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Il delitto dell'Abbazia. Sfida al Vaticano
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E-book255 pagine3 ore

Il delitto dell'Abbazia. Sfida al Vaticano

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Il romanzo giallo è gioco di maschere. Il male invece è altra cosa e la massima sua esaltazione è sapersi nascondere: per confondere, per tenere lontano sospetti e sospettosi.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ago 2022
ISBN9788894617580
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    Anteprima del libro

    Il delitto dell'Abbazia. Sfida al Vaticano - Lello Vecchiarino

    PROLOGO

    «Allora, ci vediamo domani?»

    «No, lo sai che la domenica ho sempre da fare.»

    «Ma che cazzo avrai da fare ogni domenica? Capirei se andassi per le campagne a fare cicoria o bieta selvatica, ma te ne vai in giro con quel coso, truc-truc-truc e non trovi mai niente. O mi racconti cazzate o ti sei montato la testa, Vena’.»

    «Tu non hai mai capito niente di matematica a scuola, figuriamoci se capiresti di archeologia, oggi che stai coltivando qualche capello bianco.»

    «E meno male che ci sei tu! È arrivato l’Indiana Jones molisano, con quei quattro pupazzetti di pietra che ha trovato. Stammi a sentire: tu prima o poi finisci nei guai, con le tue domeniche da boy-scout sull’orlo del pensionamento. Perché non scrivi un manuale del perfetto esploratore?»

    «Se è per questo, l’ho già scritto, testa di cazzo!»

    «Eh, il manuale delle Giovani Marmotte, hai scritto. Ma vaffanculo. Ti saluto, e stai attento alle vipere.»

    Anche se di domenica, quello spicchio di mondo antico in agro di Serracapiola occorreva guardarlo con gli occhi di un remoto sogno svaporato alla fine di un letargo agitato da fantasmi. Soltanto così, con uno spasmo di fantasia, si attivava un singolare meccanismo interiore che, come l’usta dei cani, permetteva a singolari visitatori di mettersi alla ricerca di schegge di storia, a volta impastate alla morte. Anche se di domenica, perché la Morte non conosce week-end né feste comandate. E proprio lì, nel silenzio lungo e sottile di secoli e secoli.

    Venanzio Truscio amava definirsi storico locale e scrittore di cose patrie, e proprio da sedicente scrittore si era sovente trovato di fronte al dilemma del narrare lungo o narrare breve: non aveva letto Maupassant né Fenoglio, e neppure Hemingway o studiato la tecnica narrativa di Ballard. Truscio quel dilemma lo aveva risolto offrendosi a destra e a manca come autore di prefazioni, non riuscendo a realizzare quel che nel suo intimo desiderava: essere considerato un letterato a tutto tondo, soprattutto da quelli che lo schernivano per aver egli pagato di tasca propria la tipografia per qualche libro che si era fatto stampare. Tuttavia, non si poteva nemmeno dire che le sue prefazioni fossero manchevoli di ricerche sul campo: in questo era meticoloso, a ragione della sua curiosità quasi maniacale. E non si curava di chi lo avvertiva scrivendogli che la curiosità uccise il gatto.

    Neppure fra il labirinto delle parole che costruiva in ogni prefazione riusciva a nascondere il suo desiderio di diventare valente autore di racconti – brevi o lunghi che fossero - a nulla valendo il subdolo tentativo di dissimulare una prefazione, la quale sovente si porta nel proprio destino il salto di pagine a piè pari compiuto dal lettore.

    Alla fine di settembre, era una domenica con scarso sole malato che si faceva presagio di autunno, si avviò verso un luogo che in passato aveva interessato archeologi, studiosi e predatori d’ogni risma e provenienza. Un luogo che per segni antichi, vegetazione votata al selvatico, ruderi e pietre segnate dalla storia sembrava attingere dal mistero la sua disperata desolazione di sito preistorico, e per meglio dire paleolitico.

    L’impiegato statale Truscio Venanzio aveva sempre avuto inclinazione allo scavo; guai però a chiamarlo tombarolo, come pure un suo collega si era spinto a definirlo quando Venanzio incautamente gli concesse di vedere, ma soltanto in fotografia, le sue scoperte che teneva ben celate.

    Quella domenica parcheggiò il suo Suv nel piccolo spiazzo di terra battuta, a pochi metri dal bordo della strada asfaltata. Scendendo dalla vettura, prese lo zaino e uno strano attrezzo. Controllò che nello zaino vi fosse ogni cosa utile per quel che doveva fare. E sbottò: «Glielo avevo detto, di non mettere i soliti biscotti: non mi piacciono e poi li ritrovo tutti sbriciolati. Ma niente da fare…» L’uomo imprecò parlando a se stesso, epperò rivolgendosi alla moglie, che in quel momento si trovava a una trentina di chilometri distante da lui e dai suoi stramaledetti biscotti.

    Era solo, come sempre nelle sue missioni, ma armato del solito strumento che aveva già cominciato a cicaleggiare nelle cuffie auricolari, quando il disco metallico collegato a un’asta era passato sopra una zolla rinsecchita.

    Di gran lena tornò sui suoi passi, a prendere dal Suv una zappetta e una lunga sonda di ferro, e subito cominciò a scavare nel punto dove il metal detector aveva indicato, cicaleggiando nelle cuffie, la presenza di qualcosa che avrebbe potuto interessargli.

    La delusione ebbe forma di arrugginito tappo d’un radiatore, che sotto quella zolla aveva trascorso chissà quante alterne stagioni. Era ben strano quel tappo trovato in aperta campagna, lontano dalla strada che conduceva a Termoli. L’uomo guardò perplesso il suo fuoristrada, e si diede una risposta: altri tombaroli come lui avevano solcato quel terreno, magari scavato e trovato reperti del Paleolitico che in quel posto pare abbondassero. Dallo zaino prese la bustina dei biscotti in briciole, l’aprì e ne sparse il frantume al vento, a beneficio degli uccelli. Poi, svitò il tappo-bicchiere del thermos e mandò giù una quantità di caffè che a misura d’occhio superava due tazzine da bar. Avvertì imperioso il desiderio di fumare una sigaretta, nonostante avesse smesso di farlo ch’era oltre un anno.

    Meglio spostarsi. E si spostò a bordo del fuoristrada. Conosceva i luoghi, e a 4 chilometri da San Matteo-Chiantinelle, il posto dove si trovava, distante 8 chilometri da Serracapriola, vi erano i resti di un’antica quanto misteriosa abbazia.

    Anni prima, i soliti ignoti amatori di arte sacra avevano depredato in lungo e in largo asportando finanche una pala d’altare di notevole valore.

    Venanzio ne aveva ascoltato tanti di racconti zampillare dalla ristretta cerchia dei cosiddetti uomini di cultura che dalla vicina San Severo facevano arrivare schizzi di notizie, più o meno interessate, anche oltre il confine pugliese. Notizie che, generate pure da missive anonime o da litigi in punta di penna, finivano per attirare l’interesse della Guardia di Finanza, che non di rado si dedicava a scovare - senza scavare – reperti illegalmente custoditi da privati nei propri appartamenti, a far ornamento, e come elementi di arredo, a lasciar intendere specchiato prestigio e aura di competenza archeologica del proprietario della magione.

    Venanzio entrò nell’ampio spazio che un tempo doveva essere stata la chiesa del convento. Immaginò che fosse stato pure di domenica quel giorno che, forse vent’anni prima, uno stanco ricercatore di antichità entrò nello stesso posto, fra gli stessi ruderi, dove ora pure lui si trovava. Lampi di indistinti racconti mescolati a sprazzi di curiosità ed emozioni cominciarono a farsi memoria, prima che il suo sguardo si posasse su una grande lastra di marmo che aveva considerevole spessore e presentava al centro uno squadrato foro. Forse vent’anni prima o forse qualche lustro in più, per stanchezza quel ricercatore sulla medesima lastra vi si era seduto, a riposare

    Nessuno avrebbe potuto dirlo con lapidaria certezza, ma verosimilmente si trattava della mensa d’altare che antichi monaci lateranensi avevano portato dalle isole Tremiti per ricostruire la chiesa dedicata a Sant’Agata in terra di Serracapriola. Quella lastra aveva al centro, abilmente incastrato, un contenitore di pietra a forma ottagonale e con tondo coperchio di alabastro.

    Era il reliquiario del vescovo di Dragonara (città bizantina, nei pressi di Torremaggiore), Aimerado, vissuto fino all’anno 1045.

    Si narrava pure, in forma di cronaca giornalistica che riportava la testimonianza del presule di San Severo, a cui un tombarolo di lunga pezza, preso da pentimento, avesse confessato ogni cosa a un sant’’uomo come Carmelo Cassati, vescovo, per l’appunto, nella vicina diocesi di San Severo. Carmelo Cassati convinse il reprobo a recarsi in sua compagnia a pregare sui luoghi sacri che aveva profanato frugando nelle tombe dove erano stati anticamente seppelliti i monaci che abitavano l’abbazia. Scheletri di monaci stranamente lunghi più del normale, come se per far parte di quell’ordine monastico fosse stata necessaria statura da corazziere.

    L’uomo del Suv, in verità, non era proprio un tombarolo, ma una specie di studioso autodidatta: aveva finanche scritto qualche piccolo saggio sulle proprie ricerche, ma si era ben guardato dal corredare i suoi scritti con le foto dei ritrovamenti (anfore, statuine e anche un dente di tigre) perché non voleva guai con la legge, carabinieri o finanzieri che fossero. Anzi, reclamava giustizia per un torto subito: a suo dire i propri studi sul sito San Matteo-Chiantinelle erano stati utilizzati, senza citarne provenienza e autore, da alcuni studiosi della provincia di Foggia, che Venanzio avrebbe potuto sì sbugiardare, ma si trattava di un’impresa rischiosa perché avrebbe dovuto presentare come prova di paternità della scoperta proprio i preziosi reperti rinvenuti e fotografati, e che nascondeva in casa, all’insaputa della stessa moglie.

    Il povero Venanzio, insomma, conviveva con la perenne angoscia di essere scoperto e la rabbia per non essere accettato dalla spocchiosa confraternita di studiosi che si vantavano di avere qualche amicizia alla Soprintendenza archeologica.

    Come a voler ricacciare indietro i morsi dei tanti torti subiti senza colpa, s’incamminò a passi lenti, che pure gli procurarono lieve affanno nel risalire il declivio di un falso poggio a ridosso dei resti dell’abbazia medievale. Con la mano a visiera per ripararsi gli occhi dal sole, l’uomo abbracciò con lo sguardo la lontana bellezza della Marina di Serracapriola, e ricordò che alcuni anni prima sulle pagine del più diffuso quotidiano regionale aveva letto che l’imprenditore milanese Silvio Berlusconi sarebbe stato interessato a realizzare, proprio alla Marina di Serra, un moderno e vasto insediamento turistico.

    Correvano gli anni che, con altrettanta veloce fantasia giornalistica tutta meneghina, sarebbero stati definiti gli anni della Milano da bere. Cominciò così un collettivo vagheggiamento nel dissetarsi alla fonte di quello slogan che lasciava intravedere migliaia di posti di lavoro, turismo di alto bordo e tasche piene di soldi per tutti i serrani. Forse c’era qualcuno che potesse mettere in dubbio la legittimità di quel loro insperato diritto di prelazione? Forse che, con ammirazione, non si parlava in paese di un compaesano ingegnere, figlio di un ex assessore democristiano, che si era fatto strada a Milano fino a diventare amico dello stesso Berlusconi e a lavorare nella Edilmont di quest’ultimo? Il suo nome: Antonio D’Adamo, destinato a diventare una potenza nel campo dell’edilizia con un giro di affari di centinaia di miliardi di lire. Le cronache che narrarono della tangentopoli milanese finirono per occuparsi anche dell’Antonio nativo di Serracapriola soprattutto perché vantava solida amicizia con l’altro e più noto Antonio nazionale di quei tempi, il PM Antonio Di Pietro del quale diventò in seguito acerrimo nemico subissandolo di spaventose accuse, che i magistrati di Brescia bollarono come «fandonie». Negli anni ’80 l’eco della potenza del D’Adamo, che intanto aveva fondato la prestigiosa Edilgest, giunse fino alle sponde della costa adriatica su cui si affaccia Serracapriola. Qualche lustro dopo, per identiche vie, arrivò la notizia del suo arresto: i finanzieri prelevarono l’ingegnere serrano nella sua bella villa di Robecco sul Naviglio. Era finito nella polvere per bancarotta e altre torbide vicende giudiziarie, non ultima quella di un’audio-cassetta registrata contro Di Pietro e che l’avvocato Cesare Previti avrebbe consegnato a Berlusconi. Naufragò così, come certi sogni di primo mattino, l’idea di uno sviluppo turistico agognato da tempo.

    Insomma, il progetto non ebbe seguito, eppure aveva acceso molte speranze in quel segmento di costa adriatica appartenente a una provincia le cui schegge di storia e occasioni disperse non erano neppure riuscite a diventare grumo di rimorsi nel petto di una classe politica intenta a lanciare sassi nel buco nero della retorica dei giorni perduti. Non erano mancati tentativi di ripresa, poi, anche qui era stato silenzio.

    Come - per tornare a noi e all’abbazia di Sant’Agata -i silenziosi attimi che foderavano lo scenario di quei muri diruti e stanchi di secoli; i tetti scoperchiati; e ogni volta che Il solitario Venanzio alzava lo sguardo, pareva che occhi e mente gli avessero consegnato la trama di una storia che non conosceva ma che gli piaceva immaginare. Parlava da solo, aggirandosi tra archi pietrosi e cadenti, perché, tutto sommato, non è poi così difficile incontrare un uomo senza amici: si è più liberi di immaginare le trame e i finali di storie altrui, fonderli, commisurarli usando un proprio singolare sistema metrico che muta col mutare dell’emozioni, degli stati d’animo, fino a vedere negli altrui commenti e giudizi quel che intanto si è diventati.

    Camminava rasentando i muri, e le sue Lowa Renegade, scarpe da trekking che diceva di aver «pagate un botto», calpestavano sterpagli e zeppi.

    Cistercensi o canonici domenicani che fossero stati gli antichi abitatori, ricordò di aver letto da qualche parte che essi sommamente conoscevano l’arte di ricavare un raro liquore dalla Glycyrrhiza glabra: liquirizia che lui aveva imparato a riconoscere quando aveva frequentato un corso di Survival in Calabria. Poco distante dai muri di cinta dell’abbazia riconobbe le selvatiche piante, mentre il desiderio di fumare si era ripresentato. Impugnò il coltello e tagliò alcuni tronchetti di radici che sembravano irrimediabilmente avvizziti. Ne decorticò uno, lo assaggiò e lo strinse fra i denti riconoscendo il legnoso, dolciastro sapore: almeno momentaneamente, il desiderio di una sigaretta poté chetarsi.

    Ormai parte della mattinata era volata via senza significative scoperte, mentre il sole pur non trovandosi già alto in cielo lasciava cadere in terra come incontrollati precoci bagliori: lame di luce che attendevano d’infuocarsi col passare delle ore, ma qualcuna di esse provocò comunque baluginio agli occhi dell’uomo che ormai aveva lasciato il metal detector nel Suv. Quello scialbo bagliore lo incuriosì e s’incamminò in direzione del riverbero. Poteva essere di tutto, pure un accendino caduto accidentalmente a un tombarolo della domenica.

    Il bagliore c’era stato e di rimando aveva colpito gli occhi di Venanzio, per la semplice ragione che la fettuccia di sole aveva illuminato la fibbia dorata di una cinta di cuoio bianco.

    Allo stesso modo di un battito del cuore che salti il turno, avvertì un tonfo echeggiargli in petto. La cinta bianca con fibbia dorata era stretta in vita al corpo inanimato di una donna, ricoperto in parte da fogliame e sterpi. Avvertì che l’incontrollato spasmo di un muscolo facciale gli stava lasciando sul volto l’impronta di un ghigno; era terrore.

    Chinandosi su quel corpo senza più respiro, capì che in vita doveva essere stata una donna avvenente. Ora però l’insulto della morte le aveva alterato i segni di ciò che doveva essere stato un bel volto saraceno. Il grigiore del viso, i denti bianchissimi s’intravedevano dalla bocca socchiusa, da cui usciva la punta della lingua, cianotica e nerastra, incutevano paura. Sui denti e sulle labbra, inconfondibili segni lasciati da parte di chi, forse adoperando un oggetto di metallo o di legno, aveva cercato di ricacciare all’indietro la lingua nella cavità orale. La stessa mano che, senza alcuna pietà, non le aveva abbassato le palpebre dopo che la donna aveva esalato l’ultimo alito vitale: gli occhi erano protesi, come se avessero voluto uscire dalle orbite.

    L’uomo sgomentò al pensiero di dover segnalare l’insolito ritrovamento alle forze dell’ordine: lo avrebbero subissato di domande, e dell’inevitabile, dilagante sospetto che lo avrebbe investito già quasi ne sentiva il peso.

    E scappò.

    Sapeva dove andare, e si diresse, a bordo del Suv, verso Serracapriola; ricordava che proprio sul lunghissimo viale che finiva dove si ergeva il bel castello dei Maresca, c’era ancora una cabina che la società dei telefoni aveva dimenticato di smantellare, cosa che invece era accaduto altrove. Non aveva scheda né gettoni, del resto ormai in disuso, ma per quel che doveva fare non sarebbero serviti. Piuttosto, pensò, come camuffare la voce al telefono?

    Chissà attraverso quali labirinti della mente gli si presentò nitida e galleggiante su grovigli di pensieri, la figura del tenente Kojak, del quale aveva seguito tutte le serie televisive, con il suo inseparabile lecca-lecca. Con una di quelle palline zuccherose in bocca si poteva parlare con sicurezza al telefono. Ma non aveva lecca-lecca, né avrebbe potuto entrare in un bar a comprarne: alla sua età e senza avere un bambino con sé, sarebbe stato come attirare sospetti, una volta che fossero iniziate le indagini. Usare un fazzoletto davanti alla bocca, non era il caso: qualche passante lo avrebbe visto e si sarebbe insospettito. In bocca, però, aveva ancora il rametto di liquirizia che nella parte umida era diventato più simile a piccolo, setoloso pennello da barba: avrebbe senz’altro consentito il camuffamento della voce, e dal di fuori avrebbero pensato a un sigaro spento tenuto fra i denti. Digitò sui pulsanti metallici il primo numero di emergenza che gli venne in mente.

    «Pronto, carabinieri?»

    «Sì, chi parla?»

    «C’è il cadavere di una donna vicino all’abbazia di Sant’Agata…». Riattaccò la cornetta.

    E così anche Venanzio seppe che in una domenica provinciale puoi imbatterti in tutto: sospetto, bugie, morte. Lui con la lingua che ardeva di liquirizia si era imbattuto anche nella propria viltà, ma si diede l’assoluzione, ché tanto non lo aveva visto né udito nessuno.

    UNO

    «Insomma, Bell, hai proprio deciso di andartene? Ti prego, rimani ancora un paio di giorni: mi daresti una mano a preparare il ricevimento di venerdì sera.»

    «Caro, ma perché insisti? Ne abbiamo parlato anche ieri. È una settimana che manco da casa, e il laboratorio senza di me va a rilento: le consegne ritardano e già immagino i clienti che protesteranno…L’avvocato Capozzi, quel pappagallo del veterinario Cirfelli, il giovane di studio del notaio Sestilio. Potessi mandarli tutti al diavolo, farei una bella carrettata.»

    «E dai», disse lui, «come se non sapessi che almeno per due volte al giorno ti sei sentita con la tua Luisella, per assicurarti che al laboratorio non ci fossero problemi.»

    «Soltanto di lei mi fido, lo sai! È una brava ragazza e sta con me da quando aveva otto anni… Mai una lite, mai uno screzio o un ritardo sul lavoro.»

    «A proposito, ricorda che per venerdì mattina devi essere qui con la notizia che aspetto!»

    La donna salì in macchina e partì verso la piana, mentre dietro i monti il sole cominciava a nascondersi. Tempo una settimana, e alla tenuta ci sarebbe stato uno di quei ricevimenti che Rutilio era solito organizzare ospitando amici provenienti da ogni parte. E ogni volta il ricevimento si svolgeva seguendo un collaudato copione, a cominciare dalla riunione riservata del dopo-cena che si svolgeva nella casina situata in mezzo agli ulivi, in uno slargo raggiungibile soltanto a piedi. In quella dependance della tenuta, Bellonia non era mai entrata: per espresso divieto di don Rutilio, che le aveva vagamente spiegato trattarsi di riunioni di un circolo dove soltanto i nobili erano ammessi. Come se le avesse certificato la sua appartenenza alla bassa plebe, la donna da quel momento sentì germogliare, stridente nel petto e nella mente, desiderio di rivalsa. Al tempo stesso pure la curiosità andava rabbiosamente lievitando, e quindi, prima di imboccare la provinciale per Lucera, parcheggiò la sua macchina al di fuori del cancello di entrata, nascondendola a ridosso del muro di cinta della masseria, in modo che non si vedesse dai balconi o dalle finestre dell’antica magione. Tornò indietro a piedi,

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