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Storie di paura
Storie di paura
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E-book317 pagine4 ore

Storie di paura

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Info su questo ebook

E se quello che più ci spaventa, il mostro sotto il letto, non fosse così irreale come crediamo?
Paura, occulto e fantascienza.
Storie di mostri e creature, provenienti dalle profondità del mare e della terra, agiscono in una realtà parallela alla nostra, così vicina da sfiorarsi e fondersi.
In questa raccolta sono presenti tutti i simboli, le ambientazioni, le tematiche e i personaggi che hanno reso H.P. Lovecraft uno degli autori dell'orrore più amati della letteratura mondiale.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2024
ISBN9788727128160
Autore

H. P. Lovecraft

Renowned as one of the great horror-writers of all time, H.P. Lovecraft was born in 1890 and lived most of his life in Providence, Rhode Island. Among his many classic horror stories, many of which were published in book form only after his death in 1937, are ‘At the Mountains of Madness and Other Novels of Terror’ (1964), ‘Dagon and Other Macabre Tales’ (1965), and ‘The Horror in the Museum and Other Revisions’ (1970).

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    Storie di paura - H. P. Lovecraft

    H. P. Lovecraft

    Storie di paura

    SAGA Egmont

    Storie di paura

    Original title: Storie di paura

    Original language: English

    Cover image: Freepik

    Copyright ©2023, 2024 H. P. Lovecraft and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727128160 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    La città senza nome

    Quando mi avvicinai alla città senza nome capii che era maledetta. Viaggiavo, sotto la luna, per una valle terribile e riarsa, e la vidi affiorare sinistramente dalle sabbie, come i pezzi di un cadavere potrebbero affiorare da un sepolcro inadeguato. Le pietre corrose di quella veneranda superstite del diluvio, di quella bisnonna della più vecchia piramide, parlavano di paura, e un'aura invisibile mi respinse, mi ordinò di ritirarmi da quel luogo di segreti che nessun uomo dovrebbe vedere, e nessuno infatti aveva visto.

    Remota nel deserto d'Arabia giace la città senza nome, rovinosa e caotica, le basse mura quasi sepolte dalle sabbie di età infinite. Dev'essere stata così già prima che l'uomo ponesse le prime pietre di Menfi, già prima che venissero cotti i mattoni di Babilonia. Nessuna leggenda è così antica da risalire fino ad essa per darle un nome, o per ricordare che fu mai viva un giorno; ma se ne parla in sussurri attorno ai fuochi di campo, e le vecchie ne mormorano nelle tende degli sceicchi, così che tutte le tribù la evitano senza sapere perché. Di questo luogo sognò il poeta pazzo Abdul Alhazred la notte prima di cantare il distico inesplicabile: Non è morto ciò che in eterno può attendere E col passar di strani eoni anche la morte può morire.

    Avrei dovuto sapere che gli arabi avevano buone ragioni per evitare la città senza nome, la città di cui si parla in strani racconti ma che nessun uomo vivo ha mai veduto, eppure non ne tenni conto e proseguii col mio cammello per quella distesa inviolata. Solo io l'ho vista, e questa è la ragione per cui nessun volto reca i segni orribili della paura che porta il mio, e nessun altro uomo trema come me quando il vento notturno batte sui vetri delle finestre. Quando la trovai, nella spettrale immobilità del suo sonno infinito, essa mi guardò, fredda sotto i raggi della luna in mezzo al calore del deserto. E quando le restituii lo sguardo dimenticai il trionfo della scoperta e fermai il mio cammello, deciso a non proseguire prima dell'alba.

    Aspettai per ore, finché a oriente il cielo divenne grigio e le stelle impallidirono, e il grigio si mutò in luce rosata dalle sfumature d'oro. Udii un gemito e vidi un vortice di sabbia aggirarsi fra le antiche pietre: ma il cielo era limpido e le vaste distese del deserto immobili. Improvvisamente all'orizzonte spuntò l'orlo infuocato del sole, che io vedevo attraverso il velo della sabbia vorticante, e nello stato febbrile in cui mi trovavo immaginai di udire da profondità remote un inno musicale e metallico rivolto all'astro in segno di saluto, simile a quello che Memnone gli indirizza dalle sponde del Nilo. Le orecche mi rintronavano e la mia immaginazione ribolliva mentre guidavo lentamente il cammello verso quel luogo quieto, quel luogo che solo io fra tutti i viventi ho veduto.

    Vagai dentro e fuori le fondamenta informi di case e edifici, ma non trovai un solo rilievo, una sola iscrizione che parlasse degli uomini (se di uomini si trattava) che avevano costruito la città e ci avevano vissuto in un tempo così remoto. L'antichità del luogo era malsana, e io mi augurai d'incontrare un segno o uno strumento che rivelassero l'umanità dei costruttori; ma c'erano proporzioni e dimensioni, in quelle rovine, che non mi piacevano. Avevo con me attrezzi d'ogni genere, e con essi scavai nei muri degli edifici dimenticati, ma i progressi erano lenti e non scoprii nulla di significativo. Quando venne la notte e tornò la luna si levò una brezza fredda che mi riempì di paura, sicché non osai rimanere nella città. E quando mi lasciai alle spalle le antiche mura per andare a dormire un piccolo vortice di sabbia si levò gemendo dietro di me, soffiando sulle pietre grigie, sebbene la luna fosse limpida e il resto del deserto immobile.

    Mi svegliai all'alba da un groviglio di sogni mostruosi, le orecchie riem- pite da una specie di concerto metallico. Vidi il sole occhieggiare attraverso gli ultimi vortici della piccola tempesta di sabbia che s'era levata sulla città senza nome, e la luce rossa dell'astro rivelò che il resto del paesaggio era del tutto tranquillo. Di nuovo mi avventurai fra le rovine che giacevano sulla sabbia simili a un orco sotto un mantello, e di nuovo scavai invano alla ricerca di reliquie della razza perduta. A mezzogiorno riposai, e nel pomeriggio passai la maggior parte del tempo a disegnare una mappa delle mura e delle strade scomparse e i profili degli edifici quasi polverizzati. Mi resi conto che la città era stata grande e mi chiesi quale fosse l'origine della sua grandezza. Mi figurai allora gli splendori di un'età così remota che la Caldea non poteva serbarne memoria, e ripensai a Sarnath colpita da una funesta sorte, la città che sorgeva nella terra di Mnar quando l'umanità era giovane, e a Ib, ricavata dalla pietra grigia prima che l'uomo comparisse sulla terra.

    Poi giunsi, tutt'a un tratto, in un luogo dove il letto di roccia sorgeva ripidamente dalla sabbia a formare una bassa scarpata; qui vidi con gioia ciò che sembrava promettere nuove scoperte sul popolo antidiluviano. Intagliate crudamente sulla facciata del declivio stavano le facciate inconfondibili di numerose piccole case - o templi - il cui interno conservava forse il segreto di età così antiche da non poter essere compitate, e dalle cui pareti i vortici di sabbia avevano da lungo cancellato ogni originaria scultura e ornamento.

    Le buie aperture che mi si spalancavano dinanzi erano basse e ingolfate dalla sabbia, ma io ne ripulii una con la vanga e strisciai all'interno, portandomi una torcia per svelare i misteri in cui mi sarei imbattuto. Quando fui dentro vidi che la caverna era effettivamente un tempio, e conservava chiari segni della razza che era vissuta e aveva pregato in quei luoghi prima che il deserto diventasse un deserto. Non erano assenti altari primitivi, colonne e nicchie, tutti curiosamente bassi, e sebbene non vedessi traccia di sculture o affreschi c'erano tuttavia delle pietre singolari cui con mezzi artificiali si era data una chiara forma simbolica. La bassezza della stanza ricavata nella pietra era veramente fuor del comune, perché a stento riuscivo a stare in ginocchio, ma la spaziosità era tale che la mia torcia poteva rivelarne solo una parte alla volta. Spintomi negli angoli più remoti fui preso dai brividi, perché certi altari e certe pietre suggerivano riti dimenticati di natura terribile, rivoltante o inesplicabile; mi chiedevo che specie di uomini avessero eretto e frequentato un tempio del genere, e quando ebbi visto tutto ciò che il luogo conteneva strisciai all'esterno, avido di sco- prire i segreti che gli altri templi avrebbero voluto rivelarmi.

    La notte si avvicinava, ma le cose che avevo visto resero la curiosità più forte della paura e così non fuggii dalle ombre lunari come avevo fatto la prima volta che avevo visto la città senza nome. Nella penombra liberai un'altra apertura e armato della torcia strisciai all'interno, scoprendo pietre e simboli più oscuri di quelli che avevo già trovato. La sala era altrettanto bassa, e quasi altrettanto spaziosa, di quella dell'altro tempio, e terminava in uno stretto passaggio affollato di oscuri e criptici altari. Mi stavo dedicando al loro esame quando un rumore di vento e il verso del mio cammello proruppero dall'esterno, costringendomi a uscire per vedere che cosa avesse spaventato l'animale.

    La luna splendeva vivida sulle rovine antichissime e illuminava una densa nuvola di sabbia, spinta - così pareva - da un vento forte ma decrescente che si sprigionava da qualche punto della scarpata che mi sovrastava. Mi resi conto che era stato il vento, freddo e sabbioso, a spaventare il cammello e a indurlo a cercarsi un rifugio più sicuro, ma quando alzai lo sguardo vidi che dalla vetta della scarpata non soffiava la benché minima brezza. Questo mi sbalordì e mi riempì nuovamente di paura, ma poi ricordai i turbini improvvisi cui avevo già assistito all'alba e al tramonto e mi dissi che doveva trattarsi di un fenomeno consueto. Decisi che probabilmente il vento veniva da una fenditura nella roccia che conduceva a qualche caverna e fissai il vortice di sabbia per individuarne l'origine; ben presto constatai che veniva dal nero orifizio d'un tempio che si trovava a una certa distanza da me, in direzione sud, e quasi nascosto alla vista. Mi diressi verso il tempio, affrontando la soffocante nuvola di sabbia, e man mano che mi avvicinavo esso si rivelava come l'edificio più grande; la cavità d'ingresso era meno ostruita dalle altre che avevo visto. Sarei entrato, se la forza spaventosa del vento gelido non avesse quasi spento la mia torcia. L'aria precipitava impazzita dalla caverna nera, e gemendo diabolicamente sollevava la sabbia e si disperdeva fra quelle fantastiche rovine. Poi pian piano si chetò e la sabbia si posò, finché alla fine tutto fu di nuovo calma e silenzio; pure, fra le pietre spettrali della città sembrava aggirarsi una presenza, e quando levai lo sguardo alla luna la vidi tremare, come se fosse riflessa da acque inquiete. Ero più spaventato di quanto posso spiegare, ma la paura non bastava a estinguere la mia sete di meraviglie, e quando il vento fu calato io attraversai la nera soglia da cui era venuto.

    Il tempio, come mi ero immaginato, era più grande di tutti quelli che avevo visitato in precedenza, e vista la natura del vento - che veniva da qualche regione sotterranea - doveva trattarsi di una caverna naturale. In questo luogo potevo stare finalmente eretto, ma gli altari e le pietre erano bassi come nei santuari più angusti. Sulle pareti e sul tetto scorsi per la prima volta tracce dell'arte pittorica della razza antica, curiose strisce di colore, spiraleggianti, che si erano quasi del tutto stinte o scrostate dalle pareti. Su due altari vidi, con eccitazione crescente, un labirinto di sculture curvilinee, perfettamente modellate. Quando alzai la torcia mi sembrò che la forma del soffitto fosse troppo regolare per essere naturale, e mi chiesi in che modo quei preistorici artigiani della pietra fossero riusciti a modellarlo. La loro esperienza architettonica doveva essere davvero grande.

    Poi un guizzo più brillante della fantastica fiamma mi mostrò ciò che avevo cercato: l'accesso ai remoti abissi da cui si era sprigionato il vento repentino; e mi sentii mancare quando mi resi conto che si trattava di una piccola porta, evidentemente artificiale, ricavata dalla solida roccia. Spinsi la torcia dentro l'apertura e mi trovai all'imbocco di una buia galleria, il cui basso soffitto ad arco copriva, dando un senso di oppressione, una fuga di piccoli, ripidi gradini in discesa. Li rivedrò sempre nei miei sogni, perché presto ne avrei scoperto il segreto, ma allora non sapevo nemmeno se definirli scalini o semplici appigli nella discesa precipitosa. La mia mente turbinava di folli pensieri, e le parole e i moniti dei profeti arabi sembravano volare sul deserto, spingendosi dalle terre che gli uomini conoscono alla città senza nome, che mai oseranno guardare. Tuttavia ebbi solo un attimo di esitazione prima di proseguire oltre il portale e cominciare la cauta discesa, prima un piede e poi l'altro, come si fa sulle scale di corda.

    Solo nelle visioni provocate dalla droga o dal delirio gli uomini potranno sperimentare una discesa simile alla mia. La stretta galleria conduceva infinitamente in basso, come un orribile pozzo stregato, e la torcia che tenevo alta sopra la testa non riusciva a illuminare le profondità ignote verso le quali stavo strisciando. Persi il conto delle ore e smisi di consultare l'orologio, benché fossi atterrito al pensiero delle distanze che avevo attraversato. Ma il cammino non era sempre uguale: c'erano cambiamenti di direzione e di ripidità, e una volta giunsi a un lungo, basso camminamento praticamente rettilineo, che attraversai spingendo avanti prima una gamba e poi l'altra, con molta cautela, e tenendo il braccio che impugnava la torcia teso davanti a me. Dovevo quasi strisciare, perché il posto non era abbastanza alto per stare in ginocchio. Dopodiché ripresero i ripidi scalini, e stavo ancora scendendo interminabilmente quando la torcia morì. Non credo di essermene accorto subito, perché quando me ne resi conto la tenevo ancora sospesa davanti a me, come se fosse accesa. Procedevo come invasato dal mio istinto per tutto ciò ch'è strano e ignoto e che ha fatto di me un vagabondo, un cacciatore di luoghi remoti, antichi e proibiti.

    Nelle tenebre lampeggiavano nel mio cervello i frammenti dell'amato bagaglio di sapienza demonica; frasi tratte dall'opera di Alhazred, il folle arabo, dagl'incubi apocrifi di Damascio, versi infami provenienti dalla delirante Image du Monde di Gauthier de Metz. Mi crogiolavo in quelle bizzarre citazioni e borbottavo di Afrasiab e dei demoni che scendono con lui lungo l'Ossa, e ripetevo la frase tratta dai racconti di Lord Dunsany: Il nero dell'abisso che non manda eco. Ma quando la discesa si fece ripidissima cominciai a cantilenare i versi di Thomas Moore, e così proseguii finché non ebbi troppa paura per poter continuare:

    Un budello di tenebra, nero Come son neri i paioli delle streghe Riempiti di droghe lunari distillate nell'eclisse. Piegatomi a vedere se il piede passerebbe Di sopra quell'orrendo baratro, vidi nel fondo, E fin dove arrivavano i miei lumi, Le pareti di gaietto lisce come vetro, Che appena mi parean verniciate Della scura pece che il Seggio della Morte Riversa dai suoi vertici limacciosi.

    Il tempo aveva quasi cessato di esistere quando i miei piedi toccarono di nuovo una superficie piana e io mi ritrovai in un luogo appena più alto dei due templi più piccoli, ormai infinitamente al di sopra della mia testa. Non potevo stare eretto, ma dovetti inginocchiarmi, e nel buio mi trascinai di qua e di là a caso. Presto compresi di trovarmi in uno stretto corridoio lungo le cui pareti stavano allineate delle casse di legno dal coperchio di vetro. Tremai al pensiero di ciò che la presenza di legno levigato e cristallo potevano significare in un luogo di così remota antichità. I contenitori sembravano allineati a intervalli regolari dall'una e dall'altra parte, erano oblunghi e disposti orizzontalmente, e la forma e le dimensioni erano quelle di una bara. Quando cercai di rimuovere due o tre per esaminarli più da vicino mi resi conto che erano saldamente assicurati. Mi resi conto che il corridoio era molto lungo, e cominciai a trascinarmi più rapidamente che potevo in una sorta di corsa ginocchioni che sarebbe parsa grottesca all'oc- chio di un eventuale osservatore nelle tenebre. Di tanto in tanto mi avvicinavo all'una o all'altra parete, per essere sicuro che l'ambiente che mi circondava non avesse subito mutamenti, e che le mura e la teoria di contenitori mi seguissero ancora. L'uomo è talmente abituato a pensare in termini visivi che mi dimenticai delle tenebre e mi figurai l'interminabile corridoio tappezzato di legno e vetro come se lo vedessi. Poi, in un lampo d'indescrivibile emozione, lo vidi realmente.

    Non saprei dire a che punto l'immaginazione e la vista effettiva si fusero, ma a poco a poco cominciai a distinguere una graduale luminescenza davanti a me, e all'improvviso seppi che vedevo i vaghi contorni del corridoio e delle casse, come rivelati da una misteriosa fosforescenza sotterranea. Per un po' la scena rimase esattamente come l'avevo immaginata, anche perché la luce era scarsa, ma man mano che mi trascinavo verso zone meglio illuminate compresi che la mia fantasia era stata quanto mai limitata. La cripta in cui mi trovavo non era una spoglia reliquia come i templi di superficie, ma un monumento d'arte esotica e squisita. Motivi ornamentali e pitture vivide, incredibilmente fantasiose, formavano un affresco continuo dai colori indescrivibili. I contenitori erano di uno strano legno dorato, e i coperchi di cristallo purissimo proteggevano le forme mummificate di creature così grottesche da andare oltre i più folli sogni dell'uomo.

    Tentare di descrivere in qualunque modo quelle mostruosità è impossibile. Appartenevano all'ordine dei rettili e le forme del corpo facevano pensare ora al coccodrillo, ora all'otaria, ma più spesso a cose che né il naturalista né il paleontologo hanno mai conosciuto. La taglia era quella di un uomo piuttosto piccolo, e gli arti anteriori terminavano in due piccole ma vistose zampette che somigliavano curiosamente alle mani dell'uomo e avevano dita simili alle nostre. Ma la cosa più strana era la testa, i cui contorni violavano tutti i princìpi conosciuti della biologia. A nulla posso paragonarle: nello stesso istante pensai a un gatto, un bulldog, a un satiro della mitologia e all'uomo stesso. Nemmeno Giove poté vantare una fronte così vasta e sporgente, e tuttavia le corna, la mancanza di naso e la mascella da alligatore ponevano quegli esseri al di là di tutte le categorie conosciute. Fui perfino tentato di mettere in dubbio la realtà delle mummie, sospettando che si trattasse di idoli artificiali, ma poi decisi che appartenevano invece a una specie antichissima che aveva vissuto quando la città senza nome era stata viva. Per completare l'effetto grottesco, la maggior parte delle creature era vestita dei tessuti più raffinati e profusamente ornata di ori, gioielli e altri metalli sconosciuti. Queste creature striscianti dovevano aver occupato un posto importante nel loro mondo, perché erano sempre in primo piano negli affreschi e nei folli arabeschi che adornavano pareti e soffitto. Con grandissima abilità l'artista le aveva ritratte nel mondo che era loro appartenuto, dove sorgevano le loro città e fiorivano giardini proporzionati alle loro dimensioni; e non potei fare a meno di pensare che la storia dipinta sui muri fosse allegorica, e che in realtà mostrasse il progresso della razza che aveva adorato le creature. Le quali, mi dissi, erano state per gli uomini della città senza nome ciò che la lupa fu per Roma, o quello che un animale-totem è per le tribù indiane.

    Partendo da questo presupposto riuscii a ricostruire, sia pur rozzamente, la storia meravigliosa della città senza nome: racconto epico di una potente metropoli costiera che aveva dominato il mondo prima che l'Africa sorgesse dalle onde, e della sua lotta disperata contro il ritirarsi delle acque e il sopraggiungere del deserto nella fertile valle che l'aveva ospitata. Vidi le sue guerre e i suoi trionfi, i suoi problemi e le sue sconfitte, e da ultimo la terribile lotta contro il deserto mentre migliaia di cittadini - rappresentati allegoricamente dai grotteschi rettili - cominciavano a scavarsi un nuovo mondo nella roccia, grazie alle tecniche meravigliose insegnate dai loro profeti. Era tutto estremamente vivido, al tempo stesso fantastico e realistico, e il legame fra ciò che le pitture mostravano e la mia incredibile discesa era evidente: potevo perfino riconoscere i corridoi che io stesso avevo attraversato. Strisciando lungo il corridoio, in direzione della luce sempre più vivida, vidi i pannelli successivi di quella saga murale: la partenza della razza che aveva abitato la città senza nome e la sua valle per dieci milioni di anni, la tristezza di un popolo costretto ad abbandonare i luoghi amati così a lungo, e nei quali si era stabilito quando la terra era giovane; il lento scavare nella roccia vergine i primitivi altari davanti ai quali non aveva mai smesso di venerare i propri dèi. Ora che la luce si era fatta più forte potei esaminare gli affreschi più da vicino e, tenendo a mente che gli strani rettili rappresentavano evidentemente gli sconosciuti abitanti della città, mi chiesi quali fossero i costumi di questi antichi uomini. C'erano cose strane che non riuscivo a capire: quella civiltà, che possedeva perfino un proprio alfabeto, si era elevata a quanto pareva su un gradino più alto delle sue lontanissime discendenti di Egitto e della Caldea, eppure sotto un certo rispetto sembrava manchevole. Non potei, per esempio, trovare alcun dipinto di soggetto funerario o che riguardasse la morte; l'unica eccezione era costituita da quelli in cui erano compendiate guerre, violenze e pesti- lenze. Quella sorta di reticenza nei confronti della morte naturale mi lasciò perplesso. Era come se gli abitanti della città avessero voluto coltivare un illusorio ideale d'immortalità.

    D'altra parte, in fondo al corridoio trovai altre scene della più sfrenata fantasia e stravaganza: erano visioni contrapposte della città senza nome abbandonata e in rovina e del nuovo regno paradisiaco al quale la razza si era guadagnata l'accesso attraverso la pietra. In queste rappresentazioni la città e la valle desertica erano sempre mostrate al chiaro di luna, e un alone iridescente per metà celava e per metà rivelava le mura cadenti e la splendida perfezione dei tempi andati, che l'artista aveva voluto raffigurare in un velo elusivo e spettrale. Quanto alle scene di paradiso, erano troppo stravaganti per essere credute, e ritraevano un mondo nascosto di eterna luce nel quale fiorivano città meravigliose, colline eteree e vallate. Verso la fine cominciai a notare i segni di un certo decadimento artistico: i dipinti erano eseguiti con minore abilità e si facevano sempre più bizzarri, superando perfino le più folli scene che avevo contemplato all'inizio. Sembravano testimoniare una graduale decadenza del vecchio ceppo razziale, unita a un odio sempre maggiore verso il mondo esterno da cui il deserto l'aveva ricacciato. La forma corporea dell'antico popolo - sempre rappresentato dai sacri rettili - sembrava andare incontro anch'essa a un processo di decadenza, mentre la forma spirituale, che l'artista aveva ritratto al chiaro di luna, fra le rovine, guadagnava in proporzione. Sacerdoti-rettile emaciati, vestiti di tuniche preziose, maledicevano dai loro dipinti l'aria del mondo esterno e tutti coloro che la respiravano. E una terribile scena finale mostrava un uomo dall'aspetto primitivo (forse avventuratosi fin là dall'antica Irem, la Città delle Colonne) fatto a pezzi dai membri della razza mostruosa. Ricordai allora come gli arabi temessero la città senza nome, e fui contento che al di là di questa galleria le grigie mura e il soffitto fossero del tutto disadorni.

    Seguendo il racconto dei dipinti murali mi ero avvicinato all'estremità opposta della cripta dal basso soffitto, e avevo scoperto improvvisamente la porta da cui si riversava la fosforescenza che illuminava l'ambiente. Trascinandomi verso di essa diedi un urlo di stupore alla vista di ciò che stava al di là della soglia: perché, invece di una nuova teoria di stanze sempre più luminose, c'era solo un vuoto illuminato e rifulgente di luminosità uniforme. Era simile allo spettacolo cui si può immaginare di assistere dalla cima del monte Everest, quando si guarda il mare di nebbia illuminata dal sole che si stende molto più in basso. Alle mie spalle stava un corridoio così stretto da non poterci stare in piedi; davanti a me l'infinito di quella radiosità sotterranea.

    Potevo vedere l'inizio di una nuova fuga di scalini precipitarsi nell'abisso - scalini piccoli e numerosi come quelli dei corridoi bui che avevo già attraversato - ma dopo pochi passi i vapori splendenti nascondevano ogni cosa. Semiaperta contro la parete di roccia stava un'enorme porta di bronzo ornata di fantastici bassorilievi, che, se chiusa, avrebbe per sempre diviso il cuore di luce sotterranea dalle caverne e dalle gallerie di roccia. Lanciai un'occhiata ai gradini, ma per il momento non me la sentii di tentarli. Toccai la porta aperta di bronzo, che non si mosse, poi caddi prono sul pavimento di pietra. La mia mente era infiammata da pensieri prodigiosi, che nemmeno la stanchezza mortale riusciva a placare.

    Mentre così giacevo, gli occhi chiusi e libero di pensare, alcuni particolari degli affreschi mi tornarono alla mente con nuovo e terribile significato: le scene che rappresentavano la città senza nome all'epoca del massimo splendore, la vegetazione della valle circostante, e perfino le terre lontane con cui i suoi mercanti commerciavano. Il sistema di rappresentare tutto in via allegorica, sostituendo le creature striscianti agli uomini, m'inquietava, e mi chiesi quale razza l'avrebbe applicato con tanto zelo anche in dipinti di tale importanza storica. Negli affreschi la città senza nome era stata ridotta in scala, in modo da adattarsi ai rettili; mi domandai quali fossero state le sue vere proporzioni e quale il suo splendore. Poi riflettei su alcuni particolari strani che avevo notato nelle rovine: per esempio, la bassezza dei templi primitivi e delle gallerie sotterranee. Certo erano stati fatti così in segno di omaggio alle divinità che vi venivano adorate, poiché questo costringeva i fedeli a strisciare. Poteva darsi che fosse proprio il rituale a prescrivere di trascinarsi carponi, in una sorta d'imitazione delle sacre creature. Ma se anche questo era vero, nessuna

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