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Lo scrigno maledetto (eLit): eLit
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E-book352 pagine4 ore

Lo scrigno maledetto (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Il mistero è nella vita. La chiave è nella musica.



A New York Meer Logan, razionalissima psicologa della memoria, sta facendo i conti con i ricordi di vite precedenti, mentre a Vienna suo padre crede di aver trovato finalmente la chiave del mistero. Meer lo raggiunge, decisa a rivivere il suo passato. Ma la memoria, si sa, può fare brutti scherzi, soprattutto se evocata da un flauto appartenuto all’amata immortale di Beethoven.



Uno scrigno che custodisce il passato e un flauto che dà la chiave per conoscerlo. Una confraternita occulta che indaga i poteri della memoria e una donna forte che affronta il limite del tempo. Un viaggio fra i segreti della cabala e la forza della musica di Beethoven. Un thriller ai confini del mistero, per perdersi nei meandri della memoria.
LinguaItaliano
Data di uscita28 apr 2017
ISBN9788858968772
Lo scrigno maledetto (eLit): eLit
Autore

M. J. Rose

New York Times bestselling author M.J. Rose grew up in New York City exploring the labyrinthine galleries of the Metropolitan Museum and the dark tunnels and lush gardens of Central Park. She is the author of more than a dozen novels, the founder of the first marketing company for authors, AuthorBuzz.com and cofounder of 1001DarkNights.com She lives in Connecticut. Visit her online at MJRose.com. 

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    Anteprima del libro

    Lo scrigno maledetto (eLit) - M. J. Rose

    successivo.

    1

    Le anime debbono tornare all'assoluto da cui sono emerse. Debbono raggiungere la perfezione, di cui racchiudono il germe; e se non hanno sviluppato tale condizione nel corso di una vita, debbono cominciarne un'altra... Fino a quando non avranno raggiunto la condizione che le rende idonee alla riunione con Dio.

    Cabala - Zohar

    Vienna

    Giovedì 24 aprile - ore 17.00

    Sotto una cupola naturale scavata nella pietra calcarea, David Yalom circumnavigava i margini del canyon sotterraneo senza neanche lanciare uno sguardo nel profondo del suo buio crepaccio.

    I suoi cauti passi non lasciavano trapelare la consapevolezza di quanto fosse pericoloso quel salto, nonostante solo qualche minuto prima Hans Wassong, la sua guida, avesse gettato nell'abisso una pietra che non avevano udito toccare il fondo.

    Infine, dopo quattro ore trascorse ad arrampicarsi sulla parete rocciosa e a scarpinare nel buio dedalo di gallerie e canali, guadando fiumi sotterranei, attraversando pozze irte di stalagmiti e laghi d'acqua bollente, David si trovò davanti ciò che erano venuti a cercare.

    In alto alla sua destra, così come l'aveva descritto Wassong, campeggiava un imponente arco scavato nella roccia, una sorta di croce incisa nella pietra simile a un graffito religioso.

    «Allora il luogo di cui mi parlavi esiste davvero» disse David con una risata, un suono amaro non certo dettato dall'ilarità ma da un'atroce sofferenza sepolta nel profondo dell'animo.

    «Te l'avevo detto che potevi fidarti di me.»

    Per comprendersi, i due uomini - il giornalista israeliano e il contrabbandiere austriaco - parlavano in inglese con accenti diversi, ma altrettanto spiccati. «L'intera area fa parte del sito stratificato più vasto» continuò Wassong.

    «Sito stratificato?»

    David cedette alla sua solita e irrefrenabile curiosità, dovuta alla deformazione professionale. Anche se non era sceso sin laggiù in veste di reporter, era impossibile per lui non interrogare il proprio interlocutore, dopo una vita trascorsa a scavare a fondo in ogni possibile storia.

    «Un sito stratificato» disse Wassong sfoggiando la propria cultura, «come dice la parola, si forma grazie alla stratificazione di varie epoche temporali. Un ghetto ebreo sopra una città medievale sopra un'antica città romana. Si dovrebbero radere al suolo tutte le case di Vienna per riportare su una mappa questo mondo sotterraneo di fogne, caverne e catacombe.»

    La volta sopra di loro era imbevuta dai fasci di luce delle lampade alogene fissate nei caschetti che portavano. Per il resto, tutto intorno si estendeva una densa cortina buia e minacciosa, che i loro occhi non riuscivano a penetrare, e in cui i due esploratori erano immersi come in una nebbia gravida di nefasti presagi.

    David e il compagno percorsero gli ultimi metri del ripido pendio che costeggiava il baratro, e finalmente giunsero a destinazione. Wassong, di statura non imponente, passò senza difficoltà sotto il basso arco di pietra, mentre David fu costretto a chinare il capo per seguire la sua guida nella cripta.

    Al rumore dei loro passi, un topo dagli occhi rossi e lampeggianti uscì da un teschio infantile e sfrecciò via, scomparendo in mezzo a una pila di ossa sbiancate dal tempo.

    Il rumore mise in allarme David, che estrasse subito la pistola.

    Wassong tese la mano e gli fece abbassare l'arma.

    «Sei pazzo? Sparando, potresti far venire giù una valanga. Non so a te, ma a me non va l'idea di morire schiacciato, e preferisco essere sepolto dove i miei genitori possano almeno portarmi un fiore.»

    Dalle alcove scavate nelle pareti circostanti, spuntavano decine e decine di scheletri intatti.

    Guardandosi attorno in quel segreto cimitero, David cercò di non sovrapporre ai teschi i lineamenti dei suoi famigliari... invano. I morti divenivano inesorabilmente i suoi morti, uccisi dai crimini dei nemici del suo paese, pronti a tutto per attuare il genocidio degli israeliani, e vittime del fallimento abissale di coloro che erano incaricati di proteggere gli innocenti.

    «Senti che acustica» osservò Wassong, indicando la volta, quasi si potesse vedere la musica filtrarvi da sopra. «È stupefacente che il suono arrivi fin quaggiù, non trovi?»

    Mentre le note aleggiavano nell'aria viziata della cripta, David non udì i virtuosismi dei violini, bensì la sirena di un attacco aereo. Poi si rese conto che la sua era una semplice illusione, dettata da un dolore straziante e mai sopito.

    Avrebbe fatto di tutto per quietare la costante marea di ricordi che lo sferzava, ma era consapevole che senza di essi non avrebbe mai avuto la forza necessaria per mettere in atto il suo piano.

    La memoria funzionava in maniera misteriosa.

    Perché tratteneva alla perfezione determinate situazioni e particolari dettagli, mentre altri che lui avrebbe voluto disperatamente rammentare - come per esempio il profumo dei capelli di sua moglie - sfuggivano sempre?

    «Ci troviamo sotto il più importante auditorium di Vienna» illustrò Wassong, sfilandosi gli occhiali e pulendoli con la sua bandana blu marino. David aveva accennato a quel vezzo nel primo articolo che aveva scritto su di lui. Dopo aver inforcato di nuovo gli occhiali, Wassong indicò la parete settentrionale della caverna, punteggiata da varie cavità.

    «Quest'area è adiacente a un antico pozzo che porta al seminterrato dell'auditorium. La musica viaggia attraverso una serie di grate che facevano parte di un vecchio sistema di riscaldamento.»

    «E tu sei sicuro che questa zona non sia riportata sulle carte?»

    In quel momento si udì una cacofonia di violoncelli, corni, flauti e cembali. Uno strumento dominava sugli altri, quindi un altro e un altro ancora, creando suoni discordi e confusi come le immagini che scaturivano dalla memoria di David.

    Il volto della moglie trasformato in una irriconoscibile maschera di sangue. E il volto di Lisle qualche anno prima, mentre rideva di una delle sue patetiche barzellette in un indolente pomeriggio sulla spiaggia. E poi suo figlio Isaac a cinque anni, che insisteva per portare la bicicletta nel lettino il primo giorno che l'aveva ricevuta in dono. E quindi il moncherino insanguinato al posto del suo piede sinistro. E ancora, e ancora.

    Ma che cosa significava tutto ciò? Quale messaggio intendeva comunicargli la sua mente? Voleva rammentargli che un tempo era stato un uomo felice con una vita piena di significato? O che aveva validi e concreti motivi per portare avanti il suo progetto?

    «La Filarmonica di Vienna sta facendo le prove per il concerto di giovedì prossimo» disse Hans, riscuotendolo dalle sue riflessioni. «Tornando al discorso di prima, dal Medioevo in poi queste caverne furono perlopiù usate come camere di sepoltura, finché nel Settecento non divennero tanto insalubri da indurre l'imperatore Giuseppe II a chiuderle. Nessuno può aver mappato queste tombe, non devi preoccuparti.»

    «Tu dici? Quello non mi pare un manufatto del 1700» ribatté David, indicando un secchio metallico mezzo sepolto in un angolo della grotta.

    Ai tempi in cui era un reporter alle prime armi, aveva imparato che, quando le persone mentivano, erano i dettagli a rivelare la verità.

    «Durante la seconda guerra mondiale» riprese Wassong, «il governo riaprì parte di queste gallerie per utilizzarle come rifugio. Quando gli edifici in superficie furono colpiti dalle bombe, alcune di queste caverne crollarono. Centinaia di persone morirono schiacciate, e questa città sotterranea fu di nuovo abbandonata, perché giudicata insicura. Peccato che, nel caso di qualcuno che conosciamo, quaggiù sia molto più sicuro che non in superficie, non trovi?»

    David ignorò il tono cospiratorio del compagno.

    «Ma esiste qualcuno che conosce questo posto?» gli domandò stringendo gli occhi.

    «In passato, sì. Ma a giudicare dall'assenza di tracce, credo che nessuno venga più qui da almeno un secolo. Su questo puoi fidarti di me, David, e credo sia giunto il momento di pagarmi. Mi pare fosse questo l'accordo. Io ti ho portato fin qui, e adesso tu mi darai ciò che mi spetta.»

    Dieci anni prima, impegnato in un reportage sul traffico illecito delle armi nell'Europa dell'Est, David aveva conosciuto Hans Wassong, che da decenni era ricercato dall'Interpol perché sospettato di rapimento, strage e contrabbando di armi ed esplosivi. Con il tempo i due avevano stretto una sorta di amicizia, e David utilizzava Wassong come informatore.

    Oggi le loro posizioni erano capovolte.

    Questa volta David non sarebbe stato l'autore, bensì il protagonista di un possibile reportage, e Wassong era colui che avrebbe potuto denunciarlo e mandarlo in galera per il resto della sua vita.

    David aprì il suo zaino militare, estrasse la voluminosa busta e la porse a Wassong.

    Questi ne controllò il contenuto, contò la mazzetta di banconote da duecento euro dopodiché, senza una parola, s'infilò la busta nella tasca della giacca.

    «Allora dimmi, quando hai intenzione di preparare la tua festicciola?»

    «Conto di mettere a punto i preparativi per lunedì o martedì» ribatté David, secco.

    «Pensi di tornare quaggiù, allora?» La domanda di Wassong aveva un tono incalzante.

    «Perché me lo chiedi? Hai forse saputo qualcosa di Abdul?» domandò David, allarmato. «Che cosa dicono le tue fonti?»

    «Nulla di certo. Ahmed Abdul è stato visto in Serbia.»

    La Serbia distava cinquecento chilometri da Vienna. Ben più vicina alla capitale austriaca, che non alla Palestina. Era forse una coincidenza?

    Sin dal 1995, David aveva sempre seguito le conferenze annuali dell'ISTA, un'organizzazione antiterroristica che si occupava soprattutto della sicurezza tecnologica mondiale.

    «Lo sai che Ahmed Abdul vuole ancora farti la pelle, vero?» domandò Wassong con aria maliziosa.

    «Certo» rispose David in tono asettico. L'uomo responsabile dell'assassinio di sua moglie e suo figlio aveva giurato di fargliela pagare, e non si sarebbe fermato di fronte a nulla.

    «Credi che Abdul abbia saputo che ti trovi a Vienna per seguire la conferenza dell'ISTA, e stia venendo qui per ucciderti?» gli domandò Wassong senza mezzi termini.

    David non rispose.

    L'orchestra terminò di intonare gli strumenti e si lanciò nella tempestosa e prorompente ouverture della Quinta di Beethoven.

    «Il Fato bussa alla porta» disse Wassong.

    «Scusa?»

    «Un giorno, riferendosi all'ouverture di questa sinfonia, Ludwig van Beethoven disse alla sua segretaria: Il Fato bussa alla porta

    «Continui a sorprendermi, Hans. Trafficante d'armi, cartografo, speleologo e adesso scopro che sei anche esperto di Beethoven... Un autentico prodigio.»

    «È difficile vivere a Vienna senza lasciarsi travolgere dalla passione per la musica classica.»

    Per qualche minuto, mentre i due uomini ascoltavano la sinfonia, le fredde pietre parvero trasformarsi in poltrone di velluto rosso e le pareti rocciose lasciare il posto a ori e stucchi.

    Nella mente di David Yalom, la cripta si tramutò in un'autentica sala da concerto.

    E come al solito, tornarono i ricordi.

    Sua moglie amava in particolar modo la Quinta di Beethoven. Chiudendo gli occhi, David si lasciò cullare da quelle note paradisiache, abbandonandosi alla memoria.

    «Tutto bene?» domandò Wassong, vedendolo assorto nelle sue fantasticherie.

    La musica, intanto, crebbe esponenzialmente e si propagò nelle viscere della terra, raggiungendone il centro.

    David non udì la domanda di Wassong.

    La prossima settimana, rifletteva, quando tutte le persone in sala saranno spazzate via, lasceranno questo mondo sulle ali d'angelo della musica.

    Una morte migliore di altre.

    Prima di andarsene, sua moglie e suo figlio avevano udito solo un'esplosione, nient'altro.

    Risparmiando a Wassong le proprie riflessioni, David assunse un tono più prosaico e domandò: «A quale profondità ci troviamo?».

    «A dodici o tredici metri sotto il pavimento dell'auditorium» ribatté Wassong. «Una profondità troppo elevata perché i radar possano individuarti, nonché il posto ideale per piazzare i tuoi esplosivi. Da' retta a me, David. Per sistemare le cariche il punto perfetto è questo, dove ci troviamo in questo momento. Nulla - né l'edificio, né la gente in sala - sopravvivrà all'attacco. Devi ammetterlo, ti ho portato nel luogo dei tuoi sogni, non credi?»

    New York

    Giovedì 24 aprile - ore 11.00

    Meer Logan scese di corsa i gradini del Museo di Storia Naturale e, prima ancora di giungere sul marciapiede, scrutò Central Park West in cerca di un taxi. Non vedendone neanche uno, decise di percorrere a piedi i sei isolati che la separavano dalla Phoenix Foundation.

    Non avrebbe dovuto acconsentire a lasciare il lavoro a metà mattinata, ma non era mai facile dire di no a Malachai Samuels. Un po' sciamano, un po' terapista, e un po' confessore, anche se non era stato in grado di trovare una risposta ai suoi problemi, l'aveva sempre aiutata nelle notti buie e nei giorni di solitudine, quietando le paure e medicando la tristezza che la tormentava.

    Al telefono Malachai le aveva assicurato che l'incontro non avrebbe richiesto più di un'ora, e a lei non interessava sapere altro. Il ricevimento per la raccolta fondi di quella sera era cruciale per il successo del progetto cui lei stava lavorando: una mostra permanente dedicata all'esplorazione della memoria e delle sue potenzialità. In qualità di curatrice del progetto, aveva troppo da fare per sprecare anche un'ora soltanto in altre attività.

    Ma per Malachai, questo e altro.

    Otto minuti più tardi era seduta nella sala d'attesa della fondazione, ascoltando il ticchettio del vecchio orologio a cucù sul camino di marmo.

    L'orologio sembrava rallentare, quasi fosse pronto a fermarsi e tornare indietro. Una semplice illusione, benché Meer sapesse che, nello studio di Malachai Samuels, il tempo non procedeva come nel resto del mondo.

    «Questa è per te» disse lo studioso di reincarnazione, posando sul tavolo di fronte a lei una logora busta disseminata di francobolli.

    Meer riconobbe la grafia del padre.

    «Ma guarda. Adesso ti diverti a fare il corriere? Mio padre ti ha detto perché mi ha mandato questa busta tramite te?»

    «Così non saresti stata sola quando l'avessi aperta.»

    «Mi tratta sempre come una bambina» ribatté lei con un sorriso rassegnato.

    «Non importa quanti anni hai, lui sarà sempre tuo padre.»

    Il raffinato accento inglese di Malachai conferì alla frase un tono perentorio, quasi fosse stata pronunciata in un tribunale ottocentesco. Del resto, con gli abiti sempre stirati a puntino e i capelli impomatati, pareva un nobile gentiluomo uscito da un quadro d'epoca.

    «Sai di cosa si tratta?» gli domandò indicando la busta.

    «Tuo padre non mi ha illuminato in merito. Temo che per saperlo dovrai ricorrere al metodo classico: aprirla.»

    Meer prese la busta, l'aprì e ne estrasse un foglio di quaderno ingiallito.

    Sul foglio di carta a quadretti campeggiava un disegno infantile colorato con i pastelli a cera.

    I contorni non erano rifiniti, e gli angoli non erano perfetti, ma la bambina che l'aveva disegnato - la stessa Meer, diversi anni prima - era riuscita a rappresentare uno scrigno.

    Non uno scrigno qualsiasi, ma l'illusoria cassa del tesoro che l'affascinava morbosamente da piccola.

    Quando i genitori le chiedevano perché continuasse a disegnarlo, lei non sapeva rispondere. E quando le domandavano dove l'avesse già visto, lei riusciva solo a dire: «Prima».

    A quel punto le chiedevano sempre quali altri dettagli ricordasse di quel prima e lei rispondeva con sincerità, gettandoli nello sgomento più profondo.

    Il suo era come un incubo atroce... peccato che la tormentasse sempre da sveglia e che fosse sempre lo stesso.

    Lei si trovava in una foresta, durante una tempesta, braccata da un uomo intenzionato a rubarle quello scrigno.

    In sottofondo, come in un film, suonava una musica misteriosa e struggente.

    E sempre, quando lei tornava a ora, come diceva con la sua vocetta infantile, piangeva disperata.

    Quel disegno inviatole dal padre era un semplice scarabocchio, ma illustrava quello che lei aveva chiaramente visto con gli occhi della mente: uno scrigno di legno scuro levigato, dai profili dorati e decorato da un ampio medaglione d'argento su cui erano riprodotti corni, flauti, arpe, foglie e viticci.

    Una volta, Meer aveva detto al padre che la strana musica udita in quello spaventoso sogno a occhi aperti abitava nello scrigno.

    Ma purtroppo lei non riusciva a tenerlo aperto abbastanza a lungo da udire la melodia per intero.

    Respingendo il parere del padre e di Malachai, secondo i quali la tempesta, la musica e l'inseguimento erano ricordi di una sua vita precedente, per anni Meer aveva cercato di comprendere la natura di quell'incubo che tanto l'assillava. Una ricerca che, in ultima analisi, l'aveva indotta a conseguire un master in terapia cognitiva.

    I suoi studi l'avevano portata a costruirsi un'idea personale di ciò che l'affliggeva. Per spiegare quelle strane visioni, Meer aveva finito per ritenersi affetta da quelli che gli specialisti definivano falsi ricordi.

    Secondo lei, da bambina, il suo inconscio doveva aver distorto una serie di eventi realmente accaduti, o in alternativa aveva confuso sogno e realtà.

    «È solo uno dei miei vecchi disegni» disse in tono pacato, porgendolo a Malachai.

    Per qualche istante l'uomo lo ispezionò, sgranando gli occhi scuri. Dopodiché sfilò la graffetta dall'angolo destro superiore, ed esaminò un secondo foglio.

    Per qualche istante l'orologio ticchettò inesorabile nel silenzio della stanza, come faceva da oltre centocinquant'anni.

    «Credo che ti sia sfuggito questo» disse infine Malachai, allungandole il secondo foglio che lei aveva ignorato.

    Era la pagina di un catalogo d'asta. Sotto una didascalia, campeggiava la fotografia di uno scrigno di legno scuro con elaborate rifiniture dorate e un ampio medaglione d'argento decorato con flauti, corni, arpe e foglie.

    Ma sul medaglione era anche incisa una lettera in corsivo, che da bambina lei aveva scambiato per un elemento decorativo, quando invece da adulta non aveva difficoltà a identificare come la lettera B.

    «Bene, adesso sappiamo che lo scrigno esiste davvero» rispose Meer in tono spassionato, posando la pagina sul tavolo. «Ciò significa che, in un modo o nell'altro, devo averlo visto da qualche parte. Forse un giorno della mia infanzia, mentre mi teneva in braccio, mia madre stava sfogliando un vecchio libro di oggetti antichi che ospitava la fotografia di questo scrigno. O forse l'ho visto a un'asta. La mamma mi portava sempre con sé alle aste.»

    Meer aveva sette anni quando, per la prima volta, aveva udito quella strana melodia e aveva raccontato ai genitori dello scrigno e dell'inseguimento nella foresta.

    Prima di allora non aveva mai avuto paura di nulla, mentre dopo quell'incubo aveva il terrore di guardarsi attorno per timore di un disastro imminente.

    Prima di allora, non aveva messo in dubbio le parole dei genitori, ma dopo non credeva più alle loro rassicurazioni che la sua angoscia sarebbe presto cessata.

    «Possibile che tu non te ne renda conto, Meer? Questa fotografia potrebbe essere la prova lampante che, per tutti questi anni, i tuoi sono stati ricordi di una vita precedente» disse Malachai con occhi di brace.

    Chi le parlava era un uomo laureato a Oxford, in grado di citare Aristotele, Einstein e Carl Jung. Un eminente studioso che si divertiva a mostrarle la sua collezione di carte da gioco del quindicesimo secolo, che aveva scritto un'importante monografia sulla psicologia dell'occulto nell'Inghilterra vittoriana.

    Quando discutevano di reincarnazione, Malachai non aveva certo l'atteggiamento di una sprovveduta chiromante che interrogava la sfera di cristallo; le parlava della trasmigrazione dell'anima in tono grave e con lo scrupolo di uno scienziato, e lei trovava alquanto difficile non ritenere fondate le sue spiegazioni.

    Eppure, continuava a non credere in ciò che credeva lui.

    E in ciò che credeva il padre.

    Quando era più giovane, Meer aveva provato a crederci, si era persino offerta volontaria per fare da cavia ai loro esperimenti, ma né il padre né Malachai le avevano mai fornito prove soddisfacenti delle proprie teorie.

    Benché fondati su ricerche e studi approfonditi, i loro tentativi di convincerla si rivelavano sempre vani.

    Come sua madre, Meer era una donna pragmatica.

    «Il catalogo d'asta lo descrive come un antico scrigno del diciottesimo secolo» riprese Malachai, strappandola alle sue riflessioni, «e pare sia appartenuto a una certa Antonie Brentano, che fu amica di Beethoven.»

    D'un tratto, Meer avvertì in bocca un sapore metallico che le fece dolere i denti. Sentì le spalle tendersi e i muscoli della mascella irrigidirsi. Il suo corpo fu scosso da un tremito.

    A quel punto le parve di udire qualcosa, a distanza. Lontano ma distinto.

    E anche se lei non era più una bambina, ma una donna di trentuno anni, avrebbe voluto alzarsi e fuggire via.

    Così come avrebbe voluto fuggire da piccola, cercando di lasciarsi alle spalle quella musica assillante che la spaventava perché precedeva sempre il ricordo del terribile inseguimento nella foresta.

    «Meer? Stai bene?» chiese Malachai, riportandola al presente.

    «Sì» mentì lei. «Molti anni fa, seduta in questo studio, pensavo a tutti gli altri bambini che, a detta di mio padre, tu avevi aiutato. Non avevo mai visto dei bambini in sala d'attesa e pensavo che tu li avessi guariti tutti. Ed ero sicura che avresti guarito anche me.»

    In quel momento sul volto di Malachai si disegnò uno sguardo compassionevole, uno sguardo che la infastidì.

    Lei preferiva la sua solita espressione: gli occhi scrutatori e le sopracciglia inarcate tipiche dell'osservatore distaccato e obiettivo.

    Non sentiva di meritare alcuna compassione per aver di nuovo ceduto ai vecchi tormenti.

    Aveva imparato a combattere gli assalti di quei falsi ricordi, e a respingerli. Aveva studiato il fenomeno ed era sicura di averne trovato la spiegazione. Conoscendo i fattori scatenanti, li evitava come la peste.

    Eppure, in quel momento, udiva di nuovo la vecchia e remota melodia... Vaga e indistinta, e proveniente da un'altra stanza, da un'altra casa, da un'altra strada, da un'altra città.

    Da un'altra epoca.

    Meer sentiva arrivare l'ansia raggelante e l'atroce tristezza che la portavano sempre sull'orlo delle lacrime. La disperazione per qualcosa o qualcuno che aveva irrimediabilmente perduto.

    Erano anni che quei

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