Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Voci nel vento
Voci nel vento
Voci nel vento
E-book334 pagine5 ore

Voci nel vento

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

I fantasmi della guerra non riposano mai. E ti cercano ovunque, anche oltreoceano. È ciò che accade a Danilo Aracki, uno degli ultimi eredi di una famiglia serba che, generazione dopo generazione, ha attraversato tutti i conflitti del Novecento. Gli spettri del passato non lo lasciano mai solo: quelli del nonno Luka, del padre Stevan, della sorella Veta, tutti protagonisti di drammatiche storie in tempo di guerra. Poi ci sono i vivi: i bambini dell’orfanotrofio di Jasenak, i ricoverati degli ospedali psichiatrici dove Danilo ha lavorato, in Serbia, in Germania e negli Stati Uniti. In fuga dalla sua madrepatria, perseguitato dai ricordi, Danilo cerca rifugio in una comunità di nativi americani nel Midwest; ma la diaspora della sua famiglia non lo abbandonerà neppure lì. Voci nel vento di Grozdana Olujic è un avvincente romanzo corale, in cui le radici e i destini di un’intera famiglia si intrecciano a quelli di una terra tormentata, senza pace.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2018
ISBN9788864792071
Voci nel vento

Correlato a Voci nel vento

Ebook correlati

Articoli correlati

Recensioni su Voci nel vento

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Voci nel vento - Grozdana Olujic

    Ecco quello che l’anima mia cerca ancora,

    senza ch’io l’abbia trovato

    ECCLESIASTE 7:28

    Al 17° piano dell’albergo a New York, in un veloce cambio di immagini, come prima del sonno o del risveglio, Danilo Aracki sentì di non essere solo nella stanza. Stese il braccio per accendere una lampada che non c’era. Neanche il comodino. Solo le colorate luci della pubblicità tagliavano il vuoto e la semioscurità, illuminando una parte della guancia e dei capelli di una donna appoggiata alla sua spalla. Chi era quella donna e come mai si trovava nel suo letto? Tramortito dal lungo viaggio e dal non dormire, Danilo Aracki sussultò quando si accorse del movimento del caldo corpo della donna che gli toccava la coscia con le dita della mano piene di anelli.

    ‘Fantastico’, pensò, ‘una stanza mai vista, una donna sconosciuta, qui non mi troveranno!’.

    «Credi?» dall’oscurità, nella quale si accavallavano le ombre degli Aracki, giunse la voce soffocata di Veta, accompagnata dal tossicchiare del dott. Luka Aracki – tossiva sempre quando si agitava, sforzandosi di non essere scoperto dal Piccolo Rosso. Il Piccolo Rosso, sì, così lo chiamava accarezzando con il palmo della mano la capigliatura rossa del ragazzo. Dietro le palpebre chiuse, Danilo Aracki vide di nuovo se stesso a tre anni mentre caracollava con le gambette nude dietro il suo leggendario nonno attento a non calpestare il virgulto appena spuntato che, piantato dalla mano del vecchio guerriero, sbocciava e fioriva dappertutto.

    ‘Ehi, è passato tanto tempo!’ sospirò Danilo Aracki. ‘E tuttavia mi hanno trovato anche dall’altra parte del mondo!’.

    «Perché non potevamo non trovarti!» scatarrò Luka Aracki, a bassissima voce, e Danilo rabbrividì.

    Cosa voleva dire?

    Dai tempi delle loro morti fino a quella notte a Lexington Avenue era passata un’eternità, c’erano di mezzo metà Europa e l’acqua scura dell’Atlantico. Mi avrebbero potuto evitare almeno una volta, disse fra sé, non sapendo che le vie dei morti sono più incomprensibili di quelle del Signore…

    Una serie di sussulti percorse la sua colonna vertebrale. «Tornate alle vostre tombe e lasciatemi in pace…» singhiozzò quando notò che da dietro le tende ondulanti si staccava l’ombra della sorella, chiedendogli se fosse possibile che avesse dimenticato che loro non avevano tombe, che non le avevano mai avute.

    Lungo i capelli neri di Veta scivolavano gocce d’acqua che si trasformavano in una brillante pozzanghera in fondo alla stanza. Dio mio, fino a quando si sarebbe riversata dal suo corpo l’acqua del fiume nel quale era scomparsa? Fino a quando l’avrebbero seguito e gli avrebbero ricordato che non avevano un posto dove tornare? E non ce l’avevano proprio…

    Solo che lui non poteva essere responsabile di tutti gli Aracki di questo mondo!

    «Credi?» la voce che giunse dalla folla di ombre fu poco chiara e appena percettibile. «Noi esistiamo solo attraverso te…».

    «E bravi, l’avete proprio trovata la persona attraverso cui esistere!» Danilo si sbatté il cuscino sul viso e la stanza fu coperta da un silenzio greve e mucoso, nel quale si sentiva il calpestio dal fondo della strada e lo stillicidio dell’acqua che scivolava dai capelli di Veta. Se solo per un bel po’ di tempo avesse fatto finta di non vederli né sentirli, si sarebbero azzittite le loro voci, si sarebbero dileguate le loro ombre – se solo, almeno per quella volta, non fosse stato inutile scappare sperando che non l’avrebbero trovato dall’altra parte del mondo. «E invece l’hanno trovato nella metropolitana, nei canneti vicino a Karanovo e Jasenak, sulla riva del mare, nelle strade tortuose come canyon, sulle cime delle montagne!» annotò l’anonimo cronista della «Cronaca di Karanovo», presentando come documento l’intrecciata mappa dei viaggi di Danilo Aracki da Karanovo e Jasenak, fino ad Amburgo, Belgrado, New York, Hickory Hill.

    L’autore della «Cronaca di Karanovo» tralasciava alcune importanti tappe di quei viaggi. Forse per trascuratezza, o forse per convinzione che tutto quello che non era legato a Karanovo e alla famiglia Aracki, una volta così potente, non aveva nessuna importanza.

    «Chiacchiere!» disse Danilo tra sé e cercò di sprofondare nel sonno. Ma era proprio il sonno a evitarlo quell’ultima notte a New York, come del resto la prima, quando lungo le finestre dell’albergo Atherton scivolavano giù corpi umani andando a sbattere sordamente sull’asfalto. ‘Me lo sarò sognato?’, pensò, ma solo allora capì che quello che accadeva non era affatto uno dei suoi incubi. I giorni seguenti tutti i giornali di New York scrivevano sui suicidi dell’Atherton, sui ragionieri invecchiati, sulle infermiere, sulle insegnanti, le cui abitazioni venivano distrutte per lasciare il posto a edifici le cui cime si perdevano tra le nuvole e dove ormai non c’era più spazio per gli ex inquilini. Stanzette con i bagni in comune diventavano la loro ultima dimora – finché c’erano i risparmi. Finiti questi, l’unica via d’uscita era attraverso la finestra.

    Allora, su Lexington Avenue, lui ancora non lo sapeva, ma seguendo le ombre che oscuravano per un attimo le sue finestre avvertì che stava accadendo qualcosa di terribile; prestò ascolto alle voci degli ubriachi in fondo alla strada, soffermò lo sguardo sulle finestre illuminate degli edifici vicini i cui inquilini camminavano l’uno sull’altro, mangiavano, si accoppiavano, litigavano, spegnevano le luci e scomparivano nell’oscurità.

    Già durante la seconda notte a New York, non gli interessavano più le mostruose vite di quegli inquilini. Solo l’Atherton, con quel sordo tonfo dei corpi umani sull’asfalto, pulsava in lui come una ferita aperta, sebbene non sapesse che avrebbe ricordato nello stesso modo anche quella notte con una sconosciuta nel letto, confuso dalla velocità con la quale i destini degli Aracki, in quella sua ultima notte newyorchese, attraversavano i suoi ricordi, prova evidente che le vite degli antenati, attaccate alle vite dei discendenti, non smettevano di ripetersi, di durare.

    ‘Come e in quale ricordo io vivrò?’ si chiese Danilo con lo sguardo fisso sull’incessante carrellata di luce sulla spalla nuda della donna; il viso di lei arretrava coperto dai ciuffi dei capelli biondi. Si vedeva chiaramente solo la vena azzurra che si alzava e si abbassava sul collo.

    Quella donna, giovane e pienotta, navigava per acque che solo lei conosceva, il suo respiro nel sonno era sonoro, mentre le ombre degli Aracki si mescolavano alle luci del cielo newyorchese cosparso di piccole stelle spente. Chi era quella donna? E come si era trovata nel suo letto? Danilo le mise il braccio sul petto e sorrise.

    «Buona notte e buona navigazione, Danilo Aracki!» sussurrò a se stesso, e iniziò a navigare nella morbidezza di quel corpo femminile, sorpreso dalla sua arrendevolezza e dalla forza della propria brama.

    Senza svegliarsi, quella donna lo accolse in sé e continuò a russare.

    «Fantastico, bellezza!» Danilo sorrise e fissò l’edificio di fronte colorato dai messaggi luminosi: dove si può passare la notte a poco prezzo, mangiare, curarsi, morire, usufruendo di «Royal Hospitals» e «Imperial Funerals»!

    «Funerals?».

    Qualche giorno dopo avrebbe dovuto decidere se rimanere o lasciare l’America per sempre. Ma esisteva un ‘per sempre’? E se invece tutto non accadeva per caso: l’amore, l’odio, la morte e la vita? Forse tutto non era altro che un continuo ripetersi di quello che era accaduto a un antico Aracki, che si era intrufolato in un sogno nelle tenebrose foreste della Transcarpazia, e da quel sogno ne era uscito fissando la forte corrente di un fiume. E lì sulla sponda di quel fiume, secondo la leggenda della famiglia, aveva fondato la prima casa, la prima a Karanovo, non sapendo di mettere le fondamenta sul fondo del Mar Pannonico, scomparso nel Mar Nero, insieme alle conchiglie, ai pesci, alle ondine e ai mostri di ogni specie, conservando solo il proprio nome.

    Improvvisamente Danilo Aracki tremò: forse era la tenebra delle foreste transcarpatiche che si risvegliava di nuovo in lui o le migrazioni erano il destino degli Aracki che non riuscivano a mettere radici da nessuna parte e moltiplicarsi senza guerra, senza fughe, senza una morte brusca e brutale.

    «Ma le guerre scoppiano e non finiscono mai!» annotava il puntuale cronista della «Cronaca di Karanovo», tralasciando i nomi delle parti belligeranti e il periodo dei loro scontri – rafforzando in Danilo la sfiducia nella possibilità di realizzare qualsiasi pace durevole nel futuro, come se la guerra fosse proprio là alle porte.

    Questo «Suggeritore del sogno di Dio», come il cronista della «Cronaca di Karanovo» definiva se stesso, non avvertiva, né vedeva, né credeva che esistesse un mondo più felice.

    * * *

    La donna si spostò alle spalle di Danilo e balbettò qualcosa in una lingua baltica. Danilo non riuscì a capire cosa, così come non poté ricordarsi se lei fosse stata già a letto quando aveva appoggiato la testa sul cuscino, a luci spente, o se si fosse infilata nella stanza mentre lui stava già dormendo. Buttato sulla sedia, il vestito della donna biancheggiava mentre le ombre degli Aracki ora apparivano ora scomparivano, reali solo nei ricordi di Danilo e sulle pagine rovinate della «Cronaca di Karanovo», trovata in un polveroso antiquariato di libri a Tartu, vicino alla sponda orientale del Mar Baltico. Danilo era totalmente all’oscuro di come il libro fosse stato portato via fino ad Amburgo e in seguito a Belgrado. Un uomo anziano, prima di morire l’aveva dato al dott. Luka Aracki in segno di gratitudine perché quest’ultimo gli aveva salvato la vita. Chissà se sapeva che il dott. Luka Aracki era scomparso da tempo; del resto era rimasto un segreto anche il nome dello stesso uomo anziano, che, a Tartu, alla ricerca di un atlante anatomico stampato 156 anni prima, scoprì, invece, la «Cronaca di Karanovo» dedicata in maggior parte alla famiglia Aracki, la più antica e potente a Karanovo.

    E così quindi, vagando per anni, la «Cronaca di Karanovo» giunse fino al dott. Danilo Aracki. In seguito, molti anni dopo, fino al figlio di Danilo, Damjan, in forma di una parte del «Diario» di Danilo, con il quale, scivolando lungo l’albero genealogico degli Aracki, lo stesso Danilo tentava di far tornare indietro il tempo, convinto che i loro destini di generazione in generazione non andavano avanti, bensì si ripetevano, come l’arido scherzo di qualcuno, convinto che la vita di un uomo ha tanto senso quanto gliene dà l’uomo stesso, se, nel frattempo, non dimentica chi è.

    * * *

    Non è affatto necessario che una profonda vecchiaia sia alle porte perché ciò si avveri. Qualcuno una volta pronunciò queste parole e lui le ricordò e conservò nella memoria insieme con tante altre ugualmente insignificanti.

    Un giorno freddo e il mulinello del fogliame di betulla nel vento… Da quale vita quel ricordo dei primi segni dell’autunno arrivò fino a lui, mentre fissava la Rossa, la cui guancia era appoggiata al tronco dell’albero? Con chi parlava lei passando da un albero all’altro, circondata dai padiglioni con le inferriate, sotto un cielo cupo, su un sentiero senza anima viva nel cerchio delle stalle principesche di una volta trasformate nell’ospedale psichiatrico a Guberevac? Violando la regola di non parlare ai malati senza la presenza di un medico o di un infermiere, il dott. Danilo Aracki, stagista a Guberevac, si avvicinò alla Rossa chiedendole chi fosse colui che cercava, che cosa stesse cercando. La risposta che cercava un tronco che le aveva imprigionato l’anima gli sembrò prima ridicola e poi terribile. No, non solo l’anima, ma anche il nome. La ragazza compassionevolmente sorrise spiegando che quello era il motivo per cui vagabondava senza un nome, sconosciuta perfino a se stessa. Ecco perché. Perché? Perché, finché non trovava il proprio nome, lei era un sassolino sul sentiero o un fiocco di neve che il primo raggio di sole avrebbe trasformato in una goccia d’acqua, o ancora in qualcosa di più insensato, di anonimo.

    «I medici e gli infermieri sicuramente conoscono il tuo nome…» borbottò Aracki.

    «Credi?». La Rossa si aggrappò sempre di più al tronco. «Se lo sapessero non mi chiamerebbero Milena e qualche volta Ruža!». La ragazza tacque e gli volse le spalle. Che non le chiedesse più niente, le parole fuggivano da lei come uccelli spaventati. Riempiva inutilmente i fogli di un quaderno colorato con i ricordi dei nomi delle cose. Il mondo intorno a lei crollava più velocemente di un fazzoletto sfilacciato. Invano i medici si sforzavano di inciderle nella coscienza il suo nome, quando il suo vero nome era proprio Ruža. Ruža Rašula, bambina senza genitori, cresciuta negli orfanotrofi, come lui, decisa a trovare i genitori e i parenti, a sapere chi era, a scoprire il tronco che le aveva rubato l’anima. Ma la ragazza non credeva che il suo vero nome fosse Ruža Rašula. Che nome stupido, rideva. Si rifiutava di rispondere alle domande dei medici, rifiutava il cibo, non si lavava più, né dormiva, né conversava con i malati e gli infermieri.

    «Ti chiami Ruža! Ruža Rašula!» il dott. Danilo Aracki in tutti i modi cercava di aiutare la sua prima malata, meravigliato dalla velocità con cui la ragazza si perdeva. Aveva appena ventitré, forse venticinque anni. L’Alzheimer a quell’età è molto raro, tuttavia Ruža Rašula improvvisamente non fu in grado di ricordarsi niente. Nascosta nel tronco di un albero si trovava la chiave che avrebbe potuto liberare la sua anima, solo che lei non sapeva dove fosse quell’albero, né dove fosse quella chiave. Ruža Rašula non era il suo nome, sussurrava. Non lo era. Non lo era.

    Ruža Rašula improvvisamente scomparve.

    Deciso a non curare braccia e gambe spezzate, Danilo Aracki tentò di sapere che ne fosse stato di lei. Inutilmente. La vide un’altra volta, quando il Paese¹ iniziò a frantumarsi. Forse il suo pietoso sorriso significava che l’aveva riconosciuto? Non trovava una risposta, così come non era del tutto sicuro che fosse veramente Ruža Rašula, e non un’altra ragazza dai capelli rossi, ad attraversare la strada con il semaforo rosso e a scomparire nella folla di visi sconosciuti senza neanche girarsi.

    * * *

    Andarsene o tornare? Ricordare o dimenticare? Se avesse potuto scegliere, Danilo Aracki non era sicuro di cosa avrebbe scelto.

    * * *

    Se almeno i suoi Aracki l’avessero dimenticato e avessero interrotto quel legame sul quale né lo spazio né il tempo avevano potere, forse avrebbero messo fine anche a quelle visite. Tutto quello che sapeva su di loro proveniva dai ricordi nebbiosi degli abitanti di Karanovo, che avevano trasformato le vite di tutti gli Aracki in un mito sulla bellezza e sul malocchio. Nella «Cronaca di Karanovo» tuttavia era evidente la possibilità che non si trattasse solo di bellezza, ma anche di una certa pazzia latente. Perché cos’altro era, se non pazzia, l’incomprensibile rifiuto della medaglia al coraggio, il rifiuto del grado di colonnello da parte di Luka Aracki? Cos’altro era la sua dichiarazione che tutte le guerre erano una maledizione, alle quali lui non voleva partecipare, cos’altro era l’affermazione che dopo le guerre balcaniche e la Prima guerra mondiale tutte le guerre erano morte per lui e per questo aveva destinato la sua uniforme alle fiamme?

    A pagina 23 della «Cronaca» il creatore della leggenda sugli Aracki a un certo punto si arrestò per poi annotare, più avanti, preso dalla totale ammirazione per Luka Aracki, che né lui né Karanovo riuscivano a comprendere il rifiuto di Luka di servire ancora presso il Comando Generale.

    «Un giorno sarebbe apparso forse con le spalline da generale, così importanti per sua moglie Petrana, per la quale sospiravano gli ufficiali, i nobili, i giocatori d’azzardo, i ricconi e i poveracci da Karanovo fino a Vienna».

    «Solo i cretini possono rifiutare un tale onore!» scoppiava a dire la bellissima Petrana, e Luka Aracki con un sorriso le sussurrava che suo marito era «uno di quei cretini»! Non era una cosa da niente raggiungere i gradi di generale, ma lui non aveva studiato medicina per imparare a uccidere, bensì a salvare…

    E così fece finché a Karanovo non entrò il primo carro armato della Seconda guerra mondiale e il borgo si agghindò di stracci bianchi in segno di resa, spaventatissimo dai racconti secondo cui i soldati di Hitler usavano i prigionieri come materia prima per farci sapone.

    In quello stesso attimo qualcuno buttò una bomba a mano su un gruppo di bambini spuntati fuori per vedere il mostro di ferro. Quando e come il dott. Aracki riuscì ad afferrarla al volo e a buttarsi sotto il carrarmato – a Karanovo c’erano diverse interpretazioni. Erano solo d’accordo nel dire che il carrarmato si era trasformato in una fiaccola, come del resto lo stesso Aracki, così che la famiglia non aveva avuto un bel niente da seppellire se non alcune ossa bruciacchiate del vecchio guerriero, alle cui gesta seguirono le leggende che lui, se fosse rimasto vivo, non avrebbe avuto la premura né di attribuirsi né di negare.

    Era sempre stato pronto ad aiutare i malati e le puerpere in ogni momento. In particolar modo le puerpere. Il cronista della «Cronaca di Karanovo» annotò non per caso che, con i bambini venuti al mondo grazie all’intervento del dott. Luka Aracki, si sarebbe potuta popolare una piccola città. L’aborto di un feto immaturo per lui era un peccato più grave dell’omicidio.

    «Ogni bimbo è una benedizione divina!» ripeteva. «E ogni bimbo sarà una felicità per qualcuno, un bel giorno!».

    Ma quale giorno e a chi sarebbero toccati quella felicità o quel dolore la «Cronaca di Karanovo» non lo riportava. A pagina 68 comunque c’era una nota secondo cui «al funerale del dottore e colonnello Luka Aracki aveva presenziato tutta Karanovo e suo nipote dai capelli rossi Danilo aveva dichiarato che il dottor Aracki non era morto. Era volato su in cielo e sarebbe tornato come fiore o uccello, perché nessuno e niente scompare per sempre!».

    «Bisogna solo aspettare!» aggiunse il Piccolo Rosso, impressionando tutti quelli che lo stavano ascoltando, e spaventando tutti quelli che gli volevano bene.

    * * *

    Ma era forse per questo motivo che l’ombra di Luka Aracki si distingueva dalla folla ammassata al 17° piano dell’albergo di New York e toccava il muscolo del Piccolo Rosso.

    «Ti ho promesso che sarei tornato, Danilo! E lo vedi, sono tornato…» la voce di Luca Aracki si azzittì, mentre Danilo tremò ricordandosi della profezia riportata nella «Cronaca di Karanovo» secondo la quale «tutti i maschi della tribù degli Aracki al momento di morire diventano trasparenti e sentono il fruscio delle ali degli angeli».

    Nell’esplosione del carrarmato, il dott. Luka Aracki sicuramente non sentì il fruscio delle ali, sebbene nella «Cronaca di Karanovo» fosse annotata la sua affermazione che «ogni uomo viene al mondo con l’angelo sulla spalla sinistra e il diavolo su quella destra». Chi dei due avrebbe avuto il sopravvento era una questione di fortuna o di destino.

    Fantastico! E che faremo se Danilo, come Natalija a suo tempo, non crederà né all’uno né all’altro?

    * * *

    Se uno degli antenati portasse su una spalla l’angelo e sull’altra il diavolo a Danilo non interessava molto, finché un bel giorno nella «Cronaca di Karanovo» non s’imbatté nell’albero genealogico degli Aracki: un disegno dettagliato di qualche secolo prima. Ma in fondo a cosa serviva? Le radici di ogni creatura umana penetrano non per alcuni secoli ma per alcuni millenni: dal primo pesce-rana sbucato sulla terraferma fino al primo antenato dell’uomo che ha iniziato a camminare eretto. E poi quale colore di capelli, di occhi, di pelle può avere qualcuno, tutto questo è scritto in un’unica cellula dalla quale, come dalle scritture del Libro Sacro degli avventisti, è possibile creare un topo, una pecora o un uomo. Vale lo stesso per l’angelo? O forse per il diavolo?

    In quella soffocante notte newyorchese, accanto a una donna che nel sogno mormorava qualcosa su duecento dollari, Danilo Aracki, affidandosi ai ricordi, a una foto di gruppo conservata nell’occasione di un battesimo, di un matrimonio o di altro, cercava di far rivivere l’albero genealogico degli Aracki. Quella foto, insieme ad altre, di solito lo aiutava a ricordarsi del viso del padre, della madre, dei fratelli e delle sorelle, di Petrana e del nonno Luka Aracki. Sebbene proprio lui non ci fosse in quella foto di gruppo. Poteva darsi che non fosse ancora nato, o forse era accucciato da qualche parte, spaventato dalle voci dei parenti che se lo sbaciucchiavano sulle guance.

    «Lo sguardo del Signore è dappertutto! Tutto vede e tutto sa!» gli tuonava una voce ogni volta che si ricordava di quel ritratto di famiglia, ingiallito, avvizzito dal tempo e dalle migrazioni. Dalle fughe da Karanovo, dall’orfanotrofio a Jasenak, da Belgrado, da Amburgo, da New York…

    «Fughe inutili!» la voce di Luka Aracki, timbrata dagli anni, appena percettibile, lo spinse a saltare sul letto. «Non è possibile scappare da se stessi!».

    «Neanche da voi…» Danilo Aracki sentì un lieve fremito in cima alle dita, accompagnato dall’incredulità che i suoi Aracki fossero riusciti a riconoscerlo tra milioni. Del resto neanche lui si riconosceva più nei ritratti di famiglia, sebbene ricordasse di seguire incessantemente l’alto e ossuto Luka piegato su qualche esile fiore azzurro, il cui profumo lo accompagnava dovunque andasse. Dentro di sé Danilo lo chiamava «il fiore di Luka Aracki», ma non si poteva ricordare se fosse sbocciato accanto alla rosa e alla verbena sulla tomba di suo nonno, proprio un esile fiore azzurro dal forte profumo.

    «È sbocciato, non ne poteva fare a meno!» gli rispose la voce squillante di Veta. «Te ne sei preso cura insieme con tuo nonno! Che, te ne sei dimenticato?».

    A Danilo parve di riconoscere tra le ombre degli Aracki quell’ombra allungata del vecchio guerriero e la propria ombra, da piccolo, mentre gli marciava dietro cercando di sentire che cosa Luka Aracki diceva al fiore. Ma dopo probabilmente capì che era stata solo un’impressione – quando lesse nella «Cronaca di Karanovo» che il suo famoso nonno parlava con le piante, con gli uccelli e con altre piccole creature luminose che, saltando fuori dai frutti caduti del noce quando la luna era piena, cantavano, ridevano e poi sparivano.

    Se veramente fossero mai esistiti.

    * * *

    Mentre l’universo fruscia

    Come un’anima sonora…

    M.B.

    Circondato da spettrali torri di vetro, da luci che si intrecciavano, Danilo Aracki rabbrividì. La stanza era reale e la donna il cui fiato caldo gli scottava il collo era reale, sebbene, abbagliato dalle luci della pubblicità, non riuscisse a guardarle il viso. Ecco perché sulla sua spalla nuda si riflettevano, scambiandosi, i messaggi scritti dai fasci di luce degli edifici circostanti. «Try Our Imperial Burgers», «Be Part of a Majestic Entertainment»… Non era necessario leggere oltre. Sapeva: tutto sarà «Royal», «Imperial», «Majestic», come se quella grande terra costruita sugli incroci di ferventi religiosi, assassini e fuggitivi di tutte le specie, aspirasse ardentemente a un’aura aristocratica dei propri patri lidi europei, mentre ai confini del deserto spuntavano «Royal Mental Hospitals» e bordelli nei quali ‘nobildonne’ dai nomi altisonanti offrivano i propri servizi: del resto sia le ragazze che i visitatori sapevano di cosa si trattava, quindi accettavano di buon grado il dolce inganno.

    Ma anche la sua terra, che si stava disfacendo velocemente, accettava lo stesso inganno? Danilo sentì che i brividi si impadronivano di tutto il suo corpo, dal quale poi sarebbe sgorgato il sudore, motivo per cui sua moglie Marta, già dopo la prima settimana di vita in comune, si era convinta a chiedergli un letto separato e poi anche una stanza. Nel «Diario» di Danilo Aracki, che solo molto più tardi sarebbe capitato nelle mani del figlio Damjan, il 27 settembre era segnato come data della «prima notte in letti separati», alcuni anni prima che Danilo andasse in Germania, e poi in America, dove nel viale conosciuto per i senzatetto e i suicidi provò il terrore dell’Atherton e l’incontro con le ombre degli antenati, convinti che ogni suo nuovo giorno prolungava la loro permanenza sulla terra.

    Improvvisamente, come una scossa di terremoto, Danilo sentì il battito del sangue nelle orecchie, avvertì alcuni passi silenziosi nel buio e vide che sul suo letto si piegavano delle ombre, si dileguavano per poi radunarsi di nuovo.

    «Siete di nuovo tornati qui» disse arrabbiato.

    «E che altro ti aspettavi?» una profonda voce maschile nel buio aveva un tono offeso. Non riusciva a riconoscere il padrone di quella voce. La stanza era completamente buia, ma dopo qualche attimo una cascata di luce sarebbe di nuovo balzata attraverso la finestra, con nuovi messaggi o ancora con i vecchi, era lo stesso, comunque non voleva perderci la testa con gli indovinelli e quindi sibilò:

    «Fuori di qui! Qui siete degli estranei! Tornatevene là da dove siete venuti…».

    «Ti è stato detto che non abbiamo dove tornare!». La leggera mano di Veta si appoggiò sulla sua spalla e passò sui suoi capelli rossi teneramente e commiserevolmente, così come aveva sempre fatto quando lo voleva confortare, ripetendo che solo gli angeli e i maghi hanno una capigliatura che dentro di sé nasconde la fiamma e l’oro.

    «Non dire stupidaggini, Veta!». Quante volte, prima, Natalija Aracki l’aveva rimproverata perché era scontenta che il Piccolo Rosso si distinguesse in modo così evidente non solo dagli altri bambini di Karanovo, ma anche dai fratelli e dalle sorelle.

    Ma Veta gli voleva bene proprio per quello e perfino da morta era riuscita a conservare un po’ di tenerezza per il Piccolo Rosso, così come lo chiamava, sulle orme del nonno, anche il resto della famiglia, anche se segretamente temevano che quella capigliatura color fuoco forse non fosse così casuale, né portasse bene, così come erano nefaste quelle stelle a coda che tranciavano il cielo su Karanovo, annunciando guerre e incendi, sebbene nei Balcani non ci fosse bisogno di questi annunci. Guerre e incendi arrivavano da soli.

    Lo stillicidio dai capelli della sorella aumentava. Oddio, fino a quando sarebbe durato, fino a quando avrebbe lasciato una traccia umida sui posti dove le gocce cadevano! Danilo Aracki tremò e si alzò dal letto.

    Le gocce dai capelli di Veta cadevano su di lui come una pioggia di piombo, come quel ghiaccio nel quale era scivolata durante il terzo anno di guerra.

    Nell’intreccio delle luci di New York, Danilo sentì che il palmo di Veta toccava la sua guancia. Quando l’avrebbe allontanato, lo sapeva, lungo la sua pelle sarebbe scivolato via un fiotto d’acqua, di sudore, di qualcosa.

    * * *

    Poi tutto cambiò…

    Salterellando qua e là il Piccolo Rosso ascoltava il nonno Luka ammonire la nipotina coccolona Veta a non uscire di casa quando era buio, ma lei ridacchiava impertinente. «L’Occhio del Signore tutto vede!» ripeteva.

    «Proprio tutto?» chiedeva la bambina con disprezzo. Era mai possibile che il suo famoso nonno ci credesse? A quattordici anni quella storia già le pareva piena di buchi. Quell’Occhio che vedeva tutto, che sapeva tutto, sarebbe allora dovuto essere a conoscenza dei debiti

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1