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Bestie, uomini e dei
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E-book297 pagine4 ore

Bestie, uomini e dei

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Info su questo ebook

Uno dei più noti pubblicisti americani, Albert Shaw della Review of Reviews, avendo letto il manoscritto della Parte I di questo libro battezzò l'Autore “il Robinson Crosuè del secolo ventesimo”. C'è, in tale giudizio, riassunta la caratteristica più attraente dell'opera, e anche la più pericolosa; giacché le vicende commoventi e terribili ch'essa racconta sembrano alle volte troppo strepitosamente colorite per esser vere e — alcune — nemmeno verosimili ai nostri giorni. Voglio perciò fin da adesso assicurare al lettore che il dott. Ossendovski è un uomo di varia e molteplice esperienza, uno scrittore e uno scienziato avvezzo all'osservazione: questo dovrebbe bastare a garantire l'attendibilità e l'esattezza di ciò che scrive. Soltanto gli avvenimenti straordinari di questa nuova epoca straordinaria potevano gettare una persona di tale ingegno e di tale cultura nell'ambiente primitivo dell’“Uomo delle caverne”, dandoci così questo libro unico, fatto di avventure personali e di grande mistero umano, pervaso dalle grandi forze politiche e religiose che battono nel “cuore dell'Asia”.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2019
ISBN9788834107089
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    Anteprima del libro

    Bestie, uomini e dei - Ferdinand Ossendowski

    PALEN.

    PREFAZIONE

    A questa breve nota esplicativa del Palen facciamo seguire alcune notizie sull'autore, togliendole dall'introduzione che lo stesso collaboratore premette alla traduzione francese del Renard.

    L'Ossendovski seguì dal 1899 al 1900 i corsi alla Sorbona e lavorò nei gabinetti di fisica e chimica col Trost e col Bouty. Affermatosi ben presto come competente sulla questione delle miniere di carbone del Pacifico dallo Stretto di Behring alla Corea, conosce anche molte delle miniere d'oro siberiane. Durante la guerra russo-giapponese era alto commissario dei combustibili agli ordini di Kuropatkine. Nella Grande Guerra fu inviato in missione speciale per ricerche minerarie in Mongolia e vi apprese la lingua del paese.

    Fu per anni consigliere tecnico del conte Witte, quando questi era membro del Consiglio di Stato, per gli affari industriali. I suoi lavori scientifici gli valsero poi la cattedra di chimica industriale e quella di geografia commerciale all'Istituto Politecnico di Pietrogrado.

    Fece parte del Comitato russo delle miniere d'oro e di platino; più tardi diresse la rivista Oro e Platino. Noto come giornalista e come scrittore in polacco e in russo, ha pubblicato quindici volumi destinati al gran pubblico, e numerosi studi scientifici.

    Nel 1914 era consigliere tecnico al Consiglio superiore di Marina. Dopo la Rivoluzione divenne professore all'Istituto Politecnico di Omsk, chiamatovi dal Kolciak, che gli volle anche dare una carica al Ministero delle Finanze e dell'Agricoltura nel Governo Siberiano. Fu appunto la caduta di questo che lo obbligò alla fuga per le foreste del Jenissei e per la Mongolia che ci racconta in questo libro.

    C'è un ciapitolo nella vita dell'Ossendovski —dice il Palen — che sembra in contraddizione con le sue opinioni dichiarate, mentre non è. Verso la fine del 1905 presiedette al governo rivoluzionario dell'Estremo Oriente che aveva sede a Kharbine. Amaramente deluso, come tanti altri, dall'attitudine dello Zar che ripudiava i termini del suo manifesto dell'Ottobre 1905, F. Ossendovski accettò di porsi alla testa del movimento separatista che voleva staccare la Siberia orientale dal resto della Russia, e lo diresse per due mesi. Fallita la rivoluzione del 1905, anche il movimento dell'Estremo Oriente falli. Nel gennaio 1906 F. Ossendovski fu arrestato con molti altri: avvertito in tempo, poteva mettersi in salvo; preferì dividere la sorte dei compagni. Condannato a morte, commutatagli la pena in due anni di prigionia per l'intervento del conte Witte, fu rinchiuso in varie prigioni siberiane, e alla fine in quella di Pietro e Paolo a Pietroburgo. Fu graziato nel settembre 1907.

    Al tempo della conferenza di Washington F. Ossendovski era addetto all'ambasciata polacca di Parigi come consulente tecnico per l'Estremo Oriente. Pubblicò poco dopo: l'Asia, l'Europa e i Soviet. Attualmente è professore alla Scuola di Guerra e all'Università Commerciale di Varsavia.

    Attraenti ma pericolose trova il Palen nell'opera che presentiamo ai lettori italiani le tinte forti e le avventure che hanno del fantastico, e a cui si deve l'enorme successo (parecchie centinaia di migliaia di copie nelle sole edizioni in inglese). Appunti più precisi, su qualche dato di fatto specifico, gli sono stati mossi da geografi. (Fra i nomi degli accusatori figura quello, autorevolissimo, di Sven Hedin). Non va dimenticato, ad ogni modo, che il libro è nato da note prese durante le fortunose vicende della fuga; è possibile che nella redazione definitiva non abbia voluto, con rettifiche forse non sempre facili, togliergli nulla del suo valore di documento vivo ed umano.

    Non è qui il luogo di discutere la questione. Ma non è chi non veda come da questo all'accusa di ciurmeria che gli è stata mossa, ci corre. E non possiamo non ricordare qui il Milione del nostro Marco Polo, al quale questo libro fu paragonato giustamente. A lungo fu ritenuto opera in gran parte di fantasia; tuttora c'è chi domanda, per esempio, come mai Marco Polo non parla della Gran Muraglia cinese, che pure dovette passare. Eppure la critica moderna è sempre più concorde nel riconoscere all'opera del Veneziano un grandissirno, fondamentale, valore documentario.

    PARTE PRIMA - A PARI E DISPARI

    Ci sono tempi, uomini ed avvenimenti sui quali la storia sola può scrivere un giudizio,definitivo; i contemporanei e gli osservatori isolati debbono solo raccontare ciò che hanno veduto e udito. La verità stessa lo esige.

    Tiro Livio.

    CAPITOLO I. - NELLE FORESTE

    Al principio del 1920 mi trovavo nella città di Krasnoiarsk in Siberia, sulle rive del Jenissei, if nobile fiume che dalle montagne mongoliche bagnate di sole ove ha la sua culla discende a portare il calore della vita nel Mar Glaciale. Alla sua foce venne due volte Nansen per cercar di aprire una via più comoda al commercio fra l'Europa e il cuore dell'Asia. Là, nel silenzio profondo dell'inverno siberiano mi sorprese d'un tratto l'uragano di pazzia furiosa che si scatenava in tutta la Russia e seminava anche in quel paese ricco e tranquillo vendetta, odio, sangue e delitti che la legge non riesce a punire. Nessuno era sicuro che non fosse giunta l'ora sua. La gente viveva alla giornata: usciva di casa e non sapeva se ci tornerebbe o se non sarebbe presa per la strada e trascinata nelle prigioni del Comitato Rivoluzionario, parodia al tribunale più terribile di quelli dell'Inquisizione.

    Anche noi, stranieri in quel paese sconvolto, non eravamo al sicuro dalle persecuzioni. Io vissi in mezzo ad esse e ne uscii salvo.

    Una mattina, andato a far visita a un amico, mi avvertirono d'un tratto che venti soldati rossi avevano circondato la mia casa per arrestarmi: bisognava mi mettessi in salvo. Indossai prontamente un vecchio costume da caccia dell'amico, presi con me un pò di denaro e scappai in fretta, a piedi, per certe vie secondarie della città. Raggiunta la strada maestra potei noleggiare un veicolo guidato da un contadino che in quattro ore mi trasportò a più di trenta chilometri dalla città in mezzo a una regione molto boscosa. Cammin facendo potei comprare un fucile, trecento cartucce, un'accetta, un coltello, un cappotto di pelle di montone, tè, sale, biscotti e una cuccuma. Mi spinsi nel cuore del bosco fino ad una capanna abbandonata e mezza distrutta dal fuoco. Da quel giorno cominciai la vita di un autentico cacciatore di mestiere; ma non credevo davvero di doverla continuare per tanto tempo. La mattina dopo ebbi la fortuna di uccidere due galli di brughiera. Tracce di daini ne trovai pure in abbondanza; mi accertai così che da mangiare non mi sarebbe mancato. Ma il mio soggiorno in quel luogo non durò molto. Al quinto giorno nel tornare da caccia vidi uscire dal fumaiolo della capanna certe volute di fumo. Avanzai furtivo e scorsi due cavalli sellati con fucili da soldato appesi alle selle. Due uomini senz'armi non erano pericolosi per me, ch'ero armato; perciò attraversai rapidamente lo spazio sgombro e mi presentai sulla porta. Due soldati si alzarono dalla panca impauriti. Erano bolscevichi: riconobbi sui berrettoni di astrakan le stelle rosse e i sudici galloni rossi sulle maniche dei camiciotti. Ci salutammo e sedemmo. Avevano preparato il tè: si prese insieme la calda bevanda sempre gradita e si conversò un poco, sempre guardandoci con diffidenza. Per addormentare i sospetti raccontai ch'ero un cacciatore venuto da lontano e mi ero fermato li perché il paese era ricco di martore. Loro mi dissero che facevano parte di un distaccamento mandato nei boschi a dar caccia alle persone sospette.

    Capisci, camerata? mi disse uno dei due; andiamo in cerca di controrivoluzionari per fucilarli.

    La spiegazione era inutile. Feci (pianto potevo per assicurarli col mio contegno che ero un semplice contadino che viveva di caccia e non avevo che far nulla coi controrivoluzionari. E intanto non facevo che pensare: dove andrò quando saranno partiti questi ospiti malvenuti? Cadeva la notte. Allo scuro quei due musi erano anche meno simpatici. Tiraron fuori le bottiglie della vodka e bevvero: l'al-cool cominciò a produrre i suoi effetti a vista d'occhio. Alzavano la voce e si vantavano a gara dei numerosi borghesi ammazzati a Krasnoiarsk, e dei Cosacchi che avevano cacciato sotto il ghiaccio. Litigarono anche un poco, ma si stancarono presto e si disposero a dormire. D'un tratto, senza che prima si udisse il menomo rumore, si spalancò la porta. Dissipatasi la vampata di fumo che usciva dall'ambiente riscaldato apparve come un genio da una nuvola la figura grande ed asciutta di un contadino. Il berrettone di astrakan e il cappottone di pelle lo facevano anche più imponente. Aveva in mano il fucile pronto a far fuoco, alla cintura l'ascia bene affilata, compagna indivisibile del contadino siberiano. Ci guardava l'un dopo l'altro con un paio d'occhi vivi e scintillanti come quelli di una fiera. Tosto si tolse il berretto, si fece il segno della croce e domandò: Chi è il padrone qui?

    Io, risposi.

    Posso passare la notte qui?

    Si, c'è posto per tutti. Il tè è ancora caldo.

    Lo straniero, girando continuamente gli sguardi su di noi e su tutto ciò che lo circondava, si tolse il cappotto e posò il fucile in un canto. Portava un vecchio camiciotto di pelle con pantaloni dello stesso materiale cacciati nei gambali di due stivaloni di feltro. Il volto era giovanile, fino e un po' beffardo. I denti bianchi ed aguzzi scintillavano; gli occhi parevano penetrare tutto ciò che guardavano. Osservai qualche ciocca grigia sulla testa scapigliata. Certe rughe amare ai lati della bocca rivelavano una vita di tempeste e di pericoli. Prese una sedia accanto al suo fucile e si posò l'accetta a terra vicino ai piedi.

    Cos'è quella? tua moglie? gli domandò uno dei due soldati ubriachi indicando l'accetta.

    Il contadino calmo gli rispose, senza batter palpebra sotto le sopracciglia folte:

    S'incontra ogni sorta di gente, ai tempi che corrono. Con questa si sta più tranquilli.

    Cominciò a sorbire avidamente il tè. Più volte i suoi occhi vivaci parvero interrogarmi, e poi esploravano intorno quasi a cercar la risposta. Pacato lento e guardingo rispondeva fra un sorso e l'altro di tè caldo a tutte le domande dei soldati. Quand'ebbe finito capovolse il bicchiere, vi posò sopra una piccola zolla di zucchero che gli era avanzata e disse ai soldati:

    Vado a custodire il mio cavallo. Toglierò la sella anche ai vostri.

    Va bene, rispose sonnolento il più giovane dei due. Portaci anche i fucili.

    I due soldati dormirono sulle panche; noi dovevamo coricarci a terra. Lo straniero tornò coi due fucili e li posò nell'angolo scuro, buttò le selle a terra, vi sedette sopra e cominciò a togliersi gli stivali. Ben presto tutti e tre i miei ospiti russarono; ma io non dormivo, pensando al da fare. All'alba finalmente mi assopii, e mi destai a giorno fatto. Il contadino non c'era più. Fuori della capanna, stava sellando il suo bello stallone baio.

    Te ne vai? gli chiesi.

    Sì; ma voglio far la strada con quei due....camerati; disse a bassa voce; dopo ritorno.

    Non gli feci altre domande; solo gli dissi che l'aspettavo. ataccò dalla sella le bisacce che ne pendevano, le nascose nell'angolo della capanna ch'era bruciato, verificò le staffe e le redini. Quand'ebbe finito disse:

    Pronto. Vado a svegliare i miei camerati .

    Mezz'ora dopo il tè del mattino i miei tre ospiti si congedarono. Io rimasi fuori della porta a spaccar legna pel fuoco. All'improvviso risonò un colpo di fucile lontano. Poi un altro. Poi più nulla. Mi passò sulla testa un volo di galli di brughiera spaventati dalle detonazioni. Una ghiandaia strillò in cima a un pino. Tesi l'orecchio a lungo, se venisse qualcuno. Silenzio.

    Sul basso Jenissei fa notte presto. Preparai il fuoco nella stufa e cominciai a cuocer la minestra; l'orecchio sempre teso a tutti, i rumori di fuori.

    Sentivo bene che la morte era accanto a me ad ogni istante, e poteva cogliermi in tanti modi: uomo, belva, freddo, accidente, malattia. Nessuno c'era che potesse assistermi: ero nelle mani di Dio, e dovevo aiutarmi con le mie, e coi miei piedi anche; con la mira giusta e con la presenza di spirito.

    Ascoltavo, tuttavia. Ma invano. Quando tornò lo straniero non me ne accorsi. Ricomparve sulla soglia all'improvviso come il giorno prima. Attraverso il velo di vapore rividi i suoi occhi sorridenti e il volto fine. Entrò, e andò a posare rumorosamente nel solito cantone tre fucili.

    Due cavalli, due fucili, due selle, due scatole di biscotto, mezzo pacchetto di tè, un sacchettino di sale, cinquanta cartucce, due cappotti, due paia di stivali. Rideva nel far l'elenco. Buona giornata, oggi.

    Io lo guardai a bocca aperta.

    Che c'è da stupire tanto? fece lui ridendo. "Komu nujny eti tovarischi? A chi è utile quella gente lì? Prendiamo il tè e dormiamo.

    Domani ti condurrò in un posto più sicuro e ti la-scierò là".

    CAPITOLO II - IL SEGRETO DEL MIO COMPAGNO DI VIAGGIO

    All'alba lasciammo il mio primo rifugio, con le nostre robe nelle bisacce attaccate ad una delle selle.

    Abbiamo da quattro a cinquecento verste da fare. annunziò con molta calma il compagno, che si chiamava Ivan: un nome che non mi diceva nulla né  alla mente né  al cuore, perché là un uomo su due si chiama così.

    E' lunga, dunque, dissi io malcontento.

    Una settimana al più. Forse anche meno, mi rispose.

    Quella notte la passammo nei boschi, sotto i grandi rami distesi degli abeti. Per me era la prima notte che dormivo a ciel sereno. Quante altre dovevo passarne così, in un anno e mezzo di vagabondaggio! Di giorno il freddo era assai pungente. Sotto i piedi dei cavalli la neve gelata strideva, si induriva intorno agli zoccoli in pallottole, che rotolavano poi sulla crosta bianca con un rumore di vetro che si screpola. I galli volavano stanchi dagli alberi; le lepri discendevano senza fretta giù pei letti dei torrenti estivi. A notte cominciò il vento a gemere e a fischiare piegando le cime degli alberi sopra le nostre teste: in basso regnava la calma e il silenzio. Facemmo alt in un burrone fra grossi alberi. Lì trovammo certi abeti caduti, li tagliammo, accendemmo il fuoco, e fatto il tè pranzammo.

    Ivan prese due tronchi, li spianò da un lato con l'accetta, fece combaciare le facce spianate e poi alle estremità ficcò fra esse due cunei che le allontanavano di otto o dieci centimetri. Nella fessura ponemmo dei tizzoni in fiamme: il fuoco prese rapidamente le due facce spianate per tutta la loro lunghezza.

    Così domattina lo troviamo ancora acceso, assicurò. Questa è la naida dei cercatori d'oro. Noi cercatori d'oro viviamo nei boschi estate e inverno e sempre dormiamo accanto alla naida. Magnifico, eh? E poi vedrai tu stesso.

    Tagliò dei rami e ne fece una specie di tetto a un solo spiovente che dispose obliquo davanti alla naida con due puntelli. Sopra il tetto e sopra il fuoco stendeva i suoi rami protettori un grosso abete. Portammo altri rami e li spargemmo sotto il riparo. Vi posammo le gualdrappe delle selle, formando cosi un seggio sul quale Ivan sedette e si tolse il Cappotto. Ben presto ebbe la fronte e il collo imperlati di sudore, e se lo asciugava con le maniche.

    Qua si sta ben caldi! esclamò.

    In breve dovetti togliermi anch'io il cappotto e tosto mi coricai per dormire senza nulla che facesse da coperta, mentre attraverso i rami degli abeti si vedeva il gelido scintillio delle stelle, e appena fuori della naida faceva un freddo pungente contro il quale noi ci trovavamo comodamente riparati. Dopo quella notte non ebbi più paura del freddo. Di giorno a cavallo, gelavo; la notte invece ero ben riscaldato grazie a quell'ingegnosa naida che mi permetteva di deporre quel grave cappottone e rimanermene in semplice camiciotto sotto il tetto di Pini e d'abeti a sorseggiare il tè sempre gradito.

    Durante le nostre tappe giornaliere Ivan mi raccontò un poco le vicende della sua vita vagabonda per le montagne e i boschi della Transbaicalia in cerca d'oro. Erano avventure molto movimentate e interessanti, di pericoli e di lotte. Ivan era il tipo di quei cercatori d'oro ai quali si deve in Russia, e forse in altri paesi, la scoperta delle miniere più ricche; mentre loro restano poveri. Egli evitò di raccontarmi perché aveva lasciato la Transbaicalia per venire sul Jenissei. Compresi dalla sua maniera di esprimersi che intendeva tenere per sè il suo segreto, e non insistei per conoscerlo. Tuttavia un giorno avvenne per puro caso che il velo che nascondeva quella parte della sua vita si sollevò un pochino. Eravamo già quasi al termine del viaggio. Tutta la giornata avevamo avanzato faticosamente per una fitta boscaglia di salici verso la sponda del grande affluente di destra del Jenissei, la Mana. Da ogni parte erano sentieri coperti di peste fitte delle lepri che abbondavano nella boscaglia. Le vedevamo correre que e là davanti a noi. Un'altra volta vedemmo la coda rossastra di una volpe appiattata dietro un masso a tener d'occhio contemporaneamente noi e le lepri.

    Da qualche tempo Ivan non apriva bocca. Alfine parlò e mi disse che non lungi di là passava un piccolo affluente della Maria, e al confluente c'era una capanna.

    Che dici? Arriviamo fin là o passiamo la notte accanto alla naida?

    Io consigliai d'andare fino alla capanna, perché volevo lavarmi e perché sarebbe stato piacevole passar la notte sotto un vero tetto. Ivan aggrottò le ciglia ma accettò.

    Faceva già scuro quando giungemmo. La capanna era circondata dal bosco fitto e da cespugli di lampone selvatico. All'interno non conteneva che una piccola camera con due finestre microscopiche e una enorme stufa russa. Al muro esterno si appoggiavano le rovine di una tettoia e di una cantina. Accendemmo la stufa e preparammo la modesta cena. Ivan cominciò a bere dalla bottiglia ereditata dai soldati e in breve diventò molto loquace; gli occhi gli brillavano; non faceva che accarezzarsi rapidamente la lunga capigliatura. Cominciò a raccontarmi la storia di un episodio della sua vita; ma d'un tratto s'interruppe e guardò con gli occhi spaventati e distorti un angolo oscuro.

    E' un topo? domandò.

    Io non vedo niente, risposi.

    Tacque -di nuovo, accigliato e meditabondo. Tante volte ci accadeva di rimaner muti ambedue per ore intere; perciò non me ne stupii. Ivan si chinò verso di me e cominciò a parlarmi a basa voce.

    Voglio dirti un fatto di molto tempo fa. Io avevo un amico in Transbaicalia. Era un galeotto esiliato. Si chiamava Gavronski. Vagammo insieme per molte foreste e molte montagne in cerca d'oro, col patto che si sarebbe diviso in parti uguali ciò che si trovava. Ma un giorno improvvisamente Gavronski si recò nella Taiga sul Jenissei e non lo vidi più. Cinque anni dopo si seppe che 'aveva trovato una miniera molto ricca e si era arricchito. Più tardi si sparse la voce che lui e sua moglie erano morti assassinati....

    S'interruppe un momento, e poi riprese: Questa era la loro capanna. Qui abitava lui con la moglie. Da queste parti, sul fiume, trovava l'oro. Ma dov'era non lo diceva a nessuno. Tutti i contadini di qui sanno che aveva molto denaro alla banca e che aveva venduto dell'oro al Governo, Qui furono assassinati, lui e la moglie,

    Ivan andò davanti alla stufa, prese un tizzone ardente e si chinò a illuminare un punto a terra.

    "Le vedi, queste macchie, e queste altre sul muro? E' il sangue loro, il sangue dei Gavronski. Morirono, ma non dissero dove si trovava l'oro. Fu tirato fuori da un buco profondo che avevano scava-

    to sulla sponda e che era nascosto dalla cantina sotto la tettoia. Ma Gavronski non confessò nulla... Dio quanto li ho torturati/ Li ho bruciati, ho torto loro le dita, ho cavato loro gli occhi, ma Gavronski morì senza aver detto niente".

    Pensò un momento poi si affrettò a dirmi:

    Tutte queste cose me le hanno raccontate i contadini.

    Buttò nella stufa il tizzone acceso e si lasciò cadere sulla panca. E' ora di dormire, fece secco secco, e non disse altro.

    Ascoltai a lungo il suo respiro interrotto da parole che brontolava a se stesso nel voltarsi e rivoltarsi sul fianco fumando la pipa.

    La mattina dopo lasciammo quella scena di tanta miseria e di tanta crudeltà; giungemmo alfine, dopo sette giorni di viaggio, ad una folta foresta di cedri ai piedi di una lunga catena montuosa.

    Di qui, mi avverti Ivan, al gruppo di case più vicino sono ottanta verste. I contadini vengono qui

    a coglier noci di cedro solo nell'autunno. Fino allora non vedrai nessuno. Troverai anche molti uccelli e animali, e noci in abbondanza: per cui ci potrai vivere. Vedi questo fiume? Quando vorrai vedere i contadini cammina lungo il fiume e li troverai".

    Ivan mi aiutò a costruire la capanna di fango. Ma non era una vera capanna. Era formata dalle radici di un gran cedro strappato dal suolo e abbattuto probabilmente da qualche furioso uragano. Presentavano una cavità profonda della quale feci la camera chiudendola da una parte con un muro di fango rafforzato dalle radici sollevate. Altre radici formarono l'armatura del tetto di bastoni e 1i rami intrecciati, completato da pietre per rafforzarlo e fissarlo e da uno strato di neve come coibente del calore.

    Sul davanti la capanna era sempre aperta, ma sempre protetta dalla fida naiga. In quel buco sotto la neve io passai due mesi di un caldo estivo, senza vedere mai un essere umano e senza alcun rapporto col mondo abitato, in cui frattanto accadevano avvenimenti così importanti. Vivevo si può dire sepolto fra le radici del grande albero, al cospetto della natura; la mia compagnia d'ogni momento erano le difficoltà, i disagi e i pericoli di quell'esistenza, l'ansietà per la vita. Ivan se ne andò due giorni dopo lasciandomi un sacco di biscotto e un po' di zucchero. Non lo rividi mai più.

    CAPITOLO III - LA LOTTA PER LA VITA

    Allora rimasi solo. Intorno a me la foresta sempre verde dei cedri coperti di neve, i cespugli nudi, il fiume gelato e, per quanto potevo spinger lo sguardo fra i rami e i tronchi degli alberi, null'altro che l'immenso mare dei cedri e la neve. Era la taiga siberiana!

    Per quanto tempo dovrò viverci? Mi troveranno i Bolscevichi? Lo sapranno i miei amici che io son qui? Che ne sarà ora della mia famiglia? Queste domande erano come fuochi che m'ardevano continuamente. Ben presto compresi perché Ivan mi aveva condotto così

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