute storicamente autentiche, ciò che poteva dar risposta ai singoli quesiti. Come abbiamo già osservato, l’inflessibile fedeltà dei Padri ai loro predecessori – fino agli Apostoli – non era ostinato conservatorismo, ma semplicemente la conseguenza della loro convinzione secondo cui il Cristianesimo non è una eccelsa filosofia inventata da uomini, bensì è una rivelazione data da Dio, che esclude quindi ogni modifica da parte umana. Come diceva Giuditta: «Chi siete voi che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini?» (Gdt 8, 12). Già san Paolo diceva: «Conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse» (1Cor 11,2). D’altronde, avere un’opinione personale, che oggi è considerata cosa di gran valore e degna di stima, diritto inalienabile e segno di libertà, sarebbe stato per essi solo segno di ristrettezza mentale e di presunzione.

    Gli scritti dei Padri, come pure le decisioni dei concili antichi, ebbero però anche un altro ruolo: non solo trasmettere fedelmente il depositum e fissare su carta ciò che ancora non lo era stato, ma anche spiegare meglio gli insegnamenti tramandati e fornire delle chiavi pratiche per applicarli alla vita quotidiana. Soprattutto dopo la cosiddetta svolta costantiniana, nel IV secolo, allorché il Cristianesimo divenne progressivamente religione di Stato, la comunità dei fedeli si trovò di fronte a una realtà del tutto nuova. La Chiesa dovette definire, sempre alla luce degli insegnamenti apostolici, quali fossero i compiti dell’autorità civile, dell’esercito, dei cittadini, e così via. Anche l’aumento eccezionale del numero dei cristiani, fino al III secolo relativamente esiguo e perseguitato, presentò alla Chiesa nuovi problemi e sollecitò nuove risposte. Ad esempio, come strutturare la liturgia eucaristica non più per poche decine di fedeli alla volta, ma per centinaia? Come affrontare la questione dei divorzi e delle seconde nozze, questione ormai all’ordine del giorno in un Cristianesimo divenuto di massa? E se gli Apostoli non avevano lasciato detto nulla, né per iscritto né per trasmissione orale, su questioni politiche e sociali apparse solo nel IV secolo, allora il compito dei Padri e dei Concili era quello di capire quale sarebbe stato l’atteggiamento di Gesù e degli Apostoli in tali frangenti; capirlo attraverso un ragionamento analogico, fondato su una scrupolosa lettura delle tradizioni pervenute, per cogliere lo spirito di Gesù e degli Apostoli e applicarlo ai casi nuovi.

    Si noti, per inciso, che questo è il modo di agire di quasi tutte le grandi religioni. Anche nell’Islam, ad esempio, quando sorge qualche dubbio sulla Legge religiosa e sul da farsi, si indaga nel Corano e negli hadith del Profeta Muhammad per vedere quale sia il loro insegnamento o quale sarebbe stata verosimilmente la loro risposta.

    4. L’atteggiamento della Chiesa antica

    Ora però, una volta data risposta alle molte nuove problematiche suscitate dalla svolta costantiniana, la Chiesa, all’inizio del V secolo, si trovava ad avere una dottrina ormai sostanzialmente completa: gli insegnamenti di Gesù erano stati messi tutti per iscritto, spiegati e illustrati; a tutte le fondamentali istanze della vita sia privata sia pubblica era stata trovata adeguata e apostolica risposta; e tutte le questioni concernenti la teologia, la morale e i sacramenti erano state definite in dettaglio. La strutturazione della religione cristiana si poteva quindi dire conclusa. Ora non si trattava che di custodirla intatta e applicarla fedelmente.

    Per questo motivo si può considerare che con il V secolo finisca l’epoca patristica propriamente detta, quella cioè normativa per il Cristianesimo. E per questo stesso motivo anche noi, nel presente libro, ci limiteremo sostanzialmente a citare le autorità di questi primi secoli, assumendole come criterio della dottrina cristiana apostolica.

    A partire dal V secolo l’atteggiamento unanime della Chiesa, sia d’Oriente sia d’Occidente, sarà quello già espresso dal Concilio di Calcedonia del 451: attenersi rigorosamente alla «dottrina immutabile fin dalle origini». Del resto, in quella stessa occasione fu dichiarato che compito dei concili non è quello di ideare nuovi insegnamenti, «come se ai precedenti mancasse qualcosa», ma solo quello di riconfermare e chiarire «l’infallibile fede dei Padri»12. Ciò peraltro spiega la mirabile unanimità (in greco symphonia) che regna tra i Padri: attenendosi alla stessa fonte, cioè Cristo, essi convergevano fondamentalmente tutti sugli stessi insegnamenti. Un atteggiamento, questo, che continuò anche dopo il V secolo, come si vede chiaramente dalle dichiarazioni solenni dei concili e dei romani pontefici. Negli atti del Concilio ecumenico Niceno II del 787, ad esempio, riunitosi «all’unico scopo di confermare con un voto comune la divina tradizione della Chiesa cattolica», si legge: «Dopo ricerche e discussioni approfondite, con l’unico scopo di seguire la verità, noi né togliamo né aggiungiamo alcunché, ma conserviamo intatto il patrimonio dottrinale della Chiesa cattolica nel solco dei sei santi concili ecumenici», «custodendo gelosamente intatte tutte le tradizioni della Chiesa, sia scritte che orali»13.

    Tuttavia, di fatto, non pochi cambiamenti furono introdotti. Oggi siamo abituati a parlare di evoluzione del pensiero cristiano, ad esempio sul tema della donna o su altri temi. In realtà di evoluzione si può parlare solo a partire dal momento in cui laici, teologi o vescovi hanno cominciato ad allontanarsi dall’unico e comune depositum e «ognuno – come dirà papa Leone VII nel X secolo – ritiene ormai che debba essere tenuto per vero non ciò che è stato tramandato ma ciò che a ciascuno sembra meglio»14. Ne conseguirono una sempre più evidente frammentazione dell’unità e unanimità iniziale e il moltiplicarsi degli scismi. Già nel V secolo gli Armeni e i Copti si separarono dalla Chiesa Ortodossa, nell’XI secolo avvenne lo scisma tra Chiesa greca e Chiesa latina, più tardi vi fu la separazione dei protestanti. Anche per questo motivo ecumenico è opportuno (e noi appunto così faremo in questo libro) rifarsi a quel depositum comune a tutte le Chiese e da esse sempre ritenuto fondante e normativo: il magistero degli antichi Padri.

    5. L’atteggiamento della Chiesa moderna

    Se si eccettuano i protestanti, la cui concezione della fede e dell’appartenenza cristiana è alquanto diversa, ancor oggi le Chiese sia d’Oriente che d’Occidente continuano a considerare, almeno in linea di principio, come loro dovere la custodia e la trasmissione della Tradizione ricevuta. Anche il Concilio Vaticano II, per quanto innovativo, è chiaro su questo punto: «Il magistero non è al di sopra della parola di Dio, ma è al suo servizio, insegnando soltanto ciò che è stato tramandato»15. Nella Chiesa cattolica, invero, il principio della sovranità del papa e della sua infallibilità rischia di prevalere talvolta sulla fedeltà al depositum trasmesso dalla Tradizione. In realtà però fu sempre chiaro (forse meno nell’ultimo secolo) che il papa ha, sì, un potere supremo, ma a servizio della custodia della Tradizione e non per mutarla. San Massimo il Confessore, nel VII secolo, pur riconoscendo – in conformità «al Dio Verbo incarnato e a tutti i santi concili e canoni e sacri decreti» – che la Chiesa di Roma gode della «sovranità su tutte le sante Chiese di Dio che sono su tutta la faccia della terra»16, cionondimeno, con altrettanta chiarezza e risolutezza, afferma che Roma e il papa costituiscono il magistero infallibile per tutti i cristiani solo ed esclusivamente nella misura in cui si attengono rigorosamente al depositum della Sacra Scrittura, dei Padri e dei Concili17. Questa era la concezione comune durante il primo millennio, e così sarà ancora, in parte, per papa Gregorio VII († 1085), grande enunciatore della plenitudo potestatis pontificia: «Noi infatti – dice –, che custodiamo e difendiamo ciò che stabilirono i santi Padri, ogni volta che sentenziammo o sentenziamo qualcosa a proposito dei problemi delle Chiese, non proclamiamo cose nuove o venute da noi, bensì semplicemente seguiamo ed applichiamo ciò che essi hanno insegnato illuminati dallo Spirito Santo»18.

    Tale è anche la posizione del Concilio di Basilea nel XV secolo, dove al papa («che quanto più rifulge fra tutti i mortali per la sua altissima potestà, tanto più deve sentirsi vincolato alla fede e all’osservanza dei riti») viene addirittura imposto un giuramento: «Io N.N., eletto papa, col cuore e con la bocca confesso e prometto a Dio onnipotente […] che fino a quando vivrò questa mia fragile vita, crederò e professerò fermamente la Fede cattolica, secondo le tradizioni degli apostoli, dei concili generali e degli altri santi Padri […]; e conserverò immutata fin nei minimi dettagli questa Fede»19.

    Ora, ciò che è avvenuto negli ultimi secoli non è certo un esplicito rifiuto, da parte della Chiesa cattolica, di custodire intatto il depositum, ma è un nuovo modo di intendere la natura stessa di questo depositum: i Padri lo concepivano come l’insieme di tutti gli insegnamenti di Cristo e degli Apostoli (dal dogma della Trinità alle piccole regole di vita quotidiana), per la Chiesa di oggi invece esso è sostanzialmente limitato ai grandi dogmi di fede e ad alcuni princìpi di morale come il divieto dell’aborto e del divorzio; tutto il resto non farebbe parte del depositum e potrebbe quindi essere eventualmente modificato, secondo la necessitas Ecclesiae.

    Inoltre, negli ultimi tempi prevale nel mondo cattolico una concezione ecclesiologica secondo cui la Verità non è stata consegnata una volta per tutte, ma continua nel corso dei secoli, e ancor oggi, ad essere rivelata alla Chiesa direttamente da Dio: compito della Chiesa diventa allora non quello di custodire semplicemente un depositum, bensì quello di cogliere i suggerimenti dello Spirito Santo che non cessa di assistere la sua Chiesa, modificandola e arricchendola, attraverso vari mezzi, come i teologi e l’evoluzione della mentalità comune, segni dei tempi a cui la Chiesa deve quindi sapersi adeguare, proprio per adeguarsi alla volontà di Dio. In quest’ottica, norma della retta fede non è più il seguire scrupolosamente quanto trasmesso dagli Apostoli e dai Padri, bensì quanto indicato da Dio di volta in volta attraverso suoi strumenti quali ad esempio il papa vivente. E allora l’autentico insegnamento cristiano sulla donna non è più quello antico, ma quello che Dio insegna ora, con le encicliche e i sinodi, in conformità con i tempi che cambiano. Di conseguenza, gli antichi Padri e i concili sono oggi nella Chiesa come grandi ed eccelsi ruderi: maestri spirituali, gemme della letteratura cristiana, testimoni preziosi del Cristianesimo delle origini, ma difficilmente un cattolico odierno considererebbe vincolanti per la sua fede e per la sua vita quotidiana le loro indicazioni morali pratiche (ad esempio la proibizione di indossare gioielli, di frequentare piscine promiscue, ecc.), mentre qualunque cattolico osservante si sente in coscienza di dover obbedire alle Dichiarazioni vaticane o alle Bolle papali.

    Ora, almeno fino al Medioevo, la Chiesa e il popolo cristiano avevano, come abbiamo detto, una concezione ecclesiologica parzialmente differente: l’accentuazione del potere episcopale e papale fu concepita dai Padri (e ancor oggi è intesa dalla Chiesa ortodossa) esclusivamente come un servizio all’integrità della Tradizione. È per la tutela di essa che ai vescovi è data autorità (oltre che per il mantenimento dell’ordine nella Chiesa e per la vitale esigenza del culto e dei sacramenti). È chiaro quindi che l’obbedienza ai vescovi in quanto custodi della Fede non deve mai trasformarsi in assolutizzazione degli stessi a scapito della Fede. Come diceva san Giustino, citando Socrate: «Non bisogna onorare un uomo più della verità»20. I vescovi, al di là della loro buona intenzione, possono sbagliare e deviare dalla retta fede. La storia della Chiesa ne offre abbondanti esempi: lo stesso Concilio ecumenico di Costantinopoli del 680 afferma esplicitamente che il diavolo ha usato come suoi strumenti, «per suscitare nella Chiesa scandalosi errori», niente meno che il patriarca di Antiochia Severo, il patriarca di Costantinopoli Sergio e «anche Onorio, papa dell’antica Roma»21. Il Padre della Chiesa Ippolito si oppose apertamente alle disposizioni morali poco ortodosse del papa Callisto (III sec.), e san Cirillo di Alessandria non solo disconobbe l’autorità del patriarca di Costantinopoli Nestorio (V sec.), ma riuscì persino a farlo deporre e condannare come eretico. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Pertanto, come diceva san Girolamo, «onoriamo il vescovo, ossequiamo il prete, alziamoci in piedi dinanzi al diacono, ma non riponiamo la nostra speranza in essi»22. Certamente, bisogna fare molta attenzione al rischio della superbia e all’orgoglio di credersi più ortodossi dei pastori della Chiesa; tuttavia l’umiltà non deve diventare un veicolo di errore. Per questo sant’Agostino dice: «Non sempre disobbedire a un comando è male: infatti quando il signore [terreno] ordina cose che sono contrarie a Dio, allora non bisogna obbedirgli»23. Il Concilio di Efeso comanda esplicitamente a tutti i chierici «di non essere sottomessi, in nessun modo e in nessun caso, a vescovi che abbiano deviato dalla Fede o stiano deviando»24. Ciò significa che la Verità rivelata è indipendente dai pastori della Chiesa e dal loro magistero, dalla loro intelligenza e cultura25. Parlando di certi vescovi che insegnavano dottrine eretiche, Tertulliano dice: «Giudichiamo forse la Fede in base alle persone o non piuttosto le persone in base alla Fede?»26.

    Sebbene la Chiesa continuasse a ripetere con chiarezza, come abbiamo detto, che il criterio della verità cristiana rimanevano i Padri, tuttavia questa consapevolezza – ancora oggi forte, anche se non esente da vacillamenti, nella Chiesa ortodossa – andò gradualmente scemando nel cattolicesimo (e ancor più nel protestantesimo) per tradursi via via in una quasi totale ignoranza dei Padri e del loro carattere normativo. Oggi sono probabilmente ben pochi i cattolici (preti o laici) che conoscono gli insegnamenti morali dei Padri e ancora meno quelli che attribuiscono loro l’autorità e la normatività vincolante che ad essi veniva attribuita in passato, almeno fino alla fine del Medioevo. D’altronde sono ignorate in genere perfino le fonti che contengono tali insegnamenti. Sarà perciò opportuno menzionarle qui di seguito brevemente. Esse si suddividono in quattro grandi categorie: la Sacra Scrittura, i Santi Padri, i Sacri Concili, la Tradizione orale (liturgia, iconografia, ecc.). Prendere conoscenza di queste fonti è necessario per poter intendere correttamente il seguito di questo libro, il quale appunto si fonda su di esse.

    6. La Sacra Scrittura: Antico e Nuovo Testamento

    Che i precetti contenuti nel Vangelo (ad esempio l’indissolubilità del matrimonio) e nelle Lettere del Nuovo Testamento (ad esempio, le norme sulle vergini e le vedove consacrate) siano da considerare per i cristiani legge di Dio, è cosa evidente; e comunque di ciò riparleremo. Quel che invece è ambiguo è il valore, per i cristiani, dei precetti contenuti nell’Antico Testamento (molti dei quali, peraltro, concernono proprio l’etica familiare e il ruolo della donna). A questo proposito Gesù disse: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti: non sono venuto per abolire, ma per dare compimento […]. Chiunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5, 17-20)27. Tuttavia, se da una parte il cristiano deve seguire in maniera ancor più scrupolosa e integrale dei farisei la Legge antica, dall’altra però egli non è tenuto ad osservarla in tutti i suoi precetti e questo per aver sempre chiaro che «l’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo» (Gal 2,16), il quale «ha annullato, per mezzo della sua carne, la Legge fatta di prescrizioni e di decreti» (Ef 2,15) e «ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia» (Tt 3,5)28. Pertanto gli Apostoli, sulla scia di Gesù, pur essendo pieni di zelo di obbedienza, dichiararono non vincolanti per i cristiani i precetti mosaici, eccetto alcuni che furono esattamente specificati ed integrati nella Legge morale cristiana (ad esempio, il divieto della sodomia, dell’adulterio, ecc.). A livello teorico, non si dubitò mai dell’origine divina della Legge antica e che «la Legge e il Vangelo sono opera di uno stesso Signore»29; ma sul piano pratico, avendo la grazia e la fede soppiantato l’osservanza alla Legge ai fini della salvezza, non si ritenne più vincolante per la salvezza l’obbedienza a tutta la Legge. Ciò non toglie che la maggior parte dei precetti morali cristiani siano ovviamente in sintonia con l’Antico Testamento; e il lettore potrà rendersene conto abbondantemente nel corso di questo libro. Non va dimenticato infatti che l’Antico Testamento, insieme al Nuovo, continua ad essere il Testo Sacro del Cristianesimo30.

    7. I santi Padri

    La seconda fonte che raccoglie il depositum fidei, dopo la Bibbia, è l’insieme degli scritti dei Padri della Chiesa, ossia di quegli autori ortodossi, per lo più vescovi, che vissero tra il I e il V-VI secolo: Giustino, Cipriano, Basilio, Agostino, Efrem e molti altri. La Chiesa ha sempre insegnato che il «consenso unanime dei Padri è regola di fede». Quindi laddove i Padri unanimemente attestano le stesse tradizioni apostoliche, c’è da credere che si tratti di tradizioni autentiche, risalenti quindi a Gesù, e perciò sono da considerare parola di Dio. Tale è il caso delle norme sull’abbigliamento e il velo delle donne, sul sacerdozio e molte altre, su cui i Padri insegnano – o, meglio, tramandano – costantemente le stesse regole.

    Comunque, anche quando parlano in veste privata, ossia quando esprimono le loro personali riflessioni ed esperienze, essi rimangono ineguagliabili maestri di fede, sia per la loro perfetta sintonia con la dottrina apostolica, sia perché non erano semplicemente degli intellettuali, ma uomini che sperimentarono, in quanto asceti e monaci, il cammino spirituale cristiano nella loro vita concreta, vivendone di persona anche tutte le contraddizioni e difficoltà. In quanto pastori delle comunità locali, poi, essi impararono ad affrontare i molteplici problemi della società e si dimostrarono profondi conoscitori dell’animo umano.

    Accanto ai Padri pienamente ortodossi, ve ne sono poi altri, come Tertulliano e Clemente di Alessandria, celeberrimi e autorevolissimi soprattutto in campo morale e ascetico, ma parzialmente condannati dalla Chiesa per certe loro devianze teologiche. Alcuni, come Origene, furono addirittura espressamente respinti come eretici31. Va considerato tuttavia che i singoli scritti dei Padri hanno valore e autorità apostolica non in sé, ma nella misura in cui fanno parte dell’unanime symphonia di tutti i Padri e di tutta la Tradizione risalente agli Apostoli. Ciò che conta è la verità insegnata da Cristo, da chiunque venga pronunciata: se un insegnamento è conforme alla dottrina di Cristo è in sé ortodosso, anche se viene espresso da Origene, da un eretico qualunque o addirittura da un pagano. «Ogni libro atto a edificarci è ispirato da Dio», dice Tertulliano32. E san Giustino: «Coloro che hanno vissuto secondo il Logos sono cristiani, anche se sono stati considerati atei, come, tra i Greci, Socrate ed Eraclito»33. I filosofi pagani e i sapienti delle altre religioni (Buddha, Muhammad, ecc.) «sono stati saggi almeno nell’insegnamento morale, come, in qualche misura, anche gli [antichi] poeti, grazie a quel seme del Logos che è innato nell’intero genere umano […]. Di conseguenza tutto ciò che è stato espresso correttamente da ciascuno di essi, appartiene a noi cristiani»34. Io dunque – diceva sant’Agostino – «amo ciò che essi dicono, se dicono il vero, non perché è opinione loro, ma perché è vera; e quindi non è neppure più loro, nella misura in cui è verità»35. Anche nella nostra trattazione quindi citeremo talora autori non cristiani, secondo lo spirito dei Padri.

    Inoltre, coerentemente con quanto è stato appena detto, se, nell’esporre un concetto, citeremo ad esempio il Concilio di Arles, ciò non significa: Questa è la dottrina del Concilio di Arles, ovvero della Chiesa francese del IV secolo, bensì: Questa è la dottrina cristiana apostolica unanimemente accolta dai Padri, e la si trova ben illustrata ad esempio nel Concilio di Arles.

    8. I sacri Concili

    Nel Cristianesimo antico si preferì sempre non fondare la garanzia della retta fede su una singola persona (per esempio il papa), bensì sull’insieme dei vescovi riuniti in concilio; e questo non perché la maggioranza produce la verità, ma perché è molto difficile che un gran numero di vescovi unanimemente contraddica il depositum ricevuto identico da tutti. L’assenso della maggioranza in concilio è solo un testimoniare tutti insieme la comune Tradizione.

    La Chiesa cattolica riconosce oggi ventuno concili ecumenici, di cui l’ultimo è il Vaticano II. Naturalmente, nella prospettiva patristica, i concili più importanti e più autorevoli non possono che essere i primi, i più antichi, i più vicini all’età apostolica. In particolare i Concili ecumenici di Nicea I (325), Costantinopoli I (381), Efeso (431) e Calcedonia (451) sono da «accogliere e venerare – diceva già papa Gregorio Magno – al pari dei quattro libri del Santo Vangelo»36. A questi vanno aggiunti gli altri tre grandi Concili ecumenici di Costantinopoli II e III e di Nicea II (787)37, nonché l’importante Concilio Trullano o del Trullo (692)38. Questi però, in ultima analisi, non fanno che riconfermare gli insegnamenti dei Padri e dei primi quattro concili.

    Di fondamentale importanza sono poi anche i concili locali dei primi secoli, in particolare quelli di Gangra, Laodicea, Ancira e alcuni altri la cui lista si trova già nel Decretum Gelasianum (IV-V secolo) e ai quali fu sempre riconosciuta somma autorità normativa; i canoni di questi sinodi ci interessano particolarmente, poiché si occupano molto della morale matrimoniale.

    Questo insieme di testi (dei Padri e dei concili, sia ecumenici sia locali) costituì fin dai tempi antichi il cosiddetto corpus dei Sacri Canoni, cioè, in altri termini, la Legge cristiana. La Chiesa ortodossa ancor oggi riconosce (almeno in teoria) a questo corpus la suprema autorità che aveva in passato; la Chiesa latina invece, che pure lo accolse pienamente39, tende oggi a lasciarlo in ombra, a motivo della mutata prospettiva ecclesiologica di cui abbiamo già parlato.

    Quanto ai concili celebrati dopo lo scisma tra Chiesa greca e Chiesa latina, avvenuto nell’XI secolo, come pure ai documenti del magistero ecclesiastico più recente, essi, nella prospettiva patristica, possono avere valore e autorità solo nella misura in cui si attengono all’insegnamento apostolico, cioè dei primi secoli40.

    9. La tradizione liturgica e iconografica

    Un’ultima fonte della legge cristiana, infine, è costituita da un insieme di altre testimonianze antiche: l’iconografia, l’archeologia, le opere di storiografi antichi, i testi della liturgia. Da essi si può sapere infatti come debbano essere costruite le chiese e gli altari, come celebrare la liturgia, e così via, in linea con il Cristianesimo dell’epoca apostolica e patristica. Si tratta di dati talora messi per iscritto solo in epoca molto tarda, ma cionondimeno risalenti con ogni probabilità all’età apostolica41. Si noti peraltro che le quattro fonti della Tradizione che abbiamo qui esposto sono in realtà inestricabilmente unite e interconnesse: i concili sentenziarono sempre in conformità con gli insegnamenti dei Padri e questi ultimi non fecero altro che illustrare la dottrina contenuta nelle Scritture. Quindi il tutto costituisce un unico e omogeneo corpus, un unico libro santo, come dice anche il profeta: «Questo è il libro dei decreti di Dio, è la Legge che sussiste nei secoli; quanti si attengono ad essa avranno la vita, quanti l’abbandonano moriranno» (Bar 4,1).

    Va detto inoltre che il limitarsi ai testi, sia patristici che conciliari, dei primi cinque secoli, non solo permette di trovare risposta praticamente a qualsiasi domanda (dalla teologia alla morale, dalla politica alla preghiera), ma evita anche che ci si smarrisca in una quantità eccessiva e incontrollata di libri, limitandone invece il numero a quelli sicuri e ortodossi dei primi secoli. Anche sul piano psicologico è importante avere un riferimento chiaro e preciso, un’àncora stabile e sicura. Altrimenti «non si sa più dove fermarsi né dove dirigersi […]: colui che si allontana dal [depositum] della Fede è sempre instabile, è come chi nuota vagando or di qua or di là, finché non resta sommerso dalle molte acque»42.

    10. Il significato dell’obbedienza ai precetti

    Questo insieme di testi e di autorità dei primi secoli del Cristianesimo, contenuti nelle quattro fonti che abbiamo appena illustrato, e noti con il nome di Sacri Canoni, detta regole disparate su ogni aspetto della vita del cristiano. È necessario, a questo punto, esaminare quale valenza abbia – secondo i Padri – questa Legge morale. Innanzi tutto va detto che, diversamente da quel che oggi si tende per lo più a considerare, il Cristianesimo non è solo una fede, uno spirito, un atteggiamento di fronte a Dio e alla vita; esso è anche una «legge» morale (cfr. 1Cor 9,21), un codice normativo che regola, spesso anche in dettaglio, l’esistenza quotidiana dei fedeli. In maniera simile alla legge giudaica e islamica, anche il Cristianesimo prevede una serie di comandamenti e precetti, che vanno dal modo in cui tenere il corpo durante la preghiera alle regole sul digiuno, dai doveri in casa della moglie e del marito a mille altre evenienze. Di questi precetti, accuratamente esposti dai Padri e dalla Tradizione successiva e sempre considerati parte integrante del depositum fidei43, solo pochissimi sono oggi noti al popolo cristiano e ancor meno sono quelli effettivamente praticati. È infatti diffusa la persuasione che essere cristiano non implichi l’obbedienza a regole esteriori, ritenute in genere superate o comunque superflue. Ma Gesù diceva: «Se la vostra giustizia [cioè osservanza della Legge] non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,19-20). I motivi che rendono necessaria l’obbedienza ai precetti della Legge cristiana possono essere riassunti come segue.

    I. I comandamenti di Dio, enunciati da Cristo, dagli Apostoli e dai loro immediati successori e codificati nei concili, devono essere obbediti in quanto tali. Ciò infatti significa seguire e amare Dio, e «in questo consiste l’amore di Dio: nell’osservare i suoi comandamenti» (1Gv 5,3). Perciò «smettiamola – dice san Giovanni Crisostomo – di discutere! Noi ci chiamiamo fedeli proprio perché senza dubitare e senza la minima esitazione crediamo a quanto ci è stato insegnato. Se questi insegnamenti fossero umani, allora sì che si dovrebbe vagliarli attentamente; ma poiché essi provengono da Dio, bisogna soltanto accettarli rispettosamente e credere ad essi con cuore sincero. Se non abbiamo fiducia in essi, vuol dire che non siamo convinti neppure dell’esistenza di Dio»44.

    II. La stessa obbedienza con cui siamo tenuti a seguire scrupolosamente tutti i precetti ci è salutare, poiché, spingendoci ad agire spesso contro la nostra volontà, ci libera dalla morsa dei nostri desideri egoistici e dai nostri capricci. Quindi, indipendentemente da quali siano i precetti, è l’obbedienza in sé che è salutare.

    III. I singoli precetti (per esempio sui digiuni, sulla castità, ecc.), «essendo sentenze divine», sono «vantaggiosi per noi stessi e per il prossimo»45: sono – come li chiamano spesso i Padri – farmaci salutari, concepiti da Dio tali da essere di gran beneficio alla nostra mente e al nostro corpo. Per questo la Bibbia dice: «Chi pecca danneggia se stesso» (Sir 19, 4). E Clemente di Alessandria afferma: «Attraverso i comandamenti ci viene indicata una vita veramente felice; perciò bisogna che tutti ci atteniamo ad essi senza misconoscere alcunché di ciò che vi è prescritto, né trascurare il benché minimo dei nostri doveri»46.

    IV. Infine l’obbedienza ai precetti ci è necessaria per la salvezza eterna47. Il cristiano crede di essere salvato in virtù della fede in Cristo, ma «la fede senza le opere è cosa morta» (Gc 2,26), poiché chi non compie le «opere di giustizia», cioè appunto i precetti, mostra con ciò stesso di non aver fede in Cristo, e quindi non può salvarsi48.

    11. Seguire la lettera o lo spirito?

    A questo punto però è necessario esaminare con quale spirito e con quale intenzione i Padri abbiano stabilito i vari precetti morali. Ad esempio, i testi dei Padri, sulla scia del Nuovo Testamento, prescrivono unanimemente che la donna porti il velo sia in chiesa che fuori. Ora, è naturale chiedersi: questo precetto era inteso solo per quei tempi o per sempre? Fu decretato per essere seguito alla lettera o solo nello spirito, e fino a che punto lo si considerava veramente importante o obbligante? Quanto alla prima domanda, è facile rispondere che i Padri intesero quel precetto, come del resto quasi tutti gli altri, come normativi per sempre e non solo per un’epoca determinata. Essi infatti, come vedremo dettagliatamente nei prossimi capitoli, misero accuratamente in luce tutte le motivazioni teologiche e spirituali-morali soggiacenti all’uso del velo, affermandone con ciò stesso la perenne validità metastorica.

    Per quel che concerne invece la seconda domanda, il discorso è più complesso. Si crede spesso che il giudaismo attribuisca all’osservanza formale ed esteriore della Legge religiosa un’importanza tale da farne il cardine stesso dell’adesione a Dio e della salvezza. In realtà chi conosce la teologia ebraica sa bene che non è così: è richiesta anche la fede, la grazia, il timore e l’amore di Dio, l’adesione allo spirito dei precetti, senza la quale una pedissequa e farisaica osservanza esteriore diventa quasi inutile. Lo stesso vale per il Cristianesimo (come pure per l’Islam). Del resto alcune volte i Canoni si contraddicono fra loro: ad esempio il Canone LVII di san Basilio impone dieci anni di scomunica come pena dell’omicidio involontario; il Canone XXIII del Concilio di Ancira per lo stesso reato impone sette o cinque anni. Si tratta allora di cogliere lo spirito e l’intenzione soggiacenti e applicare i Canoni anche con una certa elasticità e libertà; «purché, però, questa libertà non divenga un pretesto…» (Gal 5,13), portandoci ad accantonarli quando non ci fanno comodo. È giusto non assolutizzare la lettera, è giusto storicizzare i precetti e collocarli nel contesto socio-culturale in cui furono promulgati, ma ciò deve essere fatto in maniera coerente e onesta. Spesso invece oggi si ricorre alla storicizzazione dei Padri semplicemente per renderli innocui e confinarli all’ambito letterario e intellettuale, per evitare che possano influire sulla nostra vita cristiana concreta e cambiarla.

    Ad esempio, molti Padri vietarono l’uso di ghirlande di fiori, poiché esse erano usate nelle cerimonie pagane; oggi, non valendo più la motivazione della proibizione, quest’ultima potrebbe venire, in un certo senso, a mancare. Nel caso del velo per le donne, invece, la sua motivazione era da una parte legata ad argomentazioni teologiche e quindi invariabili, dall’altra si collocava in un contesto (il tardo Impero Romano) in cui le donne abitualmente non portavano il velo e quindi esso diventava un segno di diversità e di appartenenza al Cristianesimo. Non era quindi un adeguarsi al modo di vestire di allora, bensì al contrario un volersi distinguere dalla società pagana. Motivazioni dunque che, proprio in virtù dello spirito e non della lettera, non permetterebbero di considerare l’uso del velo inapplicabile in un contesto come l’attuale, ma anzi ne esigerebbero l’applicazione, proprio in quanto «segno di contraddizione» (Lc 2,34) rispetto alla società circostante.

    Quanto al quesito sul carattere più o meno obbligante dell’osservanza dei Canoni, possiamo rispondere che in genere sono i Canoni stessi a definire il loro grado di autorità e obbligatorietà. Ad esempio, i cosiddetti Canoni Apostolici, nell’ordinare il digiuno di tutti i cristiani ogni mercoledì e venerdì dell’anno, oltre che durante la Quaresima, infliggono al trasgressore la scomunica; e il Concilio di Gangra, nel vietare alla donna di avere i capelli corti, sanziona addirittura l’anatema (una sorta di scomunica maggiore)49. Quantunque a noi queste possano sembrare prescrizioni del tutto irrilevanti, per i Padri evidentemente non era così: altrimenti non avrebbero comminato pene tanto severe.

    È necessario tuttavia interrogarsi anche sul senso di questo obbedire ai Canoni: che cosa significa che un cristiano ha l’obbligo di digiunare il mercoledì e il venerdì o di recarsi ogni domenica alla liturgia? Da una parte significa che, per salvarsi, bisogna obbedire a ciò che Dio comanda e che è logico, per chi crede veramente in Dio, cercare di fare la sua volontà: «Che ci piaccia o no, noi obbediremo alla voce del Signore nostro Dio» (Ger 42,6). In secondo luogo è un atto di fiducia nel Maestro divino che il cristiano ha scelto nella sua vita come guida alla felicità terrena, alla liberazione interiore e alla gioia eterna. Se Dio dunque dichiara obbligatorio qualcosa, significa che egli sa che ciò ci è necessario o salutare e che senza di esso non riusciremmo a pervenire a quella libertà e pace e serenità a cui egli ci vuole condurre. In questo senso i precetti sono dei consigli per il nostro bene, e le pene, come la scomunica, sono un modo efficace per farceli prendere sul serio; ma chi non li segue danneggia solo se stesso, oltre che essere del tutto incoerente con la propria scelta cristiana.

    A questo proposito va anche detto che ugualmente incoerente è seguire solo una parte dei precetti, tralasciando quelli che non ci piacciono o ci sono scomodi. Se infatti un cristiano crede in Cristo, allora deve fidarsi di tutto ciò che egli prescrive; altrimenti il criterio diventa non più Dio ma la soggettiva e capricciosa coscienza del singolo50. Se una persona rispetta le regole sui digiuni, ad esempio, ma non quelle sull’abbigliamento, allora dovrebbe chiedersi perché rispetta quelle sul digiuno: se lo fa per obbedienza e fiducia in Dio, dovrebbe di conseguenza seguire anche le altre regole; se invece fa i digiuni per altri suoi motivi personali o per dieta, allora questo non ha nulla a che fare con la fede e l’obbedienza a Dio. Perciò, come dice l’apostolo Giacomo, «chi osserva tutta la Legge, ma la trasgredisce anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto» (Gc 2,10), anche se, certamente, va tenuta presente, con molta comprensione e indulgenza, la strutturale debolezza e contraddittorietà della natura umana.

    Un’ultima questione sulla natura dell’osservanza da prestare alla legge morale concerne il maggiore o minor grado di rigore nell’obbedire ai Canoni. I Padri della Chiesa, come si vede chiaramente leggendo i loro scritti, non erano fanatici e rigoristi; talora addirittura sorprende la loro elasticità e umanità. Agostino, Girolamo, Arsenio, Clemente furono sì grandi teologi e autorità ecclesiastiche, ma erano persone che avevano conosciuto la vita del mondo, gli ambienti della ricca borghesia e la miseria dei poveri, i piaceri dei sensi e gli sbandamenti della giovinezza («sapete quanto sia sdrucciolevole il cammino dell’adolescenza: anch’io vi sono scivolato», scrive san Girolamo51): essi avevano vissuto sulla loro pelle che cosa signfichi innamorarsi di una donna o separarsene (è il caso di un Agostino e di un Tertulliano), che cosa significhi povertà, digiuno, solitudine, paura di sbagliare; sapevano quindi che il cammino spirituale cristiano non è facile.

    Ma soprattutto erano consapevoli del carattere funzionale dei Canoni, prescritti dalla pedagogia divina in funzione del bene dell’uomo (cfr. Mc 2,27). Così, ad esempio, bisogna digiunare in certi giorni per mostrare con ciò fiducia, amore e obbedienza a Dio, per purificare il proprio corpo e la propria mente e per disciplinare la volontà. Ma ciò che è in abominio a Dio non è la carne in sé se mangiata di venerdì, ma è la disobbedienza e l’arroganza che comporterebbe il mangiarla. Si può allora capire perché il Concilio di Ancira permetta ai chierici che lo vogliano di non mangiare mai carne, ma prescrive loro di assaggiarne un po’, e questo affinché non credano che l’astensione dalla carne sia un bene in sé, quasi con valenza magica: se infatti è accompagnata da spirito di ribellione o di fanatismo, non è più un bene52. Tutte le pratiche ascetiche sono dunque in funzione del progresso spirituale dell’uomo. Per questo i Padri formularono la dottrina cosiddetta dell’economia, termine greco con cui si intende appunto il derogare al rigore formale dei canoni quando ciò sia opportuno per il bene spirituale del fedele53. Lo scopo non è l’osservanza dei precetti in sé, bensì il bene dell’uomo, bene che in genere si raggiunge appunto attraverso l’osservanza dei precetti, ma talvolta anche tramite l’economia.

    12. La fedeltà scrupolosa alla Tradizione

    Se dunque da una parte la Chiesa non ha l’autorità e il diritto di abrogare i Canoni, tuttavia può applicare l’economia e quindi abrogarli almeno momentaneamente (attenuarne cioè la lettera, mai lo spirito soggiacente); questo diritto però può essere da lei esercitato solo se sussistono motivi veramente gravi. E si può certamente supporre che i Padri non vedrebbero oggi nessun motivo serio per consentire, ad esempio, l’uso del trucco alle donne (vietato dai Canoni), se non il capriccio, l’abitudine, l’ignoranza della Legge divina, la paura del giudizio altrui, il preconcetto e, in fondo, la mancanza di fede in Dio. Prendiamo un altro caso: i Padri proibiscono che le donne si vestano con gonne corte, con abiti scollati o aderenti, come pure la frequentazione promiscua delle piscine. Si potrebbe considerare economia l’attenuare questi divieti, l’essere più indulgenti, più elastici. In realtà, se rimane (come necessariamente deve rimanere) il divieto canonico di commettere fornicazione, adulterio e divorzio, è ovvio che attenuare i canoni sul vestiario e sulla promiscuità non farebbe che rendere la vita dei cristiani più difficile e più gremita di tentazioni gravose. È come se a chi avesse scelto di digiunare un giorno si portassero dinanzi piacenti manicaretti, intimandogli di non toccarli. In realtà è del tutto evidente che, se oggi si tende a permettere forme di abbigliamento seducenti, non è affatto per indulgenza o economia, ma semplicemente perché, consciamente o inconsciamente, si approva la fornicazione, l’adulterio e il divorzio. Se li si disapprovasse sul serio, si eviterebbe di provocarli e favorirli. Abbiamo detto: consciamente o inconsciamente; spesso infatti l’uso di un certo tipo di abbigliamento che attira la fornicazione è dovuto semplicemente all’abitudine e alla moda, più che a una deliberata intenzione trasgressiva. Ma l’economia ecclesiastica non è certamente stata ideata per favorire simili mode.

    Inoltre, nel momento in cui si comincia a mettere le mani addosso al depositum, fosse pure solo per un minimo dettaglio, ci si erge per ciò stesso al di sopra della Tradizione e ci si autoproclama giudici, non più umili seguaci, dei Padri. «Non aderire alle vestigia dei Padri – diceva san Basilio – e non ritenere più giusta della propria opinione la loro parola, è cosa degna di riprensione in quanto piena di arroganza»54. Di conseguenza anche le trasgressioni apparentemente più insignificanti ai Sacri Canoni diventano un attentato alla maestà di Dio, alla sua santità e alla perfezione della sua Legge. Il tenace conservatorismo della Chiesa antica significa dunque non che essa non potesse modificare nulla delle sue consuetudines (in casi di vera necessità lo poteva fare), ma che meno si modifica e più risalta agli occhi dei fedeli il carattere antico, immutabile, divino della religione, anche attraverso venerandi segni esteriori come i paramenti liturgici, la lingua, ecc. Ciò su cui si osa mettere le mani perde ipso facto la sua sacralità. È per questo che i Padri usano sovente espressioni come è obbligatorio oppure è vietato, è anatema, appunto perché ci si renda ben conto della serietà della questione.

    A ciò va aggiunto che l’obbedienza ai dettagli dei precetti (ad esempio i colori dei paramenti liturgici, lo stile antico dei vestiti femminili, e così via, che pure forse non risalgono all’insegnamento apostolico e sono quindi semplici tradizioni umane) è comunque il segno esteriore di un intimo spirito di obbedienza a Dio, contrario allo spirito di trasgressione. «Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto» (Lc 16, 10). Certo ciò che conta veramente è lo spirito, la fede, l’amore di Dio e del prossimo. Se non vi sono queste cose e se non vi è saggezza, pace nel cuore, una mente libera da avidità, odio e pregiudizi, allora tutta l’osservanza dei precetti si riduce a vana formalità e rischia facilmente di essere fraintesa, strumentalizzata, abusata. «Guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio e poi trasgredite la giustizia e l’amore di Dio» (Lc 11, 42), che sono «le prescrizioni più importanti della Legge […]. Queste bisognava praticare innanzi tutto, pur senza trascurare quelle» (Mt 23, 23).

    Naturalmente il contesto storico e sociale cambia con i secoli. Ma il fatto è che i Padri non si curarono mai di predicare e agire in conformità ai tempi: tutt’altro. «Che cos’è avere la stima delle masse? Un nulla!», diceva san Giovanni Crisostomo55, e lodava quella donna «che, sia nell’atteggiamento esteriore, sia nel modo di incedere, sia nel vestito, non va alla ricerca dell’apprezzamento di nessuno»56. Certamente c’è anche qui il rischio della superbia: che una donna, ad esempio, vada in giro velata quando ormai i tempi sono tali che nessuna porta il velo; ma una cosa è l’umiltà, altra cosa è il conformismo e la paura di sembrare diversi. Del resto, non sono i tempi che cambiano, ma sono gli uomini che li cambiano.

    1 Papia, in Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, III, 39, 4.

    2 Questi concetti che stiamo illustrando sono esposti in maniera magistrale già da Tertulliano († 220 ca.) nel suo libro De praescriptione haereticorum, a cui rimandiamo il lettore.

    3 Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, VI, 13, 9.

    4 Clemente di Alessandria, Stromata, I, 11, 3.

    5 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, XXI, 4; cfr. XXXVII, 1.

    6 Ippolito, Traditio apostolica, XLIII.

    7 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, VI, 3 e XLII, 7.

    8 Clemente di Roma, Epistola I ad Corinthios, XXX, 1.

    9 Cipriano, Epistolae, LXXIV, 10.

    10 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, VI, 4.

    11 Cirillo di Alessandria, In epistolam ad Corinthios, VII, 8.

    12 Concilio di Calcedonia, Definitio fidei. Cfr. anche quel che afferma san Vincenzo di Lérins a proposito del Concilio di Efeso del 431: i vescovi lì riuniti – dice – «non intesero proporre ai posteri null’altro da credere se non l’antica sacra dottrina insegnata dai Santi Padri unanimemente e conformemente a Cristo» (Commonitorium, XXXIII).

    13 Concilio di Nicea II, Terminus; cfr. anche can. I. Quasi tutti i concili antichi della Chiesa contengono espressioni simili: basti qui ricordare, a titolo di esempio, il Concilio di Chalon del 647-653 (can. XVIII) e il Concilio di Celchyt del 787 (cann. I e IV). Così pure i Padri del Concilio di Valence dell’855 dichiararono: «Noi confessiamo con costanza assoluta

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1