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L'utopia dell'Ummita: Romanzo trascritto e curato da Antonio Pappalardo
L'utopia dell'Ummita: Romanzo trascritto e curato da Antonio Pappalardo
L'utopia dell'Ummita: Romanzo trascritto e curato da Antonio Pappalardo
E-book897 pagine14 ore

L'utopia dell'Ummita: Romanzo trascritto e curato da Antonio Pappalardo

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Info su questo ebook

È il 31 dicembre 1899. Nella villa dei mostri di Bagheria sono riunite, in attesa del nuovo anno e del nuovo secolo, dodici persone, compreso don Angelo. Argomento di conversazione è la miserevole condizione in cui versa la Sicilia e la necessità di un riscatto dell’Isola, nei confronti dell’Italia e della corruzione romana. 
Dalla “Sala degli Specchi”, adiacente alla biblioteca, dove si svolge la riunione, giungono strani rumori e tonfi incredibili che suscitano la curiosità dei dodici. Questi decidono di entrare nella sala. Si trovano di fronte una scena inaspettata: in un’atmosfera luminosa siedono attorno a un tavolo ovale dodici persone che stanno anch’esse festeggiando un evento: l’ingresso del XXI secolo.  
È il 31 dicembre 1999.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2020
ISBN9788832209372
L'utopia dell'Ummita: Romanzo trascritto e curato da Antonio Pappalardo

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    Anteprima del libro

    L'utopia dell'Ummita - Walet Humm

    www.editoremorrone.it

    ​Prefazione

    di Corrado Di Pietro

    Confesso da subito la mia debolezza. Quando l’editore Morrone mi ha proposto, con grande entusiasmo e accennandomi la trama intrigante, di scrivere la prefazione di questo libro, pensavo che si trattasse di un romanzo di tipo tradizionale, di quelli che si rifanno all’avventura fantastica e che sono capaci di costruire mondi e strutture narrative tali da poter essere decriptate con la usuale analisi critica propria della narratologia.

    Mi ritrovo invece a considerare uno scritto corposo e pretenzioso che non riesco a inquadrare del tutto nei canoni di un qualsiasi genere consueto e che, durante la lettura, mi ha suscitato interesse, meraviglia, curiosità e incredulità.

    Quest’opera non è un vero e proprio romanzo; eppure del romanzo possiede gli ingredienti principali: una fabula ben congegnata, uno sviluppo narrativo articolato secondo uno schema originalissimo e accattivante, un buon numero di personaggi che rappresentano idee e situazioni storiche ben precise, luoghi simbolo dove si svolge l’azione e una solida concezione generale che motiva l’intera architettura del romanzo.

    Quest’opera non è un vero e proprio saggio storico; eppure del saggio storico ha la posizione ideologica di partenza e le numerose ampie dimostrazioni degli eventi, che sono visti sotto una luce nuova ed originale, molto improbabile per la verità ma sicuramente coerente nel quadro storico, culturale e politico in cui ci viene proposta.

    Quest’opera non appartiene del tutto neanche al genere apologetico, anche se è veramente forte e appassionata la proposta di un ideale mondo di pace e di fratellanza indicato alla nostra umanità da un popolo alieno, proveniente dal pianeta Ummo, a circa 14 anni luce da noi.

    Come si vede, ci sono molti aspetti da considerare in questo scritto complesso e inquietante. Vediamo allora di seguire le tre strade che abbiamo tracciato, quelle del romanzo, del saggio storico e dell’opera apologetica, cercando di evidenziare le caratteristiche principali di ognuna di esse.

    Il romanzo

    Si parte da una finzione letteraria, molto collaudata nel genere romanzesco (vedasi i Promessi sposi, Il nome della rosa, ecc.): una sera dell’anno 2000 un certo Walet, un viaggiatore che viene dal pianeta Ummo, prende contatto con l’estensore di questo libro e gli consegna il canovaccio di una storia incredibile, che qui viene narrata in tutti i suoi particolari.

    La sera del 31 dicembre 1899, nella villa dei mostri di Bagheria, fatta costruire a partire dal 1715 dal principe di Palagonia, e appartenente in quel periodo a don Angelo Castronovo, già sindaco della città palermitana, sono riunite, in attesa del nuovo anno e del nuovo secolo, dodici persone, compreso don Angelo, che stanno cenando e discutendo delle miserevoli condizioni in cui versa la Sicilia e della necessità di un riscatto dell’Isola, nei confronti dell’Italia e della corruzione romana. Sembrerebbe una recriminazione leghista se non sapessimo che la vicenda si sta svolgendo nel XIX secolo e a ridosso di quella rivolta contadina, i cosiddetti Fasci, che accese gli animi dei siciliani e fece esplodere in modo cruento la questione meridionale e la lotta agraria per la distribuzione delle terre. Il clima è quindi fortemente teso e politicizzato e questa congrega di persone socialmente influenti sta mettendo in atto un piano di intervento che prelude al separatismo dell’Isola.

    Accanto alla sala della biblioteca, dove si svolge la riunione, c’è un’altra stanza, denominata ‘Sala degli Specchi’, per via dei tantissimi specchi di varie forme che tappezzano le pareti e che deformano le figure dei presenti nella sala. Da questa sala giungono strani rumori e tonfi incredibili che suscitano la curiosità dei dodici che stanno parlando. Decidono dunque di entrare nella sala e don Angelo, il proprietario della villa, preannuncia che si troveranno di fronte a una visione inaspettata e che assisteranno a fatti davvero strani e inusitati. I dodici entrano e in un’atmosfera luminosa vedono sedute attorno a un tavolo ovale dodici figure che stanno anch’esse festeggiando un evento: è il passaggio fra il 1999 e il 2000, nonché quello fra il secolo XX e il XXI.

    A questo punto abbiamo due gruppi ben distinti di dodici persone ciascuno: il primo, che stava festeggiando nella sala della biblioteca, e il secondo che sta invece festeggiando nell’attigua sala degli specchi. In questo secondo gruppo c’è un giovane dagli occhi cerulei di nome Palet, un ummita, che, attraverso un videoregistratore posto al centro del tavolo, sta facendo scorrere immagini concernenti la storia dell’intero XX secolo. Fra i due gruppi, in un primo momento, non c’è interferenza, non si possono parlare e né vedere, se non attraverso la mediazione di Palet che di quando in quando raccoglie le richieste di qualcuno del primo gruppo e ne soddisfa la curiosità; man mano poi che le immagini scorrono i due gruppi si incontrano e dialogano fra di loro, anzi si cominciano a costituire piccole intese dettate da comuni interessi ideologici.

    C’è un substrato comune ai due gruppi, fatto d’insoddisfazione del loro stato contingente: socio-politico per il gruppo del ‘900 e storico, religioso e culturale per il gruppo del 2000. E c’è, a questo punto, un’unica soluzione, proposta dagli ummiti: quella di creare, partendo proprio dal sud, un nuovo ordine mondiale che dovrà amalgamarsi con un superiore Ordine Universale che regola le galassie e gli infiniti universi. Quest’Ordine prevede la nascita di un’unica religione, posta come base necessaria ad ogni altro ordine di tipo sociale, culturale e politico, che faccia riferimento a un solo Dio, Xama, sintesi e punto d’incontro delle tre divinità propugnate dalle tre religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo).

    È necessario che ciò avvenga presto perché il nostro mondo è preso in ostaggio dalle forze del male, presenti nella storia sotto forma di istituzioni e di associazioni più o meno clandestine, che orientano gli eventi secondo i fini perseguiti da ristrette lobby di potere. Fra le istituzioni che hanno avuto nefaste influenze sui popoli al primo posto c’è la Chiesa Cattolica, detentrice di un grande potere temporale, di sfrenate ambizioni e di immense ricchezze; seguono i vari ‘ismi’ politici che hanno insanguinato il secolo, quali il fascismo, il comunismo, il socialismo, e a quest’analisi spietata e inverosimile non sfuggono neppure le due grandi ideologie, quella liberale e quella democratico-cristiana, che hanno influenzato tantissimo la storia recente del nostro Paese.

    Gli ummiti, che hanno frequentato la terra sin dal 1950, in seguito ad una segreta piccola invasione di loro navicelle e che in qualche caso si sono camuffati da terrestri, come pare sia avvenuto per Ettore Maiorana, il geniale fisico catanese che sparì nel nulla nel 1938, all’età di 31 anni, durante il viaggio in mare da Napoli a Palermo, gli ummiti, dicevamo, sono giunti ormai nella determinazione di lasciare la terra e di consegnarci il loro testamento per farci conoscere i veri motivi dei tanti misteri italiani e per illuminarci nel cammino futuro.

    Ecco allora scorrere davanti agli occhi increduli e stupefatti dei due gruppi gli avvenimenti del ‘900: l’epoca giolittiana che apre il secolo con molte speranze e che naufraga miseramente, la prima guerra mondiale, una carneficina voluta dai potentati del momento, il dibattito sterile fra liberali e socialisti, la terrificante avventura fascista e nazista, guidata da sette segrete e da forze misteriose nelle profonde caverne del male assoluto, persino le vittorie del grande Torino e di Coppi, viste qui alla luce di un volere ultraterreno, e le vicende del bandito Giuliano narrate con dovizia di particolari e con soluzione inedita, fino alle stragi del secondo dopoguerra e all’avvento della democrazia cristiana e delle frodi finanziarie e di quelle ideologiche e di quant’altro è accaduto nel secolo appena trascorso. Il tutto frullato e restituito al lettore spalmandolo in una narrazione chiara, leggibile e godibile, avvincente in molti passaggi, affascinante come un thriller per le interpretazioni proposte, ambigua per i due piani narrativi sui quali si pone, quello reale e quello irreale, e soprattutto sorprendente per la vasta conoscenza di fatti, persone, documenti, libri, idee e ragioni che vengono citati, interrogati e interpretati secondo un criterio del tutto personale.

    Certamente non si potrà dar conto, qui, delle innumerevoli ‘storie’ passate in rassegna ma non c’è avvenimento di una certa importanza del novecento che non sia stato considerato e analizzato.

    Di grande interesse è anche la struttura stessa del romanzo, variamente intrecciata su diversi piani cronotopici, poiché il tempo e lo spazio regolano non solo gli eventi della storia reale ma anche quelli della fantasia.

    C’è innanzitutto il motivo del viaggio che fa pensare a quello dantesco nei regni ultraterreni¸ solo che qui si visita solo l’inferno e del paradiso se ne dà una descrizione utopica e futuribile. La necessità del viaggio è la stessa; è voluta da Dio nella Commedia dantesca: Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare» (Inf. c. III), e da entità supreme nel caso degli ospiti della villa: «Ciò che facciamo è stato stabilito sin dall’inizio del tempo in un luogo inaccessibile dell’universo da entità che a voi non è dato di conoscere» (cap. X). È la necessità che deriva dalla conoscenza e dall’amore, fini per cui l’uomo è stato creato.

    Le modalità del viaggio sono invece differenti e relative ai protagonisti dei fatti narrati. Il gruppo dei dodici del ‘900 (chiameremo così il primo gruppo, quello della realtà) s’incamminerà su strade che non conosce, quelle del futuro, e metterà a dura prova le convinzioni e i propositi dei componenti; il loro Virgilio è don Angelo Castronovo, che pare conosca le motivazioni più profonde di quella strana avventura. Egli li introduce " nella selva oscura" del salone degli specchi, luogo dove si confondono le personalità e i personaggi che vi entrano, dal quale usciranno per un drammatico percorso di purificazione attraverso i fatti del secolo che stanno per inaugurare.

    Il secondo gruppo, quello del 2000, appartiene al mondo delle immagini, alla visionarietà introdotta dagli ummiti per chiarire ai poveri terrestri le vere cause dei tanti avvenimenti storici che hanno vissuto o conosciuto. Il Virgilio di questo gruppo è Palet, un giovane alieno vissuto fra i terrestri e ora pronto a lasciare la terra non prima di aver consegnato quell’ultimo messaggio. Altra guida, come abbiamo visto, è Walet, l’ummita navigatore dello spazio e del tempo, il vero autore di questo libro, l’inviato di questa strana società aliena che vorrebbe aiutare i terrestri nella loro azione verso il bene.

    Su un piano diverso si pongono almeno altre due entità: una terrestre e malefica, denominata ‘Setta degli Illuminati’ e un’altra celeste e benefica, inaccessibile a tutti, persino agli ummiti, che regola l’intero universo e le vite che in esso si manifestano.

    Su un piano strettamente metafisico si pongono infine le due forze primordiali che si combattono sullo scenario del nostro povero mondo: sono il Bene e il Male ed entrambe hanno un centro reale di irradiamento dal quale si diramano le loro onde energetiche. Il Bene ha la sede principale proprio nella villa di Palagonia mentre il Male ha il suo cuore nientemeno che nella valle dell’Anapo, proprio nelle sue alte e ripide pareti rocciose, bucherellate da una delle più grandi necropoli lasciateci dai popoli antichi: è Pantalica, luogo dei primi abitatori della Sicilia, Sicani e Siculi, ma, come dice l’autore, luogo anche di un precedente popolo di giganti che realizzarono quelle caverne nella parete, a una così considerevole altezza dalla vallata sottostante. Tralascio l’originale spiegazione della costruzione di quelle caverne-tombe, viste come centri di irradiazione delle forze negative, ma mi preme invece sottolineare come la Sicilia venga posta, qui, al centro della storia dell’uomo e di quel possibile riscatto che ne possa derivare.

    La villa del principe di Palagonia è invece un centro positivo ed è stata realizzata proprio per contrastare il centro negativo di Pantalica. La villa ha una forma ellittica, con un giardino che non è un giardino ma un’accozzaglia di piante e di erbe disposte senza un preciso criterio estetico; è arricchita da stranissime sculture di mostri, uno diverso dall’altro, capaci di impressionare e di spaventare il visitatore e tenerlo lontano da quel luogo. Il salone degli specchi è come un buco nero attraverso il quale si giunge in diverse altre dimensioni dello spazio e del tempo e proprio da lì dovrebbe soffiare quel vento del sud che dovrà scuotere le coscienze e le intelligenze di tutti i popoli.

    Questa villa mi fa venire alla mente almeno due altri luoghi simbolo: il castello prigione a forma di chiocciola di Sant’Agata di Militello, descritto così abilmente da Vincenzo Consolo nel suo Il sorriso dell’ignoto marinaio e l’abbazia oscura e tetra de Il nome della rosa di Umberto Eco. Entrambi luoghi di morte e di dolore, simbolo di lotte sociali e di libertà, il primo, e di lotte interiori e intellettuali, il secondo.

    Qui, nella villa, si sviluppa invece una lotta più drammatica e subdola: quella tra il bene e il male e il campo di battaglia è l’intera storia dell’uomo, la posta in gioco è il suo destino e i suoi generali vivono tutti al di fuori di questa scena di guerra.

    I personaggi del romanzo non hanno (e non potrebbero neanche averlo) uno spessore caratteriale e una evoluzione psicologica tipica dei romanzi di ambiente ma si muovono sicuri e ben definiti, con quei tratti tipici di ceti e categorie sociali, come se ognuno di essi rappresentasse non se stesso ma la classe, il ceto, la posizione intellettuale dalla quale proviene. Questa caratteristica funzionale è tipica dei romanzi a tesi, di stampo ideologico e morale, e sarà meglio compresa analizzando gli altri due aspetti che ora valuteremo.

    Il saggio storico

    Come si è già detto, la materia dell’opera è sostanzialmente una lunga riflessione su molte delle vicende che hanno attraversato il novecento italiano, europeo e in parte quello statunitense. La tesi di fondo del romanzo è questa: nulla è accaduto, nella storia dell’uomo, che non sia stato voluto o pilotato da esseri alieni o da congreghe terrestri, capaci di incidere sui fatti storici. Ma mentre i primi, gli alieni, hanno agito positivamente sullo sviluppo dell’umanità, i secondi, le congreghe, hanno invece agito negativamente sui fatti della storia, per un tornaconto privato. I primi rappresentano il bene e i secondi il male. Se l’umanità vuole veramente progredire sulla strada dello sviluppo sociale e culturale, dovrà seguire gli insegnamenti degli alieni e affidarsi alla loro sicura guida. Il riscatto dell’uomo potrà partire dalla Sicilia, anzi «Non passerà questa generazione che dal profondo Sud del Mondo spirerà un nuovo vento, che rinnoverà l’intero pianeta nella visione degli infiniti Universi degli Ummiti», per usare le stesse parole dell’autore-redattore.

    La storia dell’umanità, vista attraverso questa lente trascendente e onnipresente, diventa come un canovaccio dell’opera dei pupi, i quali possono recitare anche a soggetto ma dentro i limiti imposti dal puparo e dalla storia che si narra.

    Facciamo alcuni esempi.

    Il primo riguarda la ripresa di una vecchia teoria secondo la quale la nostra civiltà è fortemente tributaria, per il progresso acquisito, nei confronti degli alieni. Nel cap. V si legge: «Gli Ummiti avevano scoperto, durante le loro ricerche, che altri extraterrestri, molto tempo prima che venissero innalzate le antiche piramidi in Egitto e nell’America centrale e del sud, erano giunti sul pianeta per indirizzare la nascente civiltà sulla Terra e così affrettare l’ingresso dei suoi abitanti nella confederazione intergalattica. Si nominavano Kurkiti […] I terrestri li avevano scambiati per dei e da loro avevano appreso le prime nozioni sulla coltivazione e cura dei campi, di astronomia, di matematica e di conservazione dei corpi. Erano giunti sulla Terra 15.000 anni prima della nascita di Cristo e avevano preso contatti con le popolazioni a quel tempo più progredite che abitavano un grosso continente posto fra l’Europa, l’Asia e le due Americhe, che i posteri avrebbero chiamato Atlantide».

    Su questa teoria ci sono molte perplessità e molti studi sono stati fatti per decifrare simboli egiziani che potrebbero rimandare a disegni di extraterrestri e di dischi volanti; la costruzione stessa delle piramidi è stata spostata a diecimila anni prima di Cristo, ipotizzando l’aiuto degli alieni. Sono teorie ampiamente confutate ma che suscitano ancora grande interesse. Il secondo esempio ci porta direttamente nel cuore di una visione del mondo che potremmo definire ‘complottista’.

    Nel cap. XXII Palet, la guida ummita, spiega agli ospiti della villa Palagonia, come si è sviluppato l’attuale ordine mondiale e come i grandi eventi del secolo e gli uomini che li hanno generati siano stati scelti e manovrati da una setta segreta, chiamata ‘Ordine degli Illuminati’, sorta nel 1776, per opera di Jean Adam Weishaupt, con l’intento di «…distruggere un mondo fondato sulle ingiustizie sociali, per poi riorganizzarlo. […] Gli Illuminati gradualmente assunsero il controllo di tutti gli Ordini più importanti sino a creare una rete illuminizzata di società segrete.

    [ … ] Quest’Ordine, oggi, […] opera maggiormente negli Stati Uniti, ma si va sempre più infiltrando in Europa. Esso è una vera e propria rete satanica. […] I simboli di questo pericoloso Ordine sono inspiegabilmente impressi nella banconota del dollaro USA, stampato nel 1933 su ordine del Presidente Roosevelt, massone del 32° grado.»

    Quest’Ordine satanico, che intanto si è organizzato in Società di cooperazione economica internazionale (SCEI), con sede europea a Ginevra, si materializza di volta in volta nella sala degli specchi sotto forma di un gruppetto di sette figure incappucciate e spiegherà agli increduli ospiti della villa come abbia agito, con coercizioni ed omicidi, sui destini degli stati e degli uomini. Mussolini, Hitler, la Seconda Guerra mondiale, gli assassini di Kennedy e di Martin Luter King e tantissimi altri avvenimenti mondiali sono stati da loro guidati e compiuti, per «…conseguire in tutto il mondo il controllo assoluto del libero mercato, le cui regole dovevano essere disciplinate ed imposte solamente da essa (SCEI). Gli statisti dei vari paesi, anche di quelli più potenti, erano dei pupi nelle loro mani.» (Cap. XXXIV).

    Questo potentissimo Ordine viene evocato spesso nei libri esoterici e misterici e ancora più spesso nei romanzi di fantasia ‘complottista’ come quelli di Dan Brown, in cui anche l’intera storia dell’uomo appare sempre manipolata da società segrete e varie sette, dai Cavalieri Templari ai Massoni, dai Rosacroce agli Illuminati. Su questi ultimi si sa poco ma pare che siano veramente esistiti; non è, invece, seriamente creduto da nessuno che abbiano avuto una tale influenza sui destini del mondo.

    Un altro esempio ci viene dato dalla ricostruzione minuziosa della strage di Ustica (27 giugno 1980) che occupa l’intero cap. XXXVII, in cui viene analizzato lo scenario internazionale (i rapporti problematici fra Stati Uniti, Italia e Libia) che fece da sfondo e da motivazione all’incidente che provocò l’abbattimento e la caduta nel mare di Ustica dell’aeromobile Itavia che viaggiava sulla rotta Bologna-Palermo, con 81 persone a bordo.

    Questa strage viene ascritta ai potentati americani e all’insipienza italiana: «Le lobby di potere economico e politico avevano deciso di mascherare tutto per la tutela dei loro interessi, ritenuti superiori anche alla pietà umana.». E queste lobby si trovavano in Italia e in America. Tuttavia, il disastro è avvenuto per uno sconsiderato errore del pilota di un aereo libico militare che volava proprio sotto l’aereo civile e che alla vista di altri due caccia americani, ebbe paura e tentò di scappare, provocando invece una forte pressione d’aria che causò il cedimento strutturale dell’aereo. Gli italiani depistarono le indagini e non ebbero il coraggio di denunciare gli alleati americani.

    È una tesi che è circolata più volte nei giornali italiani ma la dinamica dell’incidente, che io sappia, mi pare nuova e abbastanza verosimile.

    Come si vede, ogni capitolo di questo romanzo evoca una storia, un personaggio, una riflessione politica e culturale e non sono poche le belle pagine in cui si sviscera un argomento complesso con chiarezza di narrazione e padronanza di contenuto: dalla teoria della relatività alla nascita dell’universo, dalla questione meridionale alle ideologie di destra e di sinistra, dall’illusionismo storico a quello artistico fino alla chiusura del secolo XX. Tutto si presenta alla sbigottita attenzione del lettore come filtrato da una lente deformante, che spiega i fatti alla luce di una volontà esterna e non alla luce di quella dinamica dei processi reali che determinano le vicende umane. Processi che appartengono totalmente all’uomo e alla sua natura instabile, che si sviluppano nello scenario naturale dell’evoluzione umana e in quella della natura dentro la quale viviamo, che si confrontano con le scoperte tecnologiche e scientifiche e si temperano con i dettami etici e religiosi di ogni civiltà.

    Tuttavia come si può dare del tutto torto a certe considerazioni esposte dall’autore? Come si può negare che una vera democrazia non esiste da nessuna parte e che invece c’è una oligarchia di poche persone che scelgono per noi cosa fare e come farlo? Come si può non condividere la tesi di Walet l’Ummita quando ci esorta al bene e all’amore universale per raggiungere la perfezione dell’anima nella dimensione degli infiniti universi che si legano fra di loro come un gomitolo di strade spazio-temporali che portano all’essenza di Xama, il Dio Unico e Primo?

    L’opera apologetica

    L’impianto del romanzo è scopertamente apologetico. Intende cioè propugnare una ‘fede’ a discapito delle fedi esistenti nel pianeta, con particolare riferimento alle religioni monoteistiche.

    Gli interventi degli ummiti Palet e Walet, in tal senso, sono costanti e frequenti e si sviluppano per l’intero romanzo, ma anche don Angelo Castronovo, il proprietario della villa, che abbiamo già definito come una delle guide di quest’avventura fantastica, conosce già i segreti della nuova fede, e li espone ampiamente nel cap. XXX: «Fin da quando ho acquistato questa villa, ero al corrente che un’energia, di origine misteriosa, la pervadeva. Non credevo però che da essa potesse avviarsi la rigenerazione dell’umanità. Sì, amici cari, ospiti del vecchio e del nuovo secolo, dopo questo viaggio nel tempo, che rafforzerà le nostre convinzioni in un supremo ordine morale e intergalattico, superando le attuali divisioni che hanno originato guerre e devastazioni, diverremo gli apostoli di una nuova religione e di un nuovo modo di concepire la vita dell’uomo sulla Terra. Saremo fratelli e, da testimoni di una nuova fede, giunta alla quarta alba dell’uomo, il messaggio che essa non può scomparire, inghiottita dalla sua stessa violenza e distruzione, ma deve spiccare un salto prodigioso verso la sua meta più ambita: la completa emancipazione di ogni essere umano, che, finalmente libero da condizionamenti e sovrastrutture, potrà aspirare a viaggiare per le stelle ed abitare altri pianeti. Si sarà così creato l’homo galacticus, erede degli homo abilis, erectus e sapiens, via via costruitosi per raggiungere la conformazione fisica e mentale ideale per attraversare agevolmente gli spazi interstellari.».

    Poco dopo viene indicato il messaggio che dovrà essere annunciato agli uomini: «Siate fratelli e figli di un solo Dio, Xama, creatore dell’Universo, i cui templi sono il mare, la terra le stelle. Egli, dall’inizio del tempo, opera contro la divisione degli uomini, voluta da Thuser, presenza oscura e malvagia, portatore di violenza, intolleranza e fanatismo.».

    Non si può dar conto qui dell’affascinante teogonia di Xama e delle sue effusioni cosmiche Xipron e Zarel, divinità benefiche, e di Thuser, dio del male, per le quali rimandiamo alla stimolante lettura del cap. XXXI, ma mi pare che, nella loro essenza teologica, queste divinità non siano così lontane dal dio Unico e trino dei cristiani e Xama presenta tutte le caratteristiche del Jahvè ebraico e dell’Allah musulmano.

    Inoltre un ‘sapore’ di tipo pitagorico si espande per tutte le pagine di questa straordinaria opera che riconduce la religione ummita alla dimensione unitaria del tutto, attraverso fasi di preparazione e di iniziazione di singoli adepti, per poi diventare apostoli e testimoni della nuova fede. Xama ci appare come l’entità pitagorica originaria, l’Uno e Primo, che ha generato il tutto cosmico e le sue innumerevoli manifestazioni e che in esso andranno di nuovo a confluire, alla fine dei tempi, per ricominciare una nuova espansione, nell’interminabile sequenza delle morti e delle rinascite.

    Le galassie, i pianeti e i loro abitanti – si dice in quest’opera – sono teleologicamente orientati verso questo fine e noi terrestri siamo chiamati alla nobiltà di questo progetto che unirà nel seno di Xama tutte le genti intergalattiche.

    Ma per realizzare questo progetto bisogna prima spazzare via tutte le altre nefaste religioni, in particolare quella cattolica, asservita al potere e alla gloria, al denaro e alla cupidigia, lontana dall’originale annuncio evangelico e ormai incoerente con i suoi stessi principi. Inoltre la Chiesa, come istituzione mondana, ha operato quasi sempre contro i poveri e i diseredati, contro i lavoratori delle fabbriche e i contadini, egemonizzando il potere temporale, la cultura e l’arte.

    Anche in questo caso la storia è vista attraverso una lente deformante e certamente non si può ridurre l’immagine della chiesa a un simulacro vuoto e formale, se non addirittura a un verminaio, non più capace di farsi autentico messaggio d’amore e di santità. Lo sforzo di emancipazione dal potere e di pulizia morale che sta compiendo la chiesa in questi due ultimi secoli non possono essere sottaciuti e anche nei cosiddetti secoli bui non sono mai mancati gli esempi virtuosi dell’eroismo cristiano in tutti i continenti.

    C’è poi un altro aspetto che appare inquietante nella costruzione planetaria delle società intelligenti, voluta dagli ummiti. A Ummo, il pianeta degli ummiti, dopo secoli di lotte e di guerre così come avviene sulla terra, si è instaurato un sistema politico efficiente e ordinato, capace di assicurare una buona stabilità sociale ed economica, basata sulla solidarietà individuale e collettiva, sulla buona amministrazione della cosa pubblica e sulla ricerca della perfezione spirituale. Per realizzare tutto ciò vige un complicato sistema di selezione elettorale, sia per i votanti che per i candidati. Gli organi istituzionali sono quelli tipici delle democrazie: il governo, il Gran Consiglo della Federazione Ummita, il Massimo Consiglio della Magistratura Ummita, ecc. Tutto tende a formare una società perfetta basata sull’uniformità e sull’uguaglianza, in quanto «Xama ha sempre voluto un solo popolo e una sola religione perché il suo fine era quello di far sì che il viaggio degli uomini lontano da Lui durasse il meno possibile, per ricostituire l’unità in un ciclo in cui il Creatore si diversifica per realizzare le sue opere, e il creato non rimane immobile e passivo, ma agisce dinamicamente e fruttuosamente per facilitare la ricongiunzione con Lui.»

    Questa democrazia intergalattica mi pare impossibile da raggiungere in tempi ‘umani’; potrà forse instaurarsi in un lontano futuro poiché le civiltà che popolano i mondi abitati, se ce ne sono, si trovano, con molta probabilità su diversi stadi di maturità sociale e scientifica e si dovrà attendere il progresso di tutti per realizzare l’utopia ummita. Certo intanto si dovrà lavorare per questo scopo e gli ummiti, come si evince dal romanzo, lo stanno facendo. È dunque un’apologia sostanzialmente religiosa e morale, prima ancora che politica, che in qualche modo ci guida verso una teocrazia in cui l’Uomo-Re è investito dalle due funzioni complementari, quella temporale e quella religiosa. Si vogliono rendere felici gli uomini, attraverso questo complicato meccanismo di maturazione e di perfezione, ma, come diceva Salvemini, - ricordato dallo stesso autore – «Chi vuol rendere felici gli uomini, è sempre pronto ad ammazzarli.» (Cap. XVI).

    Che tipo di libro è, dunque, mai questo? Perché è stato scritto citando innumerevoli esempi che possano sostenere tesi così originali e, in qualche caso, anche rivoluzionarie? Quale funzione hanno veramente i personaggi che vi si incontrano, terrestri e non? E infine, perché ci inquieta tanto la lettura di questo libro?

    Vediamo di rispondere brevemente a queste quattro domande

    1 - Inquadriamolo pure, questo libro, nell’ampia categoria dei romanzi, di genere storico fantascientifico, perché l’architettura di base è prettamente romanzesca. Da ciò discendono alcune considerazioni: a) che non bisogna cercare altre spiegazioni, motivazioni ed elucubrazioni varie che siano al di fuori dell’opera; quindi le interpretazioni di eventi e l’analisi dei vari personaggi presentati rimangono nell’ambito dell’opera e non possono essere prese in modo autonomo ed estrapolate dal contesto dell’opera stessa; b) storia e fantasia sono fortemente compenetrate; il fatto storico fa riferimento sempre alla realtà e alle varie fonti storiche e giornalistiche dell’epoca in cui sono avvenuti i fatti, così come avviene anche per le citazioni e l’esposizione di pensieri dei vari personaggi, tutte riconducibili ai testi originali e ad altre fonti documentarie; c) i personaggi rappresentano ‘tipi’ e funzioni prestabiliti, illustrano le opinioni delle categorie sociali di provenienza (tranne naturalmente qualcuno) ed essendo spesso anche manovrati da altri, non si possono colpevolizzare in modo assoluto.

    2 - Perché è stato scritto? L’autore, del quale io stesso al momento in cui scrivo queste note non conosco l’identità, mi è stato presentato in una nota biografica come un artista a tutto tondo: musicista, poeta e scrittore nonché un alto funzionario dello Stato. In effetti da queste pagine traspare una profonda cultura umanistica e scientifica e, pertanto, se una persona di tale spessore si sia avventurata in questa scrittura allora avrà avuto il suo preciso intendimento. Io credo che ci sia, come motivazione di fondo, una forte tensione etica e un graduale impulso di trasformazione di questa nostra bislacca società; una tensione che alberga nei cuori dei poeti e dei giusti, di coloro che non abbiano abdicato al loro ruolo di esseri intelligenti e capaci di ascendere alle vette dell’Assoluto. Sembrano discorsi fuori del tempo, ma in questo caso mi paiono abbastanza pertinenti. Le tesi esposte sono parziali e personali, ma questo è il destino di tutte le esposizioni, soprattutto di quelle romanzate, e ciò non inficia minimamente l’afflato purificatore che anima queste pagine.

    3 - Quale funzione hanno i personaggi? A parte la tipizzazione dei personaggi, come è stato detto, appare evidente anche la loro simbologia: gli ospiti della villa sono dodici e dodici, i primi appartengono al futuro rispetto ai fatti narrati e i secondi al passato. Questi ultimi sono i novelli apostoli ai quali viene affidato il messaggio degli ummiti per la nuova evangelizzazione del mondo. Simbolicamente rappresentano il mondo e i loro nomi rimandano a personaggi reali: Balthasar, Pomariov, Faust, Che, Federico, Ghaddafi, ecc. Infine tre sono le presenze ummite nella sala degli specchi, Sulfet, Walet e Palet; tre sono le divinità buone che si identificano nell’Uno, Xama; sette sono gli incappucciati dell’Ordine degli Illuminati che sovrintendono ai destini del mondo in modo malefico. Come si può ben intuire questi numeri (uno, tre, sette, dodici) rimandano all’Uno ebraico e islamico, alla trinità cristiana, ai sette peccati capitali del catechismo cattolico, e alla svariata simbologia dei numeri che è molto presente in ogni religione. I personaggi hanno quindi una funzione simbolica e illuminante nell’ambito dell’apologia di una nuova fede cosmica.

    4 - Perché ci inquieta la lettura di questo libro? Semplicemente perché potrebbe essere vero o probabile, potrebbe essere che i fatti narrati siano accaduti così come l’autore li descrive e che l’attuale sistema mondiale sia retto da uomini senza scrupoli e da gruppi di potere che manovrano tutto per il loro tornaconto, senza scomodare sette segrete. Ci inquieta perché nell’animo umano c’è questa tensione verso una possibile redenzione e non sappiamo come arrivarci e come perseguirla. L’unità di tutti i popoli, di tutte le lingue, di tutte le religioni e di tutti i sistemi socio-politici ci affascina e nello stesso tempo ci inquieta e ci spaventa. Queste uniformità appartengono alla storia più tragica del genere umano, all’appiattimento più bruto che si possa immaginare, a tutte le dittature, dove sotto l’egida del potere di uno vivono coercitivamente i molti. È l’utopia di Platone, di sant’Agostino, di Tommaso Moro e dei tanti filosofi illusi di poter costruire un mondo artificiale buono per tutti. Noi apparteniamo alla terra e al peccato e le religioni che regolano le nostre azioni e la nostra morale ben lo sanno e proprio su queste debolezze hanno edificato le loro teologie. Ci bastano già i loro paradisi!

    Ma il romanzo ha un merito indiscutibile: quello di farci riflettere ed elaborare un nostro pensiero sui destini della Terra. Ha un carattere escatologico ed esoterico che affascina, come difficilmente si trova nella narrativa di oggi, ed ha, sostanzialmente, l’impianto di un gioco, con le sue regole e le sue visioni, ma un gioco maledettamente serio e complicato dove la posta in palio è la felicità dell’uomo.

    ​Introduzione

    Antonio Pappalardo

    Quella sera del 6 febbraio 2000, mi trovavo a fare la consueta passeggiata dopo cena con mia moglie, lungo la strada sterrata che corre a mezza costa intorno al monte Terra, con alla sommità, appollaiato come un nido di aquila, il paesino di Civitella di Licenza, in cui sono raccolte piccole case con pochi abitanti, quasi tutti vecchi e rassegnati.

    La luna piena, dalla cima del Pellecchia, su cui si erge una croce di legno bruciata da una folgore, rischiarava il sentiero, rendendo il passo sicuro e agile.

    Mia moglie, ammaliata dall’asprezza della natura, non aveva alcun timore a trovarsi in un luogo così selvaggio e solitario e camminava leggera e celere su uno dei due solchi, tracciati dalle ruote dei carri, che col tempo avevano creato un rigonfiamento centrale, pieno di erba e di sassi. Annusava intensamente l’aria fresca che saliva dal fondo della valle, in cui scorre incassato il torrente Maricella, allegro e rumoroso.

    Io, con il naso all’insù, cercavo di riconoscere nel cielo limpido e trasparente le stelle e le loro convenzionali formazioni, che lauti guadagni fanno ottenere agli astrologi in danno di creduloni e sprovveduti. Talora ne nominavo qualcuna, indispettendo la mia compagna, che della volta celeste voleva solo godere lo scintillio misterioso, interpretandone la classificazione come una vera e propria profanazione.

    D’un tratto un calpestio, che non poteva essere di un animale perché cadenzato, indusse entrambi a volgere lo sguardo in direzione del nostro cammino dinanzi a noi, ad una distanza di circa cinquanta metri, si era profilata la figura di un uomo, molto alto, con un impermeabile scuro, lungo fino ai piedi.

    Mia moglie si aggrappò istintivamente al mio braccio e per un tempo indefinito restammo fermi ad osservarlo, incerti se voltare le spalle e tornare indietro oppure se proseguire per vedere in faccia quell’uomo che si era avventurato per una strada, che nessuno a quell’ora era solito percorrere.

    Nonostante la distanza, non avemmo la sensazione che fosse animato da cattivi propositi.

    Mentre eravamo immersi in questi pensieri, non ci rendemmo conto che quell’uomo, seppure lentamente, si era avvicinato.

    Quando fu più d’appresso, lo guardai in tutta la figura aveva un cappello a larghe falde, calcato sugli occhi, e un fazzoletto chiaro intorno al collo.

    Accortosi che chi mi stava a fianco era una donna, si tolse prontamente il copricapo e salutò con molta galanteria.

    L’atto di cortesia ci tranquillizzò.

    Il viso era chiaro e le mani sottili e allungate, quasi femminee, erano tenute vicine al corpo.

    Disse di essere un alieno – rilevò il termine divertito – provenendo da un altro pianeta, chiamato Ummo, distante quattordici anni luce dalla Terra.

    Si nominò Walet, che nella sua lingua – disse – significa il viaggiatore.

    Non aggiunse altro trasse da sotto l’impermeabile un voluminoso incarto, che pose con dolcezza nelle mani di mia moglie. Riferì che vi era narrata una storia, che avremmo trovato interessante. Desiderava che vi mettessi mano per darle una veste più ordinata e corretta, conoscendo egli poco la lingua italiana.

    Gli chiesi perché si fosse rivolto proprio a me, oscuro scrittore di romanzi a tempo perso.

    Mi rispose Perché quelli noti e famosi scrivono solo ciò che fa piacere al potere. E poi c’è qualcosa che la riguarda.

    Non mi fu possibile porre altre domande perché l’alieno volse le spalle e si allontanò frettolosamente.

    Non tentai di seguirlo; capii che sarebbe stato inutile, perché ormai mi era stato detto tutto quello che dovevo sapere.

    Scomparve dietro il costone della montagna e, da quella sera, non lo vidi più.

    Giunto a casa, aprii il volume. Mi colpì subito il fatto che alcune parole fossero in dialetto siciliano.

    Trascorsi tutta la notte a leggerlo.

    In quel brogliaccio erano narrati fatti e avvenimenti accaduti a dodici persone nella villa del Principe di Palagonia, a Bagheria, in provincia di Palermo, in appena dieci giorni, fra l’uno e il dieci gennaio del duemila.

    Il misterioso personaggio mi aveva, quindi, consegnato il documento ventisette giorni dopo la conclusione della fantastica avventura vissuta da quelle persone.

    Quando il sole spuntò, facendo capolino dalla montagna di fronte, mi trovai con la testa appoggiata su quelle carte. Mia moglie si era già alzata e stava preparando la colazione. Le chiesi che cosa pensasse di quello che ci era accaduto la sera prima. Ma lei non ricordò nulla, né dell’incontro con l’alieno, né del documento che mi aveva consegnato.

    Il mio cane – Wapiti von Steingarten, un bassotto sale e pepe, a pelo ruvido, tedesco di nobile casato, che chiamavamo più semplicemente Bazi, in dialetto bavarese monello, e lo era e tanto – che mi dormiva ai piedi, si diresse barcollando verso la porta, che raschiò con la zampa, per invitarmi ad aprirgliela. Così faceva tutte le volte che voleva fare i suoi bisogni oppure allontanare qualche gatto dispettoso che scorrazzava – lui chiuso in casa – per il giardino, suo esclusivo territorio di caccia.

    Mi alzai e adempii al mio dovere mattutino.

    Il vento, insolitamente caldo come quello delle terre del Sud, entrò d’improvviso impetuoso e sparse il racconto di Walet in ogni angolo della stanza.

    Mi trovai inconsapevolmente a parlare con Lui Ti sei forse pentito di avermi consegnato la tua storia? Ormai è tardi. Essa mi è entrata nel sangue e fa parte di me.

    Tornai alla scrivania e, mentre il cane abbaiava contro i gatti o forse avverso entità invisibili che solo lui percepiva, cominciai a riordinare le cose narrate da Walet, nella speranza che un giorno venissero conosciute dall’intera umanità, soprattutto da quella che vive ai margini della civiltà, nella fame e nella disperazione, in cerca di riscatto.

    Le parole dell’Ummita mi avevano affascinato perché, come quelle di Cristo, sapevano di vita eterna.

    CAPITOLO I

    La cena del 31 dicembre 1899

    In cui si narra della cena preparata nella villa Palagonia di Bagheria, per gli ospiti di Don Angelo Castronovo. Era il 31 dicembre 1899. Stava chiudendosi un secolo che aveva visto nascere e morire l’illusione di una società, rinnovata da un senso di maggiore solidarietà fra i popoli e le categorie sociali.

    Prestu, spirugghiati, ca ‘i patruni sunnu assittati.

    Il vecchio cameriere, basso e panciuto, stretto in un frac bisunto e con un papillon bianco, ingiallito per il lungo uso e penosamente pendente da un lato, arrancava con affanno su per le scale insieme ad un giovane cafone che con passo leggero portava un cestino di vimini, avvolto in una mappina bianca annodata a croce, con all’interno – guarnito da foglie di alloro – un cucciddatu, a forma di ciambella, il cui impasto di fichi secchi e pezzetti di mandorle mandava un profumo tale da invogliare a dargli un morso.

    A chist’ura spunti, cu tutta da bedda gienti ca sta aspittannu na sala ra pranzu.

    Me patri, chiamatu ri cursa da vussignuria, appi a scappari notti tempu ra cummari Rosa – c’avi i manu r’oru quannu cucina – a pigghiari stu cucciddatu. È beddu friscu e manna un ciauru ca t’allarga i naschi e ‘u cori. Quannu si mancia si squagghia ‘n mucca.

    E pi pigghiari ‘u cucciddatu ri cummari Rosa, to patri persi tuttu stu tempu! ‘Na vota eranu nirbati a cu sgarrava e a genti coma a tia curreva cu li carcagni a lu culu quannu viniva cumannata. Ora, cu stu novu guvernu ca voli dari libirtà a tutti, nun ci si capisci chiu nenti.

    Il vecchio cameriere arrivò in cima alle scale ansimante; lasciò scivolare fra i denti una mezza bestemmia e, quasi esalando l’ultimo respiro, proseguì

    Ma ricu iu propriu stasira a patruna smaniò comu na fimmina china! ‘A tavula era bedda apparicchiata. Tuttu scinneva lisciu comu l’ogghiu e idda si susi e voli ‘u cucciddatu, e giustu giustu chiddu ra cummari Rosa, c’avi a casa ‘mezz’a campagna, runni persi ‘i scarpi nostru Signuri. Don Anciulu, quannu so mugghieri apra a vucca, subitu si cala ‘i cavusi. Ne’ jorni cumannati – rissi idda – un po’ mancari ‘u cucciddatu chi ficu, ch’è signu r’abbundanza e ri bon’agguriu. Un tempu eranu nirbati puru pi fimmini nobili, ca stavanu sempri agnuni.

    I due giunsero dietro ad una grande porta dalla quale provenivano voci e risate.

    Rammi ca. Ci pensu iu a purtarlu rintra. ‘Un c’è bisognu ri cunsarlu. Accussì è beni cumminatu.

    Il cameriere aprì lentamente il portone. L’intensa luce delle candele di un lampadario, le cui fiamme guizzavano allegramente, lo investì insieme alla vocina tremula di donna Agata, la padrona di casa

    "Ecco il nostro caro Peppino. Sapevo che non mi avresti delusa. Facci viriri stu beddu cucciddatu. Leva ‘u pannu e mettilo a tavola e fallo gustare ai nostri ospiti. Mi raccomando una fettina a testa, sorrise ché è poco e deve bastare per tutti".

    Peppino posò il cesto al centro del tavolo e uscì con la testa bassa, rinculando sino a quando non urtò con il fondo schiena contro uno dei battenti della porta. Accennò ad un sorriso, mentre furtivamente si massaggiava la parte dolorante. Ma nessuno degli invitati gli prestò attenzione, che era invece tutta rivolta al buccellato che ebbe vita breve. Appena il cameriere chiuse rispettosamente la porta, i notabili del paese – che con l’unità d’Italia avevano sostituito principi e baruni, ancora nostalgicamente legati alla vecchia monarchia borbonica – a uno a uno, allungarono le mani, stando attenti a non urtarsi. In poco tempo fecero rimanere nel cesto solo le foglie di alloro e il profumo del dolce.

    Don Angelo Castronovo, divertito da questa scena, girò con orgoglio gli occhi per la sala, dove era stata preparata la cena, della villa Palagonia di Bagheria, cittadina che preannuncia Palermo ai visitatori che giungono via terra dal continente. Era stato sindaco per qualche tempo di questo piccolo centro agricolo, famoso per i suoi profumati e succosi agrumi. Tale era l’abbondanza del prodotto che nei mercati, a chi acquistava almeno un chilo di arance, venivano regalati mandarini e limoni, ritenuti di minor pregio.

    Chi si dovesse svegliare di soprassalto nella piana di Bagheria, mentre la carrozza procede lentamente verso Palermo, potrebbe scambiare la montagna, che la domina, per il monte Pellegrino, nelle cui grotte riposa Santa Rosalia, venerata patrona dei palermitani, poiché ne è, seppure in scala ridotta, una quasi identica copia.

    Da Bagheria il visitatore non vede il monte della Santa, perché nascosto proprio dal colle Catalfano. Superata, però, l’ultima erta salita, d’improvviso si apre davanti ai suoi occhi la visione della Conca d’oro, con i suoi pomi color arancio che luccicano al tramonto nell’intenso verde scuro delle foglie. In fondo, a chiudere la piccola pianura, si alza Monte Pellegrino, che, con la sua maestosa sagoma a forma di nave, si spinge verso il mare fino a sprofondare nell’azzurro cangiante in verde turchese.

    Don Angelo aveva acquistato nel 1862, insieme ai fratelli Luigi e Francesco, la villa da un ente di beneficenza, che nel 1854 l’aveva ricevuta in dono dal Principe di Palagonia. Adesso ammirava, compiaciuto, le pareti della biblioteca, trasformata in sala da pranzo, dove si trovava riunito a cena con i suoi ospiti.

    Il momento era gioioso. Non poteva essere in alcun modo velato di malinconia. Era l’ultimo giorno dell’anno e di un anno del tutto particolare. Stava chiudendosi un secolo, il diciannovesimo, che aveva visto nascere e morire l’illusione di una società, rinnovata da un senso di maggiore solidarietà fra i popoli e le categorie sociali.

    Herr Hofmann, consigliere presso il Consolato tedesco a Palermo, che stava seduto dirimpetto a don Angelo, provò, prima che scoccasse la mezzanotte, un senso di disagio nel trovarsi lì, lontano dalla sua patria, nel profondo sud a trascorrere gli ultimi minuti dell’‘800. Forse c’era arrivato spinto dall’oscuro desiderio di rintanarsi in quella villa di Bagheria, popolata di mostri in pietra – dove già di giorno corrono brividi per la schiena a guardarli – a disprezzo del mondo che si muoveva inesorabilmente verso mete, a lui non gradite.

    Ma, quella notte, la voleva passare in modo insolito e la villa dei Principi di Palagonia si prestava magnificamente allo scopo.

    E perché avere paura? Don Angelo e tutti gli amici che si erano raccolti intorno a lui non si professavano spiriti liberi e indipendenti? D’altronde, avevano scelto proprio quella sera e quella villa per discutere dei problemi che assillavano l’Europa, l’Italia, ma soprattutto la Sicilia.

    Ognuno era immerso nei propri pensieri e, mentre si aspettava che il solito Peppino portasse il caffè, addolcito con anice, nel salone era cessato il chiacchierio e le dame avevano smesso di ondeggiare con le loro teste imparruccate, distribuendo falsi sorrisi ora a destra, ora a sinistra.

    Come quelle dame imbellettate si comportano i politici italiani che o per vanagloria oppure per fare soldi si muovono sfrontatamente in ogni area, possibilmente in quella vincente, pensò Odoacre, gradito ospite dei banchetti nella villa Palagonia, perché aveva la rara dote di prendere tutto con filosofia, senza mai eccedere. E proprio per questo piaceva, perché sapeva dire la verità, anche quella che fa male. Aveva stile.

    Quanto sono volgari e miserabili quegli uomini che si scagliano contro il potere senza faccia né nome, che attaccano solo per compiacere o per eccitare le masse stupide e appecoronate – pensava!

    Fin da ragazzo aveva preso gusto a ironizzare sul suo nome, impostogli dal padre amante della storia germanica e di quel re teutonico che aveva seppellito il glorioso impero romano, ormai ridotto ad un simulacro. Diceva che Odoacre aveva avuto il coraggio di chiudere un’era, trascinatasi penosamente per almeno duecento anni. Lui, come quel re poco amante dei compromessi, si era rifiutato di partecipare alle libagioni e godurie dei liberali che, dopo aver unificato l’Italia con l’aiuto della massoneria inglese, avevano fatto credere che dal Nord si potesse importare in Sicilia una nuova cultura di maggiori garanzie per i cittadini.

    State attenti, andava ripetendo "i settentrionali sono venuti solo a sottometterci, altro che unità d’Italia! Ve ne accorgerete. Ci sfrutteranno come coloni e, quando avranno finito di spremerci, ci butteranno via come limoni ai quali hanno sucato la polpa".

    Ma non fu Odoacre ad aprire la discussione, che quegli uomini accendevano abitualmente quando si riunivano una volta al mese a villa Palagonia.

    Prese la parola Enrico il poeta, il trovatore, come veniva apostrofato. Ben compito, con vestito scuro e cravattino a misura, a prima vista nessuno lo avrebbe preso per un sognatore. Ma lui, figlio del popolo, di aspetto piacevole, ci teneva a fare bella figura nell’alta società.

    Per darsi maggiore contegno, si alzò in piedi e, chiedendo licenza ai padroni di casa, dopo avere assunto un atteggiamento istrionesco, esordì con voce sostenuta

    Il titolo della lirica, che questa notte vi leggerò, è ‘Diu sulu’. Dal testo capirete il perché. Se avrete la compiacenza di ascoltarmi, ve la declamerò.

    In sala si fece silenzio, che fu rotto d’improvviso dal gracidare di un rospo.

    È di certo il primo apprezzamento, che in verità gradisco perché qui, in questa villa, popolata da mostri veri e immaginari, in un rospo potrebbe essersi rifugiata l’anima di un poeta o quanto meno di un uomo sensibile.

    Noi in Inghilterra più che i rospi gustiamo le rane, in tutti i sensi e in tutte le salse, ironizzò Nina, moglie di Luigi Castronovo, fratello di don Angelo, che aveva assunto quel nome, pur essendo inglese d’origine, per far piacere al marito, al quale non era riuscita a dare dei figli.

    Ma il rospo, per quanto sgraziato, proseguì Enrico possiede una sua dignità, dimensione sociale e personalità. Non per nulla si dice ‘ingoiare un rospo’, dal fatto che questo animale non si fa facilmente assimilare. E in tempi di asservimento generale, questo è indubbiamente un merito.

    Fu in quel momento, mentre tutti attendevano la risposta di Nina, che dalla stanza degli specchi – separata dal salone da pranzo da un corridoio e da un ampio disimpegno a forma ellittica – giunse cupo il rumore come di un bastone che picchia violentemente il pavimento.

    Ci fu un sobbalzo generale. Don Angelo guardò la moglie, che volse lo sguardo altrove, mentre il capitano Sperandio fece intendere con atteggiamento rassicurante che ogni forma di paura era fuori luogo, tanto c’era lui.

    Ma Enrico non si fece incantare, né dal botto né tanto meno dalle smorfie dell’ufficiale

    Rospo o uomo o chiunque esso sia, non mi fermerò anche se qualcuno – lo leggo nei vostri occhi impertinenti – ha sperato nell’intervento metafisico per sottrarsi alla mia lirica serale.

    Bravo, Enrico, esultò festosa donna Agata vada avanti senza farsi impressionare, e non accetti provocazioni.

    Il trovatore si fece serio, schiarì la voce ed entrò con piglio

    "Quannu u munnu era ruru e cruru

    e u Signuri viveva sulu

    vecchiu, stancu e scunsulatu,

    un aveva nuddu o latu.

    Supra a tierra scantata e scura

    senza acqua e senza mura

    lampi, trona, timpesti e diavuli

    all’urbriscula cafuddiavanu.

    E u Signuri di beddu puntu

    fattisi beni tutti i so cunti

    arrabbiatu isò ‘u vrazzu

    "Lampi, trona vattini a rassu.

    Veni luci, acqua e fuocu.

    E si chistu vi pari pocu

    dda’, in mezzu a chiddu mari,

    mettu un’isula a cantari

    i beddizzi ru criatu".

    E a genti tutta r’un ciatu

    "Sta Sicilia è un barcuni in ciuri,

    tutta uduri, culuri e suli".

    Ma u Signuri ru Mungibeddu

    scutiu a Trinacria pezzu pi pezzu

    "I cristiani ca ci stannu

    hannu sempri a pinsari a tannu,

    quannu sulu minni stavu

    senza Figghiu e Spiritu Santu.

    E s’un hannu nenti ra fari

    ca tristizza hannu a parrari".

    " Bedda, bedda ‘sta poesia, miagolò donna Agata stasera Enrico, forse aiutato dagli spiriti che aleggiano nella villa, si è superato. Che bella scena ha dipinto! Questo Dio così umano, che crea il mondo per non restare solo. Poi che finale! La tristezza che domina i siciliani, che li fa apparire più seri di quello che sono in realtà. È vero noi siamo tendenzialmente tristi e gli stranieri che passano per la nostra terra rimangono colpiti da questo nostro stato d’animo. In un’isola così solare e luminosa vivono uomini chiusi in loro stessi e pessimisti sul futuro proprio e dell’umanità intera".

    Quindi, se non ho mal interpretato, interruppe don Angelo, che mal gradiva l’inserimento delle donne in discorsi poetici e filosofici, che dovevano rimanere appannaggio incontrastato degli uomini in rispetto dell’antica tradizione greca, questa dolce malinconia che ci portiamo dentro ce l’ha regalata Iddio onnipotente per punire il nostro atto di presunzione e di egoismo di voler godere la meravigliosa natura che ci circonda, senza alcun pensiero riconoscente nei suoi confronti.

    Eh sì, intercalò Odoacre, che nascondeva la calvizie, che lo incalzava sulla fronte, portando i capelli in avanti noi siciliani siamo tutta bocca e occhi, ma dentro ci maceriamo giorno dopo giorno. Apparteniamo ad una razza vecchia, ad una civiltà che non ha più nulla da dire e si sente sicura solo nella sua bella terra, come la mafia.

    A questa parola le donne chinarono il capo e gli uomini si guardarono sospettosi.

    Qui, ovviamente, non è entrata la cultura mafiosa, ma di questo parleremo dopo. Mi preme ora sottolineare che noi siciliani abbiamo capito che tanto non cambia nulla e allora è inutile riscaldarsi il sangue. Ecco perché non vogliamo le novità e il progresso ci dà fastidio. Una volta ci abbiamo provato con la guerra dei Vespri, e che cosa abbiamo ottenuto? Ad un re francese tiranno è subentrato uno spagnolo, più sanguisuga del primo e vi prego di non inquietarvi per queste mie parole.

    Odoacre guardò trepidante, aspettando la naturale reazione di Vincenzo Grifeo Statella, ultimo Principe di Palagonia, titolo avuto dai re aragonesi. Quella sera era un semplice ospite perché la bella villa di Bagheria era stata donata da suo zio, Francesco di Paola Gravina, alla sua morte, prima che proprio lui ne ereditasse le fortune.

    Ma il vecchio nobile, con gli occhi gonfi d’acqua dalla cataratta che lasciavano ancora intravedere il colore azzurro dell’iride e l’antica fierezza del suo casato, pur sentendosi punto sul vivo, tacque.

    Odoacre, rinfrancatosi per questo silenzio, proseguì

    La storia è storia! E così una bella e pura lotta di popolo è stata strumentalizzata per agevolare il dominio spagnolo in Italia, così come voleva Santa Madre Chiesa, con tutte le sciagure che poi sono venute.

    Se non sbaglio intervenne Galluzzo, marchese senza più terre né fortuna, che apparentemente condizionato dal nome si muoveva stendendo il collo, già di per sé lungo, e aggrottando le ciglia qui in biblioteca c’è un libro scritto da un nostro conterraneo, Michele Amari, proprio su questa storia disgraziata, che si intitola ‘La guerra del Vespro siciliano’ mi piacerebbe leggervi qualche passo.

    Calma, calma amici intervenne don Angelo che, di media statura, era tarchiato e con i tratti arabi nel volto che incutevano rispetto, stasera ci siamo riuniti per parlare delle sventure, che ci sono piovute addosso dopo l’unificazione dell’Italia e l’argomento dei Vespri potrebbe essere un buon punto di partenza per le nostre discussioni. Mentre le donne, sorrise maliziosamente si accomoderanno in salotto per parlare più distesamente senza la nostra ingombrante presenza, noi ci sposteremo in biblioteca. Chissà se fra quei vecchi scaffali non riusciremo a trovare la giusta concentrazione per convincerci che ormai è venuto il tempo di muoverci per difendere la nostra cultura e la nostra identità siciliana!

    Non si fecero ripetere l’invito e si alzarono contemporaneamente tutti in piedi, anche perché lo stare troppo seduti li aveva prostrati.

    Un momento, signori, Peppino era nel frattempo rientrato in sala. Fra un’ora dobbiamo brindare al nuovo anno e penso che vorrete festeggiare tutti insieme.

    No, quest’anno proprio no, decise don Angelo Noi uomini vogliamo stare da soli quando scocca la mezzanotte e le nostre signore dovranno consentircelo. Nessuna si offenda, ma questa notte è veramente speciale.

    Odoacre, guardando rassegnato Enrico, disse sottovoce

    Si poteva fare un’eccezione. La bella Francoise, da poco tempo con noi, venuta da Parigi per studiare la storia dei Normanni in Sicilia, si sarebbe trovata più a suo agio in biblioteca, che scarsamente illuminata ci avrebbe fatto sognare qualche improbabile licenza.

    Tu e le tue manie esclamò donna Angela, rivolta risentita al marito. Quando puoi, ci cacci via. Per te ci sono luoghi e momenti in cui noi dobbiamo scomparire. Quand’è che la donna in Sicilia farà una rivolta, magari in un altro vespro. Questi uomini ci opprimono talmente che ci inducono a ritenerci addirittura dannose. Non ci permettono nemmeno di entrare nelle cantine perché, secondo loro, con i nostri umori e odori, potremmo rovinare la bontà del vino! È veramente inconcepibile.

    Ma quella sera la padrona di casa aveva voglia di parlare con la cognata Nina e la sua bella ospite francese, per cui, senza più nulla aggiungere, le prese entrambe sottobraccio e si diresse verso il salotto, seguita dalle altre donne.

    Ma dalla stanza degli specchi giunse ancora più forte il colpo del bastone.

    Ma che c’è lì dentro?, domandò don Angelo, che di notte aveva sempre evitato di entrarci. Peppino, vacci a dare un’occhiata.

    Ma, signor Sindaco, in quella sala c’è solo roba vecchia, accatastata e impolverata. Di sicuro un topo avrà fatto cadere qualcosa a terra.

    Topi e rospi, sorrise Herr Hofmann iniziamo bene il nuovo secolo. D’altronde non mi aspetto nulla di buono.

    Odoacre, quand’ebbe visto che le donne si erano allontanate, disse con aria sostenuta

    Avete ascoltato la poesia di Enrico, molto seria e adatta al nostro ambiente, che ancora insegue falsi miti e leggende, ormai di altri tempi. Il popolo, invece, giocoso, da che mondo è mondo, si diverte con niente, quando può e il potere glielo consente. E allora vengono fuori componimenti scherzosi e talora troppo licenziosi. Ma siccome la sua anima è genuina, quello che racconta suscita riso e compiacenza.

    Gli invitati si guardarono perplessi perché non capivano a cosa mirasse. Ed egli, avendo capito di aver colto nel segno, procurandosi quell’attenzione che voleva, proseguì deciso

    Voglio anch’io leggervi una poesia che qualche giorno fa ho appuntato in un biglietto.

    Cavò di tasca un biglietto sgualcito e lesse rapidamente, con un groppo alla gola

    " ’A triuoffa

    si divide in se’ pa’ti

    tiesta, chicchiriddu e giru ‘i chianu,

    truncuni, raricuni e pilusiera.

    A triunfissa,

    ch’è so mugghieri,

    anch’essa in se’ pa’ti si divide

    pilusiera, buo’du e suttubuo’du,

    grilliettu, pi’tusu e paraddisu,

    Sì, cari amici, perché quando si entra lì dentro è un vero paradiso".

    Tutti scoppiarono a ridere. Qualcuno chiese di copiare la lirica, per leggerla magari di nascosto all’amante e, perché no, anche alla moglie.

    Il giudice Fortuna, segaligno con le gote incavate che lasciavano immaginare il pronunciamento di terribili sentenze, si aggiustò i piccoli occhiali sul naso e disse con una punta di compassione Ma dove le va’ a trovare Odoacre queste cose? In quali buchi di Palermo si avventura? Non vorrei leggere qualche giorno una cronaca nera che lo riguardi.

    Rispose prontamente Odoacre, che non accettava di essere commiserato Anche Federico II, da piccolo, girava per le strade di Palermo e così ha avuto la grande opportunità di formare la sua anima arabo-normanna, di impadronirsi di quella cultura popolare che gli è poi servita per governare con saggezza e, precorrendo i tempi, da illuminista. Sarebbe opportuno che anche voi, che volete il bene del popolo siciliano, vi faceste qualche passeggiata nei luoghi dove esso vive e soffre.

    Don Angelo si alzò anch’egli in piedi e questo fu il segnale che nella sala da pranzo la conversazione ormai era terminata.

    Gli invitati si spostarono lentamente verso la biblioteca, e, lì giunti, Odoacre aprì la porta, subito cedendo il passo a don Angelo, che si fece sentire

    Peppino, porta i candelabri, non vedi che qui dentro è buio!

    Signori, non era previsto che vi riunivate in biblioteca, per cui non ho fatto accendere il fuoco e la sala è fredda.

    Ciò non ci impedirà questa notte di entrarci.

    Il corteo silenziosamente seguì don Angelo che varcò per primo la porta.

    La sala, posta al primo piano della villa, cominciò a rivivere sotto la luce.

    CAPITOLO II

    Misteri della vita

    In cui Don Angelo invita gli ospiti ad abbandonare la lucida razionalità e a seguirlo in un viaggio di cui nemmeno lui conosce il tragitto e la meta.

    Intorno al lungo tavolo, a forma ovale, si disposero gli invitati, che rimasero rispettosamente in piedi, in attesa che si sedesse il padrone di casa.

    Don Angelo si avvicinò alla sedia, che aveva lo schienale più alto e imponente rispetto alle altre, avendo sulla sommità un’aquila grifagna, i cui artigli ghermivano la cornice. Da quella posizione, nella convessità più breve dell’ovale rivolta verso la parete protetta, distribuì i posti il Principe Grifeo Statella subito alla sua destra, il marchese Galluzzo a sinistra. Quindi, a scendere, Herr Hofmann, l’avvocato Brancaccio, il medico Guttuso, il capitano Sperandio – dell’esercito piemontese, ci teneva a sottolineare in ogni momento don Angelo – il magistrato Fortuna, il deputato al Parlamento nazionale Sateriale, il banchiere Sallustrio e in fondo Odoacre e Enrico. Che si trovarono così di fronte al padrone di casa non casualmente, perché erano stati là sistemati appositamente per consentire a don Angelo di controllare, con il loro aiuto, ogni movimento o gesto dei suoi ospiti.

    Siamo in dodici, commentò il banchiere, e non poteva rilevarlo che lui.

    Speriamo di rimanere tutti insieme sino alla fine.

    Speriamo soprattutto che nessuno esca dalla biblioteca anzitempo e ci lasci, come fece Giuda, per ordire tradimenti, ironizzò Odoacre, facendo sorridere Enrico.

    Ma qui non siamo in Palestina, dove anche i tradimenti vengono giustificati quando è in gioco la salvezza del popolo eletto considerò in modo sarcastico l’avvocato, tenendo la testa bassa. In Sicilia, grazie al cielo, non si dà tempo ai traditori di impiccarsi. Si evita loro questo fastidio facendoli ritrovare a parenti e amici con un limone in bocca.

    Don Angelo, conoscendo la suscettibilità dei suoi ospiti, capendo che sull’argomento si sarebbe potuta aprire una lunga e astiosa discussione, subito si sedette, non dando così la possibilità ad alcuno di replicare. Tutti lo imitarono e presero posto in silenzio.

    Quando si fu ben accomodato, fulminò Peppino

    A mezzanotte, meno qualche minuto, porta dentro lo spumante. Adesso vai e cerca di fare in modo che nessuno ci disturbi.

    S’aggiustò la cravatta, si guardò intorno per sincerarsi che tutto fosse in ordine e che ogni cosa fosse al

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