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L'Eredità di Ys
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E-book630 pagine8 ore

L'Eredità di Ys

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Info su questo ebook

"La notte era perenne, nel Simulacro.

Raduan alzò gli occhi sull’immensa volta celeste e vide un cielo che non era il suo: lune grandi e piccole, un pianeta enorme che occupava un quarto del firmamento con la sua massa giallastra, e poi grappoli di stelle pallide che non riconosceva.

Rabbrividì, sminuito dal loro sguardo alieno."

Continua la grande avventura della Compagnia del Viandante! (Volume IV).

Se non l'hai ancora fatto, leggi i primi tre volumi della saga: "La Città degli Automi", "La Forgia del Destino" e "La Fiamma Eterna".
La grande avventura si conclude nel volume successivo, "Le Sabbie Nere".
La raccolta dei cinque volumi è anche in vendita in un unico ebook dal prezzo davvero vantaggioso!

LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2013
ISBN9781301589463
L'Eredità di Ys
Autore

Francesco Bertolino

Sono nato a Ivrea la Bella, che i Romani chiamavano Eporedia.La prima cosa che ho letto è stata: "Lettera D: Dimmi Dunque Dove Devo Andare".La prima cosa che ho scritto solo io riuscivo a leggerla. Peccato, era un capolavoro: dinosauri, robot e raggi fotonici, intrecciati in un melodramma dai risvolti kafkiani...La mia infanzia è volata via come un sogno colorato.Ho fatto il Liceo Classico, mi piacevano da matti le versioni ed ero il tipo da cui copiare i temi, in cambio di una sbirciata al test di mate.Poi il grande salto: Ingegneria Informatica. Ne sono uscito senza troppi danni cerebrali.Un paio di stagioni a Torino, poi la voglia di cambiamento mi ha spinto nel mezzo della Bahia brasiliana. Tre meravigliosi anni di volontariato, dove gente scalza dagli occhi di sole mi ha insegnato a sorridere davvero.Di più ancora, ho trovato l'amore! Celene, la mia luna...Continuiamo a vivere in Brasile, su un'isola chiamata Florianópolis - che non è per nulla vicina a Paperopoli, ma in compenso vanta quarantadue spiagge, due lagune, e un imprecisato numero di discendenti italo-brasiliani con i loro dialetti insensati!Oggi vivo di software, anche se il mio sogno è quello di tanti altri: scrivere, scrivere, scrivere, e di scrittura sopravvivere.Come i Quendi, guardo spesso il mare. Chissà che Valinor non compaia all'orizzonte...​

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    Anteprima del libro

    L'Eredità di Ys - Francesco Bertolino

    Prologo

    Dall’alto della torre, la Signora della Valle ammirava il suo giardino: un luogo vivo, pericoloso, isolato dal resto del mondo da una corona di roccia e neve.

    Assomigliava al suo cuore.

    Una folata di vento si insinuò dentro la torre, penetrando dall’arcata per scompigliarle la chioma e la veste leggera. Tevani poggiò la schiena su un’imposta, senza curarsi dell’abisso spalancato ai suoi piedi. Un laterizio si sfaldò sotto la suola dei suoi sandali. Mentre osservava il lungo volo dei frammenti aveva il volto privo di emozioni, una lavagna pallida che rendeva i due occhi grigi ancor più anonimi e spenti.

    Eppure era felice, a modo suo.

    La Valle della Luna era il regno che aveva sempre sognato, fin da bambina. Un luogo arcano e solitario, di cui lei sola era la padrona, dove vita e morte di ogni creatura dipendevano da lei. Poteva fare il bello o il cattivo tempo, a seconda dell’umore. Poteva torturare e uccidere, quando le andava. Nessuno le avrebbe detto cosa fare e cosa no.

    «Nessuno?»

    Una vistosa crepa nella roccia, che correva dal pavimento sino al soffitto a volta del salone, le rammentò che la sua era in fondo un’illusione, come la robustezza di quella torre antica. C’era sempre qualcuno a darle ordini, a tenerla per mano lungo il cammino.

    Non li capiva. Perché impedirle di dar sfogo ai suoi capricci? Sfizi innocenti, esperimenti privi di ambizione... Che male avrebbero mai fatto? Invece no, non c’era spazio per i suoi semplici sogni terreni, tra i grandi piani e le utopie di chi la controllava.

    Prima suo padre, poi suo fratello, ora persino Anasia, che chissà come era entrata nella valle in compagnia di quello squallido gruppetto di eroi.

    Tevani non era solita farsi turbare dai piccoli drammi quotidiani, ma per la prima volta da decenni la sfiorò il dubbio che qualcosa stesse sfuggendo al suo controllo. L’intrusione di sua sorella era inattesa e grave. Non era nulla, però, in confronto alla fuga di Abel, che in quello stesso istante si aggirava solitario per la valle.

    Era a caccia di una via d’uscita? O attendeva il momento giusto per cercar vendetta?

    Si morse un’unghia. Se soltanto avesse avuto occhi nell’intera valle, per osservare, per scoprire, per agire... Ma i congegni-spia erano pochi e riservati alle zone più importanti, come la grande scalinata e i portali. Per il resto era cieca. Avrebbe dovuto spingere la mente da un canto all’altro della valle, scandagliarla in volo radente sulle ali del suo occhio interiore.

    Era un compito sgradevole e noioso. Non il genere di passatempo adatto alla Signora della Valle.

    Forse, se fosse riuscita a tenerlo nascosto a suo fratello per il tempo necessario, avrebbe trovato un modo più divertente di dar la caccia ad Abel. Perché non trastullarsi un po’ con quegli intrusi, per esempio? Sottrarli all’influenza di Anasia, farne i suoi fantocci per usarli contro il Viandante?

    O ancora, aizzargli contro un’orda di belve assassine della valle, le peggiori, quelle sfuggite al Simulacro?

    Dondolò un piede nel vuoto.

    Oppure affrontarlo a tu per tu, fargli provare i suoi poteri.

    Atteggiò le labbra a un sorriso, al dolce pensiero di ucciderlo a sangue freddo, al pensiero dell’espressione di Kain quando l’avesse udita confessare che Abel l’aveva costretta, che era stata legittima difesa...

    Arricciò una ciocca di capelli biondi intorno a un dito.

    Povero Kain, povero, stolto fratellino. Non trovava in sé la forza di troncare quel legame, che sin dalla nascita lo stringeva al suo gemello con il peso di una catena arrugginita. Che disdetta, che dolore avrebbe provocato, la tragica fine di Abel!

    Ma andava fatto.

    Ci avrebbe pensato lei, per il bene della famiglia e dello stesso Kain.

    Glielo doveva, in memoria di tutti i bei momenti trascorsi insieme...

    I - Sotto la pelle

    Al riparo di una roccia, a distanza di sicurezza dalle imponenti mura di Sostar, Tulga osservava la scena con il corpo madido di sudore. Con una mano tremante si aggiustò sulla fronte il copricapo cornuto, che gli scivolava fin sugli occhi.

    Era quella creatura bizzarra a dar corpo alla sua paura, a distillarla nel liquido oleoso che gli bagnava la pelle.

    «Malakai!» gemette.

    Provò a darsi dello sciocco, a ripetersi che dentro di lei bruciava lo spirito incarnato della battaglia e pertanto non c’era nulla da temere.

    Eppure...

    Vide la creatura umanoide muovere un passo verso Kyra e l’uomo che le stava accanto, un guerriero dai corti capelli biondi e dall’aria malconcia. L’assurdo berretto da giullare della creatura si agitò con un tintinnio di sonagli, un richiamo brioso che nulla aveva da spartire con quella situazione.

    Livido di paura, Tulga distolse lo sguardo, ma una macabra sorpresa lo colse: alle spalle di Kyra giaceva un cadavere. Un cadavere somigliante a un blocco di metallo scintillante, venato di pelle umana. Affascinato e terrorizzato allo stesso tempo, fissò a bocca aperta i giochi di luce sulla massa inerte. Gli parve di vederla arrugginire davanti ai propri occhi, corrosa dagli elementi.

    Girò lo sguardo, convinto che il riflesso del sole gli stesse giocando un brutto scherzo. Più in là, a ridosso delle mura, un altro cadavere ingobbito e mostruoso fissava il vuoto con occhi spenti, il terrore impresso sulle fattezze irrigidite dalla morte.

    Il barbaro si strinse uno dei lunghi baffi tra le dita e tirò con forza. Insieme alle lacrime venne la consapevolezza che non si trattava di un incubo, a dispetto del silenzio, della luce surreale, dei cadaveri immondi e di quell’orrido giullare vomitato dalla bocca dell’inferno. Era tutto vero, tutto reale.

    L’essere dalla pelle olivastra si avvicinò di un altro passo a Kyra e al guerriero - il padre di Kyra che tanto a lungo avevano cercato?

    Decise che non erano affari suoi.

    Con un lentissimo movimento si rattrappì dietro al masso, finché soltanto le corna superbe del copricapo affiorarono dal bordo. Sarebbe rimasto lì ad attendere il corso degli eventi, tranquillo e senza fiatare. La stessa Malakai gliel’aveva ordinato, chi era lui per contraddirla?

    Quando udì il sibilo della creatura, si ficcò le dita nelle orecchie e serrò le palpebre, in attesa.

    ------

    «Un grave errore, shhh, rifiutare la nostra amicizia» disse Nahash, senza distogliere gli occhi giallastri dai due guerrieri. La lingua biforcuta saettò avanti e indietro tra le labbra, dando un significato più torvo alle parole.

    «Pronunci il termine ‘amicizia’ come se ne comprendessi il significato» disse Dorian.

    Nahash lanciò un’occhiata di sghimbescio ai cadaveri dei suoi fratelli.

    «Senza il nostro aiuto, shhh, non sareste mai giunti fin qui.»

    «Non ci contare» disse Kyra «Li avremmo scovati e fatti fuori a modo nostro, prima o poi.»

    Un sibilo simile a una risata soffocata riempì la bocca dell’Addestratore di Serpenti.

    «Come no, shhh! Vi abbiamo visti alle prese con Testa di Ferro... Potevamo attendere ancora un po’ prima di intervenire, chissà come sarebbe andata a finire!»

    Kyra si morse la lingua. C’era poco da fare: senza l’aiuto inatteso di Nahash, lei e suo padre avrebbero esalato l’ultimo respiro tra le dita robuste di Caleb. Colpa del suo corpo traditore, ancora scosso dai tremiti della febbre. Le condizioni di Dorian non erano migliori delle sue: la postura ingobbita e la mano stretta sul costato tradivano una brutta contusione, forse una frattura.

    Nahash distese le braccia, stirò le labbra fino a esporre le gengive nude. Un altro passo.

    «Siamo ancora disposti a perdonarvi, shhh, malgrado tutto. Dimentichiamo questo piccolo screzio.»

    Nel dilatare l’atroce sorriso si sfiorò la guancia con la punta affusolata di un’unghia, là dove il raggio di energia di Dorian aveva inciso una sottile linea di sangue.

    «Tutto perdonato, shhh, la nostra alleanza può continuare!»

    I guerrieri non si mossero di una spanna, le braccia alzate in posizione di difesa. Nahash piegò la testa da un lato, con uno scampanellio di sonagli. Gli occhi da serpe li sondavano con invadente acutezza.

    Dorian sputò per terra.

    «Scordatelo» disse.

    Un battito di ciglia più tardi, Nahash era in volo sopra di lui, la sagoma snodata distesa in un balzo disumano, le lunghe braccia protese verso il suo collo. Un altro battito di ciglia e Kyra si materializzò nel mezzo con il pugno di metallo diretto ai suoi denti, costringendolo a contorcersi a mezz’aria per schivare. Atterrò leggero sulla punta di un piede e rimbalzò lontano.

    Dorian fischiò. Sua figlia estrasse dalla cinta uno dei pugnali gemelli, lo afferrò per il taglio e glielo gettò. Dorian agguantò al volo il manico d’osso e fendette l’aria davanti a sé con la lama ricurva, giusto in tempo per contrastare il secondo affondo di Nahash e forzarlo a una ritirata precipitosa.

    «Shhh!» soffiò questi come una vipera.

    Padre e figlia aumentarono la distanza tra sé di qualche passo, i volti concentrati nell’esercizio della lotta che conoscevano a memoria. Kyra non poté fare a meno di sorridere. Quanto tempo era passato, dall’ultima volta che avevano combattuto fianco a fianco in quel modo? Eppure niente era cambiato: era sempre facile come respirare.

    «Insieme siamo un’altra cosa!» pensò.

    La smorfia di rabbia dell’Addestratore di Serpenti ne era la conferma.

    Dorian si avventò su di lui, stringendo i denti per il dolore, mentre Kyra gli dava copertura con una sventagliata di dardi del braccio artificiale. Sia il pugnale sia i proiettili mancarono il bersaglio, perché Nahash era svanito come una macchia di colore per materializzarsi in un lampo alle loro spalle. Ancora una volta, la sua incredibile velocità lasciò allibiti i due guerrieri.

    Si scambiarono un’occhiata: potevano solo mantenere l’offensiva e costringere il mostro a difendersi, per non dargli il tempo di usare la sua straordinaria destrezza nell’attaccarli. Dorian provò un intenso sollievo al pensiero che i Sette - i fedeli serpenti guerrieri di Nahash - avessero tirato le cuoia durante il suo addestramento a Draslund. Di certo il maestro di inganni sentiva la loro mancanza, in momenti come quello.

    Nei minuti successivi, i due superstiti della Compagnia del Viandante diedero fondo al loro repertorio di attacchi nella speranza di mettere Nahash alle corde: tutto inutile. Lo sfinimento e le fitte al costato straziavano Dorian a ogni movimento, mentre un’insormontabile debolezza fiaccava l’azione di Kyra, appannandole i riflessi. Nahash danzava in mezzo a loro come un ballerino, ogni volteggio accompagnato dallo sbeffeggiante richiamo dei sonagli.

    Kyra cercò di assestargli un colpo con la duplice lama del braccio artificiale, quando inciampò e cadde sul fondoschiena tra mille imprecazioni.

    «Cosa diavolo...?»

    Era Caleb, ovviamente.

    Anche dopo la morte, l’ingombrante ammasso di ferraglia continuava a metterle i bastoni tra le ruote. Si appiattì dietro al corpo venato di metallo, in cerca di protezione dal contrattacco di Nahash. Dorian non aveva modo di coprirle le spalle, poiché gli imprevedibili movimenti dell’Addestratore li avevano costretti a distanziarsi.

    Invece della rappresaglia, venne un sibilo derisorio.

    Kyra sporse la testa sopra le possenti spalle di Caleb. Nahash se ne stava in attesa vicino alla figura ansante di Dorian, con le braccia ossute allacciate sul petto.

    «Shhh! Per quanto ancora volete portare avanti questo gioco? Ci fosse almeno un briciolo di sfida...»

    Se era a corto di fiato, nessun indizio trapelò dalla sua voce.

    «Maledizione!» pensò Kyra.

    Osservò suo padre, troppo vicino al mostro per i suoi gusti. Dorian era furente, forse proprio la rabbia gli consentiva di reggersi ancora in piedi dopo lo scontro con Shem e Caleb. Il sudore gli scorreva a rivoli dalle radici dei capelli tagliati a spazzola.

    «Tutto è un gioco, per te!» urlò in faccia all’Addestratore «C’è qualcosa in questo mondo che non ti faccia sorridere?»

    Nahash scosse la testa in una risata, accompagnata dal trillo dei sonagli.

    «Ti strapperò di dosso quel cappello infernale!» sbraitò Dorian «Giuro che lo farò a pezzi prima di te!»

    «Non ti piace? Peccato, shhh, pensavamo di donartene uno uguale a questo, per suggellare la nostra unione.»

    «Cosa vai farneticando? Chi mai, sano di mente, si agghinderebbe come un buffone di corte?»

    Nahash si leccò le labbra.

    «Un buffone, shhh, proprio così! E la nostra corte è l’universo intero, e i re e le regine sono gli Dei del cielo!» Senza preavviso, si esibì in un’acrobatica piroetta, seguita da un inchino. «Siamo tutti pagliacci e questo è il nostro palco. Per cui bando alle ciance, shhh, balliamo, saltiamo, ridiamo a crepapelle, perché la vita è questo e nulla più!»

    «Sei pazzo!»

    «Lo siamo tutti, ognuno a modo suo.» Batté le mani un paio di volte. «Su, giochiamo ancora!»

    Dorian intuì all’istante cosa sarebbe accaduto, per istinto, o forse perché la convivenza forzata a Draslund con l’Addestratore di Serpenti aveva creato tra loro una sorta di invisibile legame. Chiuse gli occhi e alzò le barriere della mente prima che le immagini e i suoni investissero i suoi sensi - non con la violenza di un’aggressione, ma con la subdola verosimiglianza che li rendeva quasi indistinguibili dalla realtà.

    Quasi.

    Questo era il concetto chiave che Nahash si era premurato di ficcargli in testa, nel modo più brutale possibile, affinché imparasse a distinguere ciò che era reale da ciò che era semplice illusione. Dettagli fuori posto, sfumature di forma, colori, odori lievemente fuori scala, sottili imperfezioni che nemmeno la tecnica di un maestro illusionista era in grado di eludere.

    Era giunto il momento di dimostrargli che aveva appreso a fondo la lezione.

    Riaprì gli occhi, al sicuro tra le invisibili pareti del Luogo Oscuro - un non-luogo in realtà, una zona protetta della sua mente da dove poteva osservare e studiare il mondo esterno senza esserne influenzato. Sentì i propri sensi acuirsi, come quelli di un predatore in agguato nell’ombra, mentre si attenuavano nella sua coscienza le emozioni e i sentimenti che offuscavano la nitida visione delle cose.

    La sua prima reazione, malgrado tutto, fu di stupore: mai in vita sua era stato testimone di uno spettacolo di tale grandezza.

    Le cavallette erano migliaia, milioni, uno stormo senza testa né coda che saturava il cielo e la terra come una tempesta di grandine viva, che occultava il mondo in una cappa di verde acceso. Il ronzio di ciascuna, sommato a quello delle altre, dava origine a un rombo colossale, assordante. Avvertì lo strusciare di infiniti corpi di insetti sulla pelle, i graffi sul volto e sulle braccia, la massa soffocante che cercava di aprirsi il cammino nella sua bocca, nel naso...!

    «Rilassati. Non esistono. Non possono toccarti, tanto meno soffocarti.»

    Se isolava un individuo dalla massa, mettendolo a fuoco, notava subito un piccolo difetto: un’antenna di troppo, un’articolazione delle zampe girata al contrario, un occhio sproporzionato... Persino un artista come Nahash non era in grado di dar vita a un evento di quelle proporzioni senza dover fare i conti con la vastità del compito. Con grande sforzo, mettendo a frutto gli insegnamenti del nemico, Dorian poteva far sì che, come la sua mente, anche i suoi sensi rigettassero l’esistenza di quella nube di cavallette.

    Ma la priorità era Kyra.

    Il dramma di sua figlia, raggomitolata a terra in preda al terrore, per poco non spezzò la fredda serenità del Luogo Oscuro, obbligandolo a uscirne. Kyra sventagliava le braccia come una folle, urlava, sputacchiava come se avesse la bocca piena di immondi parassiti. Sullo sfondo, dietro la cortina di locuste, Nahash se la spassava a vista d’occhio.

    «Kyra! Alzati!» gridò Dorian. Se avesse usato un tono normale, lei lo avrebbe udito sotto l’immaginario frastuono delle cavallette?

    Kyra provò a raddrizzarsi sulle ginocchia, ma rinunciò con uno strillo di disgusto.

    «Non posso, dannazione!»

    Il panico le affilava la voce.

    «È tutta illusione» osservò Dorian in modo naturale, quasi distaccato, per infonderle la sicurezza di cui aveva bisogno.

    Lei riuscì appena a sbirciare tra le dita di una mano.

    «No! È reale!» gemette, prima di rimettersi a sventagliare il braccio meccanico.

    «Kyra!» gridò Dorian, di nuovo.

    Il suo tono era fermo e autoritario, lo stesso che usava con sua figlia quando commetteva qualche scempiaggine. Kyra si irrigidì: conosceva fin troppo bene quell’inflessione. Era sempre il preludio di un castigo, tanto ai tempi del suo apprendistato nella Compagnia del Viandante come dopo, quando già si riteneva una donna adulta e indipendente.

    «Devi credermi, figlia. Guardami!»

    Kyra strabuzzò l’occhio, incredula: Dorian se ne stava in piedi nel mezzo della bufera verde come se nulla fosse, le braccia aperte a croce e la bocca spalancata. Vide con orrore gli insetti investirlo ondata su ondata, scorticargli la pelle e incunearsi nel suo corpo attraverso ogni orifizio del volto. Perché si esponeva in quel modo?

    «Padre!» urlò, disperata, quando si accorse che Dorian stava fischiettando un motivo allegro che le aveva insegnato tanti anni prima, da bambina.

    Rifiutò gli ordini che mente e corpo le lanciavano, obbligò le ginocchia a distendersi. Mosse un primo passo titubante, quindi un secondo, infine si mise a correre verso di lui. Schivava i proiettili viventi che la investivano come schegge impazzite, ma ormai la sua fede nelle parole di Dorian cresceva e il panico diminuiva in egual misura.

    «Brava, così!» esclamò Dorian, tendendole le braccia «Vieni da me!»

    Una decina di passi soltanto li separavano, quando il rombo dello sciame di insetti venne eclissato da un altro fragore. Un’ombra spaventosa si distese sulla terra. Kyra alzò lo sguardo: un’intera sezione delle mura di Sostar le stava piombando addosso come una valanga. Slittò sulle suole degli stivali e si lanciò nella direzione opposta - dove Nahash l’attendeva con una smorfia crudele sulle labbra.

    In tre balzi Dorian le fu addosso. L’afferrò per una spalla e la costrinse a voltarsi. Kyra lo squadrò terrorizzata.

    «Lasciami! Dobbiamo fuggire!»

    Lui le diede uno scrollone.

    «Neanche questo è reale. Ascoltami!»

    «No, no, non può essere! Lasciami andare!»

    Fuori di sé per il panico, non riuscì a pensare ad altro che all’immane barriera di blocchi di pietra che li avrebbe sfracellati. D’impulso, scosse il braccio di metallo per liberarsi dalla presa di suo padre. Le lame affilate trovarono pelle e muscolo di Dorian, lacerandoli. Lo schizzo di sangue investì Kyra in pieno volto e la fece tornare in sé come uno schiaffo.

    «No! Che ho fatto!»

    Dorian si strinse il bicipite ferito con l’altra mano, soffocando un lamento. Il sangue gli scorreva denso tra le dita.

    «N-non è grave» mormorò. E poi, con un sorriso tremulo: «Hai visto? Avevo ragione.»

    Sulle prime Kyra non comprese, troppo presa dall’ansia e dal rimorso. Soltanto quando lui accennò in alto con la testa, si rammentò della muraglia in caduta libera e del fatto che in quel momento il suo corpo avrebbe dovuto giacere maciullato sotto tonnellate di roccia.

    Le mura, invece, erano al posto di sempre. Non c’era più l’ombra di una cavalletta nell’aria, né il frinire di un insetto.

    «Shhh! Ben fatto guerriero, siamo orgogliosi di te!»

    Nahash accompagnò le parole con un applauso lento e ritmato: amava i gesti teatrali, che tanto mandavano Dorian in bestia.

    «Tua figlia, invece... Impulsiva, emozionale... Ci spiace dirlo, shhh, ma non riusciamo a scorgere granché nel suo futuro.»

    Minacciare Kyra, in modo aperto o velato, era la miglior miccia per far esplodere il guerriero.

    Dorian lo sapeva, capì che era uno sporco trucco, concepito con l’intenzione di fargli perdere la calma e la concentrazione già messi a dura prova dalla ferita al braccio. Strinse i denti. Non poteva dargliela vinta: se gli avesse permesso di sfrattarlo dal Luogo Oscuro, Nahash avrebbe dominato le sua mente e quella di Kyra nel giro di attimi. Sarebbe stata la fine per entrambi.

    «Ahhhh...» gemette Kyra.

    Si portò una mano alla fronte, con una smorfia di dolore.

    «Cos’hai?»

    «La mia testa! Mi è parso di sentirla scoppiare.»

    Non era la prima volta che provava una fitta del genere. Era accaduto anche quel giorno ai confini della palude di Draslund, quando Nahash aveva cercato di sondarle la mente.

    Qualcosa, però, gliel’aveva impedito.

    «Ma certo! Che stupida!» si rimproverò.

    Dorian la osservò con perplessità mentre rimuoveva la benda dall’occhio artificiale, mettendo allo scoperto il globo rosso pulsante incastonato nella sua cornice d’oro. Il sorriso demente che aveva accompagnato Nahash fino a quel momento svanì dalle sue labbra. Kyra gli puntò l’occhio addosso e lo squadrò con aria di sfida.

    «Provaci adesso!»

    Nahash si protese, scaraventò il suo attacco mentale come un pescatore che getti un’immensa rete su un branco di pesci. Era qualcosa di potente e ignoto, dai contorni indefiniti, diverso da ogni arma che l’Addestratore avesse usato contro Dorian durante l’addestramento. Il guerriero avvertì l’energia sfrecciargli accanto come una palla di cannone munita di tentacoli. Il proiettile psichico non era indirizzato a lui.

    Kyra grugnì di dolore quando incassò il colpo. La bomba mentale di Nahash si infranse su un’impalpabile barriera e scagliò frammenti acuminati in tutte le direzioni. Per Dorian fu come una doccia di pioggia acida, e ogni goccia era un’immagine, una voce, una sensazione altrui proiettata nel suo essere...

    Intravide sprazzi di un mondo spaventoso, edifici di metallo alti più delle montagne, luci accecanti e multicolore sullo sfondo di un cielo grigio come l’acciaio. Si gettò a terra, quando un oggetto volante di straordinarie dimensioni gli piombò addosso a gran velocità.

    Sbatté le palpebre e si ritrovò su un campo di battaglia inzuppato di sangue. Attorno a lui i guerrieri della Compagnia del Viandante lottavano come furie, respingendo gli attacchi dei Demoni, schiacciandoli sotto il peso delle loro armi. Udì un grido di terrore. Uno dei suoi stava per colpire a morte una bambina, raggomitolata al suolo con la testa tra le mani! Arrestò il braccio del guerriero all’ultimo istante, lo costrinse a girarsi con uno strattone. L’uomo guardò senza capire, poi un artiglio gli trapassò la schiena e gli sbucò dallo stomaco, innaffiando Dorian di sangue caldo.

    Sconvolto, mollò la presa sul cadavere, per ritrovarsi faccia a faccia con il sorriso crudele della bambina-Demone. Lo stesso artiglio che aveva straziato il guerriero gli infilzò l’occhio sinistro.

    Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Dolore, cecità, rabbia, immensa rabbia contro il mondo e contro chi l’aveva indotto a quel sacrificio!

    «Sono Kyra» pensò, sforzandosi di trattenere un ultimo barlume di lucidità.

    Stava rivivendo l’infausto giorno dell’incidente che aveva privato sua figlia di un occhio e della fede in Abel e nella Compagnia.

    Un altro doloroso strappo nel tessuto della realtà, e si ritrovò a fissare il volto di una donna, tra le sbarre di una gabbia dorata.

    Il calore era insopportabile, lingue di fiamma guizzavano ai limiti del suo campo visivo, ma tutto il suo essere era assorbito da quel volto. Era un viso di esotica bellezza, la pelle nera e lucida, le labbra piene, gli occhi celesti come cristalli del ghiaccio più puro. Lacrime di disperazione scorrevano lungo le gote della giovane. Il suo sguardo lo trapassava, dalla sua bocca sfociava un fiume di parole cantilenanti, una litania fuori controllo. Dorian strinse forte tra le mani il corpo sinuoso del suo unico amico - un serpente - e sentì il proprio io tendersi come un elastico, la coscienza dilatarsi e sfuggirgli...

    Scosse la testa e fu nuovamente se stesso.

    Gli cedette un ginocchio, pensò che avrebbe vomitato sull’erba verde. Strinse un ciuffo, lo divelse dal terreno, respirò a fondo mentre la sensazione della terra umida tra le dita lo riallacciava al mondo reale.

    Sollevò il capo. Anche Kyra si stava rialzando da terra a fatica, vittima del trauma. Nahash, in compenso, non sembrava passarsela meglio di loro: si graffiava il volto con le dita e mugolava in una lingua sconosciuta.

    «Cos’è stato?» si chiese il guerriero.

    Kyra si sforzò di sorridergli e puntò il dito sul proprio occhio artificiale.

    Era stata quella cosa! Interferiva sui poteri di Nahash. Lei in qualche modo ne era venuta a conoscenza: per questo l’aveva provocato, contando sulla violenza del contraccolpo. Dorian era stato preso alla sprovvista, travolto dalle visioni come onde concentriche originate da un forte impatto con il tessuto della realtà.

    Cos’aveva vissuto? Ricordi, immagini in presa diretta dalle esistenze di Kyra e Nahash?

    Mosse lo sguardo dall’uno all’altra, entrambi alle prese con evidenti segni di sofferenza e smarrimento. Se l’urto mentale era stato così intenso per lui, non poteva neanche immaginare i danni causati ai due contendenti.

    Si maledisse per dover chiedere tanto a sua figlia, ma non vedeva altre vie d’uscita.

    «Kyra!»

    Dovette urlare il suo nome altre due volte, prima che lei gli desse retta. Con la coda dell’occhio, notò che Nahash si stava riprendendo: l’espressione del suo volto rispecchiava il suo stato d’animo alla perfezione.

    «Ascoltami, figlia: concentra l’occhio su di lui, come hai fatto prima! Immagina che il tuo sguardo sia una lancia, trafiggilo, non dargli tregua!»

    Kyra annuì. Con un intenso sforzo di volontà, raddrizzò la schiena. Il nucleo incandescente del bulbo oculare si fissò implacabile sul nemico. La giovane calcò la mano con una caterva di insulti irripetibili, scaricati in faccia a Nahash come altrettante sassate.

    «Bella mossa» pensò Dorian.

    L’Addestratore, che non era ancora del tutto in sé, abboccò all’esca: l’illusione era la sua seconda natura, l’arma spontanea che utilizzava ogni attimo della sua squallida esistenza per piegare uomini e donne alla propria volontà. L’attacco partì dalla sua mente prima che si accorgesse dell’errore.

    Dorian si rinchiuse a doppia mandata nel Luogo Oscuro, giusto prima della poderosa collisione tra il potere di Nahash e quello scaturito dai manàlorin di Kyra. Questa volta era pronto al peggio: con assoluta fermezza, spazzò via i frammenti di vita passata che gli piovevano addosso come grandine, si rifiutò di lasciarli penetrare nella propria coscienza. I suoi occhi, la sua mente, erano saldi sulla figura dell’Addestratore di Serpenti.

    Lo vide ricevere il contraccolpo, barcollare all’indietro come un ubriaco.

    Sorrise, come un lupo affamato. Strinse il pugnale per la lama e lo scagliò a colpo sicuro.

    Nahash urlò. Era un suono acuto e stridente, che nessun essere umano aveva mai udito. Saggiò con le lunghe dita il manico del pugnale che gli spuntava dal petto, incapace di ammetterne l’esistenza. Si piegò su se stesso, arretrò fino a sbattere la schiena contro le mura, si trascinò di peso sulla dura pietra. Kyra, ancora alle prese con gli effetti dello scontro mentale, non si era accorta del decisivo cambiamento negli equilibri della lotta. Dorian, invece, non aspettava altro. Erano riusciti a confondere e a cogliere di sorpresa l’Addestratore di Serpenti, un’occasione che non si sarebbe ripetuta. Si strinse il braccio ferito al fianco e cominciò a camminare.

    Nahash sollevò il capo, incredulo e sofferente, le mani chiuse ad artiglio sul pugnale. Quando vide il guerriero, spalancò gli occhi da rettile e aprì la bocca sdentata in cerca di parole.

    «Shhh! Fermati guerriero, noi...»

    «Basta così» disse Dorian.

    Puntò il braccio sinistro fasciato dal guanto bianco, distese il palmo e gli scatenò addosso un torrente di energia crepitante - l’ultimo che il suo corpo spossato fosse in grado di alimentare. Il fiotto di scariche bluastre si avventò su Nahash come una belva affamata e lo rivestì di fiamme. Il cappello da giullare bruciò per primo con un trillo sinistro e una vampata - quasi volesse obbedire alla promessa di Dorian.

    Nahash si gettò sul cadavere di Shem, in preda a spasmi di dolore intollerabile. Man mano che il tessuto delle sue vesti si consumava, venne allo scoperto un corpo obbrobrioso marchiato da un intreccio di cicatrici e suture, come se la stessa pelle non fosse altro che un abito di toppe ricucite, una perversa collezione di rammendi. Pur confuso dalle convulsioni e dalle fiamme che imperversavano sulle membra del nemico, Dorian notò con orrore pezze di pelle dai diversi colori, dal bianco neve al nero carbone. Persino i lunghi arti, non più occultati dalle vesti, parevano composti di monconi strappati a una dozzina di persone differenti e ricuciti insieme all’altezza delle giunture.

    Dorian non capì cosa potesse significare, ma la sua smania di finire una volta per tutte l’Addestratore di Serpenti ne uscì rafforzata. Obbligò le gambe a coprire gli ultimi passi che lo separavano dal mostro in agonia, accartocciato sui resti deformi dell’altro mostro che era stato suo fratello. Come lo vide arrivare, Nahash si girò sul ventre e si riscosse in una frenesia violenta. Un paio di fiammelle ancora danzavano sul suo corpo ustionato, sul labirinto di toppe di pelle già gonfio di bolle e vesciche, mentre si affannava sul corpo di Shem.

    Dorian lo osservò con inquietudine. Stava mordendo il cadavere, o qualcosa del genere. Che fosse impazzito per il dolore?

    Udì alle sue spalle l’esclamazione di giubilo di Kyra, finalmente tornata in sé, ma non si fermò ad attenderla. L’aveva quasi uccisa con le proprie mani, sulla Piramide di Ilterya, spinto dagli inganni di quell’illusionista maledetto... Ogni istante di respiro che gli avesse concesso era un istante sprecato.

    Gli fu sopra in tre ampi passi, gli affondò le dita nella carne martoriata di una spalla e lo attirò a sé con uno scrollone. Con sua sorpresa, nonostante le ustioni e le fattezze devastate, Nahash sorrideva. Aveva la bocca impiastricciata di rosso, come un bambino che si fosse ingozzato di lamponi. Quando il mostro gli sputò in faccia, Dorian avvertì subito il sapore metallico del sangue.

    «A-abbiamo deciso di cominciare un nuovo gioco, shhh!» sibilò Nahash.

    Il suo braccio si mosse come un lampo.

    Dorian avvertì un dolore lancinante al collo, sotto l’orecchio. Cadde al suolo senz’altra sensazione che quella sofferenza atroce, senza udire le urla di Kyra né la folle risata del nemico, senza riconoscere l’oggetto acuminato che questi stringeva tra le dita, macchiato del suo sangue. Era un pezzo d’osso, una sorta di aculeo dalla punta gocciolante, che Dorian aveva visto per la prima volta la notte precedente, quando ancora era infisso nel polso di Shem.

    La sibilante risata di Nahash ebbe vita breve: Kyra gli balzò addosso come una furia, gli infilzò lo sterno con le lame del braccio artificiale e lo sollevò da terra. Senza darsi il tempo di respirare, lo tempestò di colpi in ogni parte del corpo, gli spezzò le ossa con il pugno di metallo, lo strapazzò come un cencio e lo scagliò lontano, ridotto a un ammasso di carne sanguinolenta.

    Solo allora la giovane si buttò in ginocchio accanto a suo padre e lo prese tra le braccia. Stava tornando in sé, ma era penoso guardarlo: ossa rotte, sangue che colava da una mezza dozzina di ferite - la più grave quella che lei stessa gli aveva inflitto al braccio - la pelle del volto tirata sulle ossa per lo sfinimento. Gli sfiorò la fronte con le labbra, mentre saggiava con le dita il foro sottile dietro l’orecchio, da cui scorreva un filo di sangue. Dorian le scostò la mano con un sussulto.

    «Va tutto bene» Kyra si premurò di tranquillizzarlo, con un pizzico di buonumore forzato «Sei malconcio, ma ho visto di peggio.»

    «Cosa... Cosa mi ha fatto?» mormorò Dorian.

    Continuava a rivedere il sorriso trionfante di Nahash, le sue parole beffarde un istante prima del colpo a tradimento...

    «Cosa mi ha fatto?» ripeté, questa volta afferrando Kyra per il bavero della camicia nel tentativo di alzarsi a sedere.

    «Sta’ giù!» gli ingiunse lei «L’ha pagata una volta per tutte, ci ho pensato io. Resta sdraiato per qualche minuto, riprendi le forze.»

    «Dimmelo!» urlò Dorian a una spanna dal suo volto, spaventandola.

    Che gli era preso? Poteva leggergli un’enorme apprensione negli occhi, come se la battaglia non fosse ancora vinta.

    «Va bene, dammi un istante!»

    Si guardò attorno: non era troppo in sé quando aveva assalito Nahash - presa dalla furia senza nome che la dominava quando c’era in ballo la vita di suo padre - ma rammentava di averlo visto stringere una sorta di pugnale. Cercò nei dintorni, fino a trovarlo. Lo sollevò tra due dita con ripugnanza, per mostrarlo a Dorian.

    «Ti ha trafitto con questo. Ma cos’è? Sembra un osso, che disgusto. Dev’essere l’unica cosa che ha trovato per...»

    «Nooo!»

    Il grido di Dorian le fece accapponare la pelle, così come l’espressione di completo orrore intagliata nei suoi lineamenti.

    «Perché quella faccia? Cos’hai?»

    «Oh no, Dei, no!» continuava a ripetere Dorian.

    «Smettila! Mi stai facendo preoccupare!»

    In quella ci fu un sibilo alle loro spalle, un sogghigno gorgogliante affogato in un colpo di tosse.

    «Non ci credo!»

    Kyra si alzò di scatto, facendo scrocchiare le nocche di metallo. Quando avrebbe imparato a morire, quel maledetto?

    Nahash non era che un corpo maciullato, un volto massacrato dai colpi, una bocca contorta e spezzata che ancora riusciva a emettere suoni, quando avrebbe dovuto sigillarsi per sempre nel silenzio della morte.

    «Eccolo, shhh, il tuo futuro!» sibilava «La sofferenza, la trasformazione... lunga e dolorosa!» Colpi di tosse squarcianti. «Ma non sei finito, guerriero, no. Una nuova vita comincia per te oggi, shhh, se vuoi chiamarla così...»

    «Tappati quella boccaccia!» esclamò Kyra.

    Mentre caricava il pugno si sentì paralizzare, il legame tra mente e corpo improvvisamente reciso.

    «Impossibile!» pensò, riconoscendo l’impronta dei poteri dell’Addestratore. Pur ridotto in poltiglia, riusciva ancora a dominarla!

    Davanti ai suoi occhi, tanto quello artificiale come l’altro, prese vita una scena che le diede il voltastomaco - e ne aveva viste di cose orribili, nella sua pur breve esistenza!

    Il collo di Nahash si allungò in modo innaturale, il corpo intero si tese all’estremo. Con un orrendo schiocco la testa si separò dal resto, incollata al corpo sinuoso di una sorta di serpente, con le vertebre sporgenti dal dorso e un mare di peduncoli sotto al ventre. L’involucro umano si sfaldò come il bozzolo di una larva, pezze scucite per aprire il cammino alla spaventosa serpe dalla testa umana.

    Paralizzata dal potere di quella cosa ripugnante, Kyra non poté far altro che guardarla mentre si insinuava in uno spacco del terreno per sfuggire ancora una volta al proprio destino.

    Allora e solo allora, la morsa sulla sua mente cessò di botto e la lasciò libera di crollare in ginocchio con la testa tra le mani, ansante e sconcertata.

    Nelle orecchie, l’ultimo sibilo del rettile e i lamenti di dolore di suo padre.

    II - Un Solo Cammino

    «...dre?»

    Dorian si portò le mani alle orecchie, nel vano tentativo di scacciare il brusio.

    «...rlami!» esclamò la macchia confusa davanti a lui «...uccede?»

    Chi era, cosa voleva da lui?

    «Lasciami in pace!» implorò.

    Aveva bisogno di dormire. Sì, erano secoli che non dormiva! Un bel materasso morbido, cuscini di piume...

    «...ondimi! Ti prego!»

    Cercò di metterla a fuoco, ma i contorni della sagoma si ostinavano a sfuggirgli. Si rendeva vagamente conto delle mani che gli afferravano le spalle, che lo scrollavano come un fantoccio.

    «Mi sta cullando» pensò.

    Un alone rosso si distese a chiazza d’olio sui suoi occhi, finché non scorse più neanche l’abbozzo di una sagoma e l’intera realtà fu avviluppata da un drappo color sangue.

    Era stata una lunga, lunghissima giornata.

    Chiuse gli occhi e si concesse il meritato riposo.

    ------

    Kyra era disperata.

    Tanto era impegnata a scuotere il corpo inerte di Dorian, che neanche si avvide dell’arrivo di Tulga.

    «Kyra!» esclamò il barbaro, la voce solcata da una vena di sincera preoccupazione «Tu bene?»

    La domanda neppure la sfiorò. Continuò a scrollare il corpo inerte di suo padre senza risultato, poi gli accostò l’orecchio alla bocca, coprendogli il viso con una cascata di capelli castani. Il cuore riprese a batterle soltanto quando ebbe la certezza che Dorian respirava ancora. Una fioca esalazione, ma tanto bastava per ancorarlo al mondo dei vivi.

    Gli rifilò un paio di schiaffi, neanche troppo delicati.

    «Svegliati! Svegliati, maledizione!»

    Il volto sereno di Dorian non mutò di espressione. A voler ignorare i lividi, i tagli e il sangue che gli inzuppava le vesti, pareva dormire in santa pace.

    Tulga poggiò una mano sul braccio di Kyra e attese che si decidesse a metterlo a fuoco.

    «Lui svenuto» affermò, come se l’ovvietà del fatto avesse bisogno di un’ulteriore conferma.

    Ancora una volta Kyra non lo degnò di una risposta. Esaminò con odio una crepa nel terreno, imprecò, tornò a fissare la sagoma immobile di suo padre, per poi ripetere il ciclo una seconda volta. Tulga aumentò la stretta sul suo braccio.

    «Basta, Malakai.»

    Finalmente ottenne un briciolo della sua attenzione. Quel nome la mandava in bestia, per qualche oscuro motivo.

    «Cosa vuoi da me?» sbraitò la guerriera «Non ti avevo ordinato di startene fuori dai piedi?»

    «Battaglia finita, non più pericolo per me. Adesso aiutarti.»

    «Aiutarmi?»

    Kyra non pareva in grado di capire.

    «Tuo padre?» indicò il barbaro «Lui bisogno di cure. Noi portare via di qui.»

    Il barbaro sapeva che Malakai era uno spirito e, come tale, non poteva avere una forte connessione con il mondo reale. Non se n’era accorta ma lo scontro aveva prodotto un notevole frastuono. Tulga alzò lo sguardo. Due sentinelle affacciate tra i merli delle mura si sforzavano di capire cosa stesse accadendo là sotto: di certo avrebbero inviato una squadra per far luce sugli eventi. Molto meglio tagliar la corda subito che dover esporre fatti tanto assurdi davanti a un plotone di soldati.

    Lo spiegò a Kyra con le parole più efficaci del suo scarso vocabolario. Alla fine lei strinse le labbra e gli diede retta.

    «Dove?» domandò.

    Tulga si grattò la fronte.

    «Noi passare villaggio poco fa. Attraversato al galoppo, proprio quando io bisogno di... ehm... Tu ricorda, sì?»

    Kyra annuì. Se lo ricordava, un piccolo centro abitato che avevano oltrepassato di gran carriera. Potevano trovarvi aiuto, o almeno un letto dove Dorian potesse riprendere le forze e i sensi. Lei stessa vedeva un mare di lucette colorate danzarle davanti agli occhi: per quanto ancora sarebbe riuscita a reggersi in piedi? Cancellati dubbi e cattivi pensieri, occorreva svignarsela al più presto.

    «Il cavallo» ordinò.

    Tulga cercò la bestia con gli occhi e la trovò intenta a brucare l’erba generosa all’ombra delle mura. Corse a riprenderla.

    Kyra cullò Dorian tra le braccia. Il sangue aveva smesso di scorrere dal foro dove Nahash l’aveva trafitto con l’arma improvvisata, ma i bordi si erano gonfiati. Un alone bluastro irradiava dalle vene turgide vicino all’orecchio. Non le piaceva per niente. Suo padre aveva riportato almeno una mezza dozzina di ferite durante la lotta, ma nessun’altra destava la sua apprensione come quel minuscolo foro.

    Recuperò da terra il frammento d’osso, attenta a non toccare le ultime gocce di liquido appiccicoso che stillavano dall’estremità. Cos’era quella roba? Perché Dorian le era parso tanto terrorizzato, prima di scivolare nell’oblio?

    Gli accarezzò una guancia, avvertì sul dorso delle dita il graffio della barba che nasceva. Dorian era così diverso dall’immagine che aveva inseguito attraverso il Regno per settimane, con quel taglio di capelli e le labbra incorniciate dal pizzo biondo. Anche i lineamenti sembravano alterati, meno carne e più osso, la pelle intaccata da rughe profonde.

    Sembrava vecchio, indifeso.

    Suo padre.

    Gli prese una mano, la strinse forte, cercò di scacciare il groppo di lacrime che le nasceva in gola. Sembrava che appena un giorno fosse trascorso, dalla prima volta che quelle dita callose avevano avvolto le sue in una stretta gentile, per accompagnarla verso il futuro. Cos’era accaduto a quel passato? Dov’erano Abel, Raduan e tutti gli altri? Perché doveva finire in quel modo?

    Perché?

    Un nitrito di protesta del cavallo l’avvisò del ritorno di Tulga.

    Si asciugò l’occhio destro con un gesto brusco. Quello artificiale lo coprì con la benda, perché ormai non poteva più amare, non poteva versare lacrime di dolore, né di felicità. Ma era ancora in grado di odiare, quello sì, e di uccidere, e avrebbe continuato a farlo, finché fosse stato necessario.

    Si alzò in piedi, afferrò il corpo di Dorian sotto le ascelle.

    «Aiutami a sollevarlo.»

    Insieme riuscirono ad accomodarlo sulla sella. Kyra si sedette davanti, in modo che il corpo inerte trattenuto da una cinghia poggiasse contro la sua schiena. Tulga si preparò a una lunga camminata a fianco dell’animale, ma l’entusiasmo di poter finalmente abbandonare quel luogo nefasto superava di gran lunga il pensiero della fatica a venire.

    Il cavallo obbedì allo schiocco di lingua di Kyra e cominciò a muoversi. La guerriera si voltò sulla sella per scrutare un’ultima volta i nemici abbandonati sul campo di battaglia. Non si soffermò più di tanto sull’involucro svuotato dell’Addestratore di Serpenti, né sulle deformità di Shem, lo sterminatore della Compagnia del Viandante.

    Fu a Caleb che dedicò lo sguardo più lungo.

    Il gigante, il signore degli Automi, il peggior incubo della sua vita, ridotto a un blocco di metallo inerte. Morto. Assaporò la parola sulla punta della lingua. Avrebbe ballato di gioia, non ci fosse stato il peso del corpo appoggiato alla sua schiena a rammentarle che non tutto era andato per il meglio.

    «Aren» invocò dentro di sé.

    Le redini crocchiarono nella morsa delle sue dita di acciaio. Rivide il volto barbuto e fiero, gli occhi che sprizzavano idealismo. Una vita che aspirava alla luce e alla giustizia, spenta in un lurido sotterraneo per salvare la sua.

    Se Aren la stava osservando dall’Oltremondo, sperò che avesse assaporato fino in fondo la sua vendetta - e che mettesse una buona parola per lei e per Dorian al cospetto dei freddi Dei del cielo.

    ------

    Il canto degli uccelli si fece strada a poco a poco nella sua coscienza, spingendolo con delicatezza fino al risveglio.

    Senza aprire gli occhi, Dorian passò le dita sul tessuto setoso delle lenzuola, tastò la superficie del materasso sotto la sua schiena. Sorrise, beandosi del contatto del morbido cuscino di piume sulla nuca e sulle guance. Un bel letto confortevole, proprio come lo aveva sognato. Nelle narici il profumo invitante del pane appena sfornato, sulla pelle la calda luce del sole. Non aveva bisogno di sollevare le palpebre per sapere che i raggi penetravano da una finestra della stanza, per baciargli il volto e le mani.

    Stanza...

    Ma quale stanza? Quale casa? Dove si trovava?

    Un’ansia sottile strisciò dentro di lui, turbando la perfezione del risveglio. Le dita smisero di accarezzare le lenzuola, le stropicciarono in una morsa rigida.

    Qual era il suo ultimo ricordo, prima del lungo sonno?

    Spalancò gli occhi, scattò a sedere, una mano schizzò verso l’orecchio. Le dita frementi trovarono una benda, e tanto bastò per farlo sprofondare nell’angoscia più cupa.

    «Eccolo, shhh, il tuo futuro! La sofferenza, la trasformazione... lunga e dolorosa!»

    Le parole di Nahash gli riempirono la bocca del sapore della bile, il braccio gli ricadde sul letto privo di forze.

    Era così, dunque.

    La sua mente traboccò di immagini ripugnanti, della notte in cui aveva visto Shem all’opera sui poveri abitanti del villaggio. Li aveva punti con quell’aculeo - lo stesso usato da Nahash per infilzarlo - e poche ore dopo la mutazione era iniziata.

    Si frizionò le tempie con vigore, nel tentativo di scacciare la parola dalla propria mente.

    Demoni.

    Erano diventati tutti quanti dei Demoni.

    Quanto tempo gli restava?

    Un rumore nell’angolo più in ombra della stanza gli svelò la discreta presenza di Kyra. Sua figlia sonnecchiava rannicchiata su una sedia imbottita, il mento appoggiato sulle ginocchia. Nel sonno, era scivolata giù fin quasi a terra. Doveva aver passato l’intera notte al suo fianco.

    «Figlia mia...» pensò Dorian, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime.

    Come avrebbe fatto a dirglielo? Dopo le sofferenze che lei aveva patito per ritrovarlo, dopo i pericoli e le privazioni che aveva affrontato, tutto per niente!

    Almeno l’ultimo atto di quell’assurda tragedia doveva risparmiarglielo. Non l’avrebbe costretta ad assistere al dramma della sua rovina, a spartire il suo calice colmo di orrore e sofferenza.

    Si sollevò a sedere nel modo più

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