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Francesco Cossiga dalla A alla Z: il vocabolario del sardo che viveva per la politica
Francesco Cossiga dalla A alla Z: il vocabolario del sardo che viveva per la politica
Francesco Cossiga dalla A alla Z: il vocabolario del sardo che viveva per la politica
E-book227 pagine3 ore

Francesco Cossiga dalla A alla Z: il vocabolario del sardo che viveva per la politica

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Info su questo ebook

La figura politica di Francesco Cossiga è una delle più complesse e controverse della Repubblica. Raccontare la vicenda umana, i codici di comunicazione, le manie, le amicizie e le guerre di un personaggio che ha saputo attraversare cinquant’anni di storia italiana da vero protagonista, è quasi fare un viaggio sulle montagne russe.
Il vocabolario che scandisce i ventuno capitoli del libro ha la funzione di richiamare alla memoria, analizzandole, alcune delle più importanti prese di posizione pubbliche dell’ex capo dello Stato.
Uno specialista in materia di polemiche e di costruzione di scenari politici, con la passione per il mondo della tecnologia, della teologia, del mondo militare e dei servizi segreti.
Dalla A di “Analfabeta di ritorno” alla Z di “Zombie coi baffi”, si racconta dell’ultimo biennio da esternatore al Quirinale, del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, passando per i rapporti con Berlusconi e D’Alema, la vicenda degli Euromissili, Gladio, i servizi di informazione e i misteri d’Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2015
ISBN9788895226439
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    Anteprima del libro

    Francesco Cossiga dalla A alla Z - Anthony Muroni

    Anthony Muroni

    Francesco Cossiga dalla A alla Z

    Progetto grafico, impaginazione e realizzazione ebook a cura di Èthos Edizioni.

    La versione cartacea di questo libro è stata pubblicata nell'aprile del 2012.

    © 2015 Anthony Muroni per Èthos Edizioni.

    Èthos Edizioni, via Vittorio Emanuele, 17 - 08025 Oliena (Nu)

    www.ethosedizioni.net - email ethoslibri@gmail.com

    ISBN 978-88-95226-43-9

    ISBN: 9788895226439

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Prefazione di Mario Sechi

    Introduzione

    Analfabeta di ritorno

    Brigate Rosse

    Carlo Magno

    D'Alema

    Euromissili

    Felix il gatto

    Gladio

    Hi-tech

    Impeachment

    Libri e letture

    Magistrati

    Nemici di giornata

    Ordine pubblico

    Piccolo Vishinsky

    Quotidiani

    Religione

    Segreti e scheletri

    Turchi di Sardegna

    Ustica

    Volubile a comando

    Zombie coi baffi

    Conclusioni

    La storia

    Bibliografia

    Note biografiche sull'Autore

    Ringraziamenti

    Prefazione di Mario Sechi

    Cossighismo e Cossigheria

    È possibile raccontare Francesco Cossiga in un alfabeto di 21 luoghi, frasi, circostanze, situazioni, incontri, scontri, calembour, fumi, specchi, detti sulfurei e contraddetti biblici.

    È possibile rileggere un personaggio (iper)raccontato ma non ancora scoperto, (stra)citato ma spesso incompreso, (ri)visitato ma quasi mai abitato.

    È possibile, sì lo è, perché ogni generazione offre una sua lettura e se a provarci è un cronista abituato al racconto in presa diretta, al fattaccio duro, crudo, alla realtà scartavetrata in faccia e al presente che si fa e disfa tutto intorno, allora succede che anche il pianeta di Cossiga, che molti credono di aver ben interpretato, conosciuto e finalmente dominato, diventa un altro mondo e un nuovo inizio.

    Anthony Muroni ha affilato le sue armi e respirato a pieni polmoni prima di partire in questa corsa nella terra di mezzo di un personaggio a trazione integrale e distrazione totale. L’Apocalypto del Nostro cronista nella giungla del politico più imprevedibile della storia repubblicana, rispetta in pieno l’effetto da pacco sorpresa, ingrediente tipico del sassarese doc, grazie a una sceneggiatura alfabetica che ci restituisce i topos del Cossighismo e della Cossigheria.

    Il Cossighismo è l’interpretazione puntuale del dettato ideologico e politico di Francesco; la Cossigheria è la polvere pirica che Franziscu accendeva nella sua narrazione.

    Campo lungo, inquadratura dall’alto, rullo di tamburi da Cavalcata sarda, trombe da Sartiglia e sfilata di colori da Sant’Efisio, ciak: Analfabeta di ritorno, Brigate rosse, Carlo Magno, D’Alema, Euromissili, Felix il gatto, Gladio, Hi-tech, Impeachment, Libri e letture, Magistrati, Nemici di giornata, Ordine pubblico, Piccolo Vishinsky, Quotidiani, Religione, Segreti e scheletri, Turchi di Sardegna, Ustica, Volubile a comando, Zombie coi baffi.

    È buona la prima di questa narrazione. Perché ci mostra e dimostra, apre e indica una via colma d’amore e dolore, gioia e penzamentu, il rosario cristiano-pagano del protagonista volontario e involontario di un fantastico carnevale, un tripudio di coriandoli dove la tragedia può mischiarsi al comico e il dramma storico al romanzo d’avventura.

    È la parabola di un personaggio che resta, solo e fiero come un nuraghe, in un mondo di comparse ingiallite, senza carattere. Muroni, con pastorale pazienza, si siede su un sasso e piano piano, lettera dopo lettera, sbuccia e sminuzza questa biografia ciclopica con sa leppa dei nostri nonni e padri.

    Per quelli che fanno il mio mestiere, per quelli che la penna e gli incontri sono la vita, è un flashback di ricordi e situazioni che in quel presente sembravano inestricabili, un’opera in fieri dall’esito incerto, ma che con il tempo assumono forme meno barocche, sempre più chiare, nitide, lineari, scherzi architettonici divenuti razionali, alimentati dallo scarto logico, intuizioni lucidamente e spesso amaramente consapevoli della fragilità del nostro divenire storico.

    Ecco, la storia che emerge e ci sommerge. Nel grigiore dell’oggi, in un coro talmente monocorde da essere incapace persino di produrre uno spleen da discount della politica, manca proprio la sua voce.

    Eppure, se ci penso, se mi fermo a ragionare e non solo a ricordare, scorgo una verità: Cossiga è partito, ma non ci ha mai lasciato.

    Quando non ho più sentito la sua telefonata che faceva il punto e esternava il disappunto, quando improvvisamente è tramontato l’invito, perentorio, a recarmi a casa sua (Mario, via Ennio Quirino Visconti, blindato dei carabinieri!), allora ho capito che aveva deciso di lasciarci tutti qui a continuare la fatica dell’opera incompiuta dell’Italia, per intraprendere il suo ultimo viaggio nella piana immaginaria di Sanluri, una cavalcata solitaria verso il Regno che lui riconosceva sopra tutto e tutti.

    Lo immagino, lassù, sorridere e lanciare uno sguardo amorevole sulla Patria del cuore. Dirige un’orchestra, suona Forza Paris.

    Introduzione

    Scrivere di Francesco Cossiga significa scrivere della storia dell’Italia repubblicana.

    Il protagonista di questo libro, a differenza di Giulio Andreotti e Oscar Luigi Scalfaro, non ha fatto parte, probabilmente solo per ragioni anagrafiche, dell’Assemblea Costituente. Ma è indubbio che, da metà degli anni Cinquanta in poi, abbia rappresentato un fenomeno unico nel panorama politico.

    Ci occupiamo di Cossiga perché era un uomo capace di fare notizia, perché era sardo e incarnava l’alone di mistero che tanto piace ai dietrologi e agli appassionati di complotti. Ce ne occupiamo perché, raccontando la sua storia, possiamo disegnare un affresco attendibile della politica italiana.

    Ce ne occupiamo anche, e forse soprattutto, perché sapeva essere caustico, come piace a noi.

    Analfabeta di ritorno

    Sapete perché vale la pena fare il presidente della Repubblica? Per poter fare, poi, l’ex presidente della Repubblica. C’è da divertirsi un mondo, dovreste provare. Francesco Cossiga amava le iperboli e, quand’era veramente in forma, le declinava scrutando da sotto gli occhiali, portando la mano destra ora alla stanghetta, ora a disegnare un piccolissimo cerchio nell’aria. Sul viso stampava un sorriso beffardo e, autorevolmente, allungava la mano ad afferrare il braccio dell’interlocutore. Quasi a mettere in chiaro, già col linguaggio del corpo, chi dovesse parlare e chi aveva invece il compito di ascoltare, annuire e tramandare.

    L’uomo pubblico Francesco Cossiga è stato molte cose: il sottosegretario alla Difesa che più ha fatto per rafforzare i sistemi di sicurezza dello Stato, lavorando a stretto contatto con gli altri governi della Nato, il più giovane ministro degli Interni, il più giovane Presidente del Consiglio, la più giovane guida del Senato e il più giovane capo dello Stato.

    È innegabile, tuttavia, il fatto che abbia iniziato a diventare veramente popolare quando, negli ultimi due anni del suo settennato, tra il 1990 e il 1992, è diventato il grande esternatore. Qualche giornalista – in maniera efficace – ha avuto la buona idea di dipingerlo con in mano un piccone, intento a demolire le fondamenta di una prima Repubblica che, in verità, stava affondando già di suo e per ragioni molteplici.

    C’erano le inchieste giudiziarie che, all’improvviso, scoprivano il malaffare dentro l’apparato pubblico e quanto inquinato fosse il rapporto tra la politica e il mondo dell’imprenditoria. E poi gli equilibri internazionali che mutavano e portavano al repentino disfacimento del blocco sovietico, e al prendere corpo di un piano di riorganizzazione della finanza internazionale, con una embrionale spinta verso la globalizzazione e l’ipotesi di un mercato europeo che doveva diventare interlocutore unico degli Stati Uniti.

    Per concretizzare quest’ultimo punto occorreva che i governi riprendessero il controllo dei propri conti pubblici, dopo anni di finanza allegra.

    Mentre la classe dirigente politica – quella che aveva guidato la Repubblica per quasi mezzo secolo, senza possibilità di alternanza, in ossequio agli equilibri occidentali – crollava sotto i colpi dei magistrati, si iniziava a parlare di manovre lacrime e sangue.

    La prima sarebbe arrivata nel 1992, con Giuliano Amato al governo, seguito l’anno successivo da Carlo Azeglio Ciampi. Un tecnico preso in prestito dal sistema istituzionalfinanziario-bancario per fare riforme impopolari: corsi e ricorsi della piccola storia d’Italia.

    È in questo pre-contesto che, a cavallo tra il 1990 e il 1991, Cossiga inaugura l’irrituale stagione delle esternazioni che arrivano dal Colle. Dopo cinque anni di silenzi e noiose cerimonie, di rapporti quasi notarili col Parlamento e le altre istituzioni, il presidente improvvisamente entra in rotta di collisione con tutti: il suo partito di provenienza (la Dc) e gli altri che sostengono il governo Andreotti (Pri, Pli e Psdi, ad eccezione del Psi del suo momentaneo alleato Craxi), il Pds di Occhetto e Violante, il nuovo fenomeno leghista di Bossi e Miglio, parte della magistratura, da lui definita militante.

    In realtà, il titolo di questo capitolo è solo esplicativo di una delle molteplici sfaccettature della complicata figura politica e personale di Cossiga. Quanto sapeva essere gentile e ossequioso in privato, l’allora capo dello Stato risultava sgradevole nei momenti di contesa verbale. Quando c’era da combattere, ogni mezzo era buono. E pazienza se l’avversario di turno ne usciva annichilito. L’essere sopra le righe divenne una costante, anche per colpa (o merito) delle reazioni dell’opinione pubblica.

    Il mondo dei moderati – quello che si sentiva alternativo alla galassia dell’ex Pci (appena diventato Pds), lo stesso che si identificherà appena un paio di anni dopo nel progetto berlusconiano – accoglieva quelle esternazioni con entusiasmo. Le assecondava, le aspettava, le incentivava.

    E Cossiga iniziava quasi ad affezionarsi a questo suo personaggio, invero un po’ innaturale per un politico che fino ad allora si era distinto per parlare – soprattutto nelle occasioni pubbliche – più che altro in politichese.

    Lo spirito della cionfra sassarese, respirato in gioventù, sembrava quasi essersi impadronito dell’uomo che tutti speravano di riuscire a intervistare. Quei desideri erano assecondati sempre più spesso, visto che il presidente non disdegnava di uscire dal Quirinale e di concedersi ai capannelli di cronisti che lo aspettavano, alla ricerca di una battuta al vetriolo sulla quale costruire un titolo e un pezzo da 4 mila battute.

    È in questo quadro che il povero Michele Zolla, democristiano di Novara, di stretta fede scalfariana (intesa come devozione al conterraneo e compagno di partito Oscar Luigi Scalfaro, in quegli anni politicamente distante dal presidente Cossiga), allora vicepresidente della Camera, si guadagnò il poco simpatico, ma efficacissimo appellativo di analfabeta di ritorno.

    In quella legislatura, formatasi con le elezioni del 1987, presidente della Camera era Nilde Iotti, a lungo la compagna dello storico leader comunista Palmiro Togliatti. Per capire la portata dei suoi rapporti con Cossiga è sufficiente ricordare un passaggio che dovrebbe essere presente in tutti i manuali di politica che fanno riferimento alla storia della Repubblica. Proprio nel 1987, anno nel quale terminava il secondo governo Craxi e Amintore Fanfani guidava un esecutivo balneare (da aprile a luglio), durante la lunga crisi di governo che anticipa le elezioni che porteranno a Palazzo Chigi il Dc Giovanni Goria, l’allora capo dello Stato decise di affidare un mandato esplorativo proprio alla Iotti.

    A lei chiese di verificare quali fossero i margini di manovra nei due rami del Parlamento, secondo le indicazioni dei partiti. Un lavoro di semplificazione affinché il Quirinale potesse avere tutti gli elementi prima di assumere successive decisioni.

    Due novità in un colpo solo: una donna, per di più comunista, che poteva fregiarsi del titolo di presidente del Consiglio, ancorché incaricato. Un atto perlopiù simbolico, vista la natura istituzionale del mandato. Simbolico ma significativo della mentalità di Cossiga, che ancor prima di diventare esternatore si faceva dissacratore di collaudate consuetudini.

    La sua stima per Nilde Iotti non gli impedì, entrato nella fase-due del suo settennato, di aprire vibranti polemiche anche con lei. Accadde nello stesso giorno in cui si innescò la diatriba con l’allora pressoché sconosciuto Michele Zolla, ribattezzato analfabeta di ritorno.

    Erano i giorni delle polemiche seguite al referendum sulla preferenza unica, promosso – tra gli altri – dal democristiano Mario Segni, dal pidiessino Achille Occhetto e dal repubblicano Oscar Mammì e contro il quale si erano schierati in maniera aperta il socialista Bettino Craxi (che da tempo lavorava, in sostanziale, ma non organico accordo con lo stesso Cossiga, a una riforma in senso presidenziale) e il missino Gianfranco Fini.

    Cossiga si era convinto che una parte della Democrazia Cristiana, in accordo col Pds, volesse interpretare – come poi realmente accadde – il risultato del referendum per varare una nuova legge elettorale maggioritaria. Questo – sempre secondo quanto da lui sostenuto – per perpetuare il dominio della Dc sulla maggioranza (fermando l’ascesa dei socialisti e dei partiti laici) e del Pds sulla minoranza.

    Se ne era convinto così tanto da arrivare a minacciare lo scioglimento delle Camere, in caso di varo di una legge che – a suo avviso – sarebbe stata incostituzionale. E sulla quale avrebbe potuto quindi esercitare il diritto di veto.

    Le dichiarazioni del capo dello Stato avevano – com’era ovvio attendersi – sollevato un putiferio. E il presidente della Camera aveva fissato un dibattito affinché l’Aula potesse esprimersi su quelle valutazioni che – innegabilmente – sapevano di intimidazione. E che, per la prima volta, ponevano il sistema di fronte a un ruolo da protagonista giocato dal Quirinale. Un ruolo, secondo Cossiga, di guida, controllo e indirizzo, che era nelle prerogative assegnate al capo dello Stato dalla Costituzione.

    Per aggiungere ancora un po’ di sale a una pietanza che era già fin troppo saporita, alla vigilia del dibattito in Parlamento Cossiga rese noto il testo di una lettera da lui indirizzata alla presidente della Camera, rilasciando contestualmente una durissima intervista a Il Giornale, diretto da Indro Montanelli: La signora Iotti deve convincersi che il tempo del Cln, il tempo dell’arco costituzionale, quando nulla si poteva fare se non con l'accordo di tutti, maggioranza e comunisti, è finito per sempre. Non mi meraviglierebbe che una parte della Dc si unisse agli ex comunisti nel criticarmi. Ma è mia facoltà sciogliere il Parlamento. Come atto sanzionatorio, per citare un caso. Ma anche sulla base di una valutazione squisitamente politica. Se, per esempio, le Camere leggessero in modo diverso dal mio il senso del referendum: gli elettori che l’altra domenica hanno abrogato le preferenze non chiedono una legge elettorale maggioritaria, come quella a cui pensano una parte della Dc, ad esclusione di Forlani, e il Pds.

    Un’intervista per certi versi esplosiva e da qualcuno definita eversiva, dalla quale arrivava una nuova dose di pesci in faccia presidenziali, riservata anche alla donna che proprio in quei giorni festeggiava i suoi dodici anni alla guida dell’assemblea di Montecitorio.

    La Iotti non replicò. A esporsi era stato il suo vice: Michele Zolla, appunto. Mi auguro che non vi farete influenzare da quell’analfabeta di ritorno che è l'onorevole Zolla – scrisse, allora, Cossiga ai deputati – dico di ritorno perché per tanti anni è stato al fianco di quella degnissima persona che è l’onorevole Scalfaro.

    Con la Dc era ormai guerra aperta, se l’ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita (altro sempiterno rivale del picconatore) arrivò a schierarsi senza esitazioni con Nilde Iotti: È brava, anzi bravissima, e a tutti converrebbe essere bravi come lei. Zolla scelse di non voler replicare: Quando la polemica scende a questi livelli, che dire? Ognuno ha il suo stile, mentre il suo capo-corrente Oscar Luigi Scalfaro (scomparso proprio nelle ore in cui questo libro prende forma), chiamato in causa da Cossiga, sottolineò di non aver bisogno di confermare la totale e motivata stima nei confronti dell’onorevole Zolla.

    Sempre in quell’occasione, Cossiga non risparmiò nemmeno il suo amico Giulio Andreotti, che guidava il suo sesto o settimo governo (c’è di che perdere il conto): al presidente del Consiglio il capo dello Stato ripeté che, in caso di conflitto con Palazzo Chigi sulla decisione di sciogliere le Camere, sarebbe stato il governo a doversi dimettere. Avvertì così Andreotti di stare attento a evitare un contenzioso che, aggravandosi, avrebbe rischiato di trasformarsi in una grave crisi istituzionale.

    Lotta dura, senza paura.

    Francesco Antonio Maurizio Secondo Cossiga era nato a Sassari il 26 luglio del 1928, sotto il segno – infuocato – del Leone. Ed era dunque portatore, sin da quel caldo e lontano giorno, delle caratteristiche proprie di quel particolare segno: generosità e forte istinto paterno. Per avere conferma di quest’ultimo aspetto, tutt’altro che pubblico, bisognerebbe chiedere conferma ad Anna e Peppino Cossiga.

    Sugli altri restano pochi dubbi, quasi che le caratteristiche da assegnare ai Leoni siano state ritagliate su misura attorno a quella figura così discussa eppure così preponderante: si parla di egocentrismo, attitudine ad assumere posizioni di guida, o addirittura di comando, nella società e nella famiglia; del bisogno di essere ammirati e della naturale attrazione per il mondo dello spettacolo, senza scordare l’irascibilità, la sicurezza di sé e il temperamento passionale.

    I nati sotto il segno del Leone dovrebbero essere nemici degli Acquario. Per capire se il presidente sfuggisse o meno a questa regola (che, a onor del vero e fuori dallo scherzo, è naturalmente stocastica) bisogna chiedere a Luca Palamara, segretario dell’Associazione nazionale magistrati, uno degli ultimi bersagli delle invettive dell’irrequieto senatore a vita.

    Nato ai primi di febbraio del 1969 (Acquario verace), il giovane magistrato napoletano passerà alla piccola storia della televisione italiana per essere stato bersaglio di un’aggressione verbale che risultò così violenta

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