Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La rabbia ti fa bella
La rabbia ti fa bella
La rabbia ti fa bella
E-book530 pagine7 ore

La rabbia ti fa bella

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un libro di trasformazione che esorta le donne del ventunesimo secolo ad abbracciare la loro rabbia e a usarla come strumento per un duraturo cambiamento personale e sociale.
Le donne sono arrabbiate e non è difficile capire perché. Siamo sottopagate e lavoriamo troppo. Troppo sensibili o non abbastanza. Troppo dimesse o troppo appariscenti. Troppo grasse o troppo magre. Puttane o puritane. Se veniamo molestate, ci dicono che ce la siamo cercata e ci chiedono se è così difficile fare un sorriso. (Sì, lo è).
Nonostante ci sia stato detto il contrario per tutta la vita, la rabbia è una delle risorse più importanti che abbiamo, il nostro strumento più acuminato contro l’oppressione sia personale che politica. Ci è stato ripetuto per molto tempo di reprimerla, lasciando che corroda i nostri corpi e le nostre menti in modi che nemmeno immaginiamo. Eppure questo sentimento è uno strumento vitale, il nostro radar per l’ingiustizia e un catalizzatore per il cambiamento. E, viceversa, la critica sociale e culturale verso la nostra rabbia è un astuto modo di limitare e controllare il nostro potere.
La rabbia ti fa bella sostiene che questo sentimento fa parte di noi, e che comprendere fino in fondo una delle nostre emozioni più importanti ci darà un grande senso di liberazione e ci connetterà a un intero universo di donne non più interessate a essere compiacenti a tutti i costi.
Sulla scia di classici manifesti femministi, La rabbia ti fa bella è un libro avvincente e accessibile che apre gli occhi alle donne del XXI secolo.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2019
ISBN9788858996997
La rabbia ti fa bella
Autore

Soraya Chemaly

Soraya Chemaly è una scrittrice e attivista americana il cui lavoro si concentra sul ruolo del genere in politica, religione, cultura e nei media. È direttrice dell’associazione no profit Women’s Media Center Speech Project, e promuove la libertà di espressione e l’impegno civile e politico delle donne. Scrive su numerose testate tra cui Time, The Guardian, The Nation, Huffington Post, The Atlantic.

Correlato a La rabbia ti fa bella

Ebook correlati

Crescita personale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La rabbia ti fa bella

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La rabbia ti fa bella - Soraya Chemaly

    1

    MAD GIRLS. PICCOLE E ARRABBIATE

    Mia madre aveva trasmesso il rispetto

    per le possibilità – e la volontà di coglierle.

    ALICE WALKER

    Ogni mattina, all’asilo, mia figlia costruiva un grande ed elaborato castello di mattoncini, nastri e carta, per poi vederselo allegramente distruggere sempre dallo stesso compagno di classe, un maschio. Per diverse settimane, tutte le volte che accadeva, uno dei genitori del bambino, entrambi invariabilmente affabili, si faceva avanti e propinava a mia figlia una serie di banalità trite e ritrite: «Sta attraversando una fase tremenda!», «È proprio un maschietto! Gli piace rompere le cose», e poi, la mia preferita: «È. Più. Forte. Di. Lui!». Col tempo, la rabbia e la frustrazione di mia figlia crescevano.

    Lei però non urlava, non scalciava, non si faceva venire una crisi, non picchiava l’altro bambino. All’inizio gli ha chiesto educatamente di smetterla. Poi gli si è parata davanti bloccandolo con il corpo, ma con delicatezza. Ha costruito fondamenta più solide, così che il castello fosse più difficile da abbattere. Si è spostata in un altro punto della classe. Si è comportata esattamente come si dovrebbe comportare chiunque intenda essere una persona gentile e tranquilla. Non ha funzionato.

    Per settimane i genitori del bambino non sono mai piombati a fermarlo prima che distruggesse la costruzione, limitandosi sempre a commentare dopo il fatto. Come molti genitori, ho seguito la regola che impone di non disciplinare i figli degli altri. Nel frattempo intuivo i pensieri di sua madre e suo padre, perché spesso li pronunciavano a voce alta: «Quale maschietto vivace non lo butterebbe giù?».

    Era una tentazione irresistibile. Lei costruiva una torre luccicante in uno spazio pubblico. Lui era un maschio incapace di controllarsi e, in quanto maschio, aveva inclinazioni violente. E poi, in fin dei conti, non spettava forse a lei mantenere in sicurezza la costruzione? Quando lui buttava giù il castello mia figlia non ne faceva un dramma, il che dimostrava che non doveva tenerci poi così tanto. In realtà mia figlia esibiva un comportamento che, come dimostrano gli studi, è comune tra le bambine di quell’età. Quando sono arrabbiate, le femmine nella fascia scolare tendono non a sfogarsi, ma a trincerarsi nel silenzio e a trovare altri modi per proteggere i propri interessi.

    Nel frattempo, che esempio ho dato io a mia figlia? Dipende dai punti di vista. Molti direbbero che per lei è stata un’occasione positiva per imparare a essere paziente e gentile, educata e comprensiva. A posteriori, credo invece di averle fornito un pessimo esempio. I miei tentativi di insegnarle a evitare gli scontri, a vivere collaborando con gli altri e a essere una buona cittadina si sono rivelati conformi alle aspettative di genere in maniera ben poco utile. Ho cercato di aiutare mia figlia a raggiungere il suo obiettivo – una costruzione intatta – ma non ho accolto la sua rabbia come avrebbe meritato, vale a dire convalidandola e sostenendola. Né lo ha fatto nessun altro adulto. Aveva tutto il diritto di essere arrabbiata, eppure io non l’ho incoraggiata a esprimersi in una modalità pubblica, che risultasse esigente o di disturbo.

    Nell’interesse dei rapporti all’interno della classe, ho parlato educatamente con i genitori del bambino. Comprendevano la frustrazione di mia figlia, ma solo nella misura in cui speravano che trovasse il modo di sentirsi meglio. Non sembravano vedere che era arrabbiata, né capivano che la sua rabbia era una richiesta nei confronti del figlio, in rapporto diretto con la loro stessa inazione. Confidavano nella collaborazione di lei, eppure non si sentivano obbligati a chiedere a lui di comportarsi nello stesso modo. Persino in un contesto così precoce e relativamente innocente, il bambino stava già fraintendendo il significato di no e calpestando le persone che aveva attorno senza riflettere sulle possibili conseguenze.

    Scenari come questo si ripetono molte volte nel corso dell’infanzia. Nella mia esperienza, per tanti adulti è difficile accettare che i maschi possano e debbano controllarsi e rispettare gli stessi standard di comportamento che ci si aspetta dalle femmine. Ancora più difficile è accettare che le bambine provino rabbia e che abbiano tutti i diritti di non prestarsi a fare da risorse per lo sviluppo dei maschi. Nel 2014 alcune università hanno condotto uno studio congiunto su larga scala in quattro paesi su grado di sviluppo e genere nella scuola dell’infanzia.¹ I bambini statunitensi sono risultati avere il maggior divario di genere in fatto di autoregolazione. I ricercatori hanno rilevato che le aspettative di genere da parte di genitori e insegnanti erano responsabili del modo in cui i bambini si comportavano e venivano valutati e, in ultima analisi, di quanto si sentivano tenuti a rendere conto del loro autocontrollo. In fatto di autocontrollo, indicano altri studi, le differenze legate al sesso sono quasi certamente epigenetiche, ovvero riflettono l’interazione tra predisposizione genetica e aspettative socioculturali.

    Se mia figlia avesse reagito con una manifestazione di rabbia chiassosa e di disturbo, è probabile che il focus della discussione si sarebbe spostato sul suo comportamento, non su quello del bambino. Sarebbe stato erroneamente messo sullo stesso piano della mancanza di controllo o empatia da parte di lui – o forse sarebbe stato addirittura ritenuto prioritario – invece di essere visto come la comprensibile reazione alle azioni sbagliate dell’altro.

    Nel 1976, in uno dei primi tentativi di capire come i pregiudizi genitoriali influenzano il comportamento, gli studiosi hanno deliberatamente occultato il genere di alcuni bambini chiedendo agli adulti di descrivere cosa vedevano osservandoli. E gli adulti vedevano diversi stati emotivi a seconda che pensassero di avere davanti un maschio o una femmina.² Un bambino agitato, per esempio, era considerato arrabbiato, mentre era più probabile che una bambina agitata venisse descritta come impaurita o triste.³ Gli adulti attribuiscono emozioni legate al genere persino a semplici linee tracciate su un foglio. Una serie di esperimenti condotti nel 1986 ha mostrato che quando gli adulti intenti a studiare un certo disegno credevano che l’autore fosse un maschio erano inclini a descrivere le immagini come più arrabbiate o più violente e ostili.⁴

    Che gli adulti nutrano sulle emozioni pregiudizi legati al genere resta vero anche a distanza di alcuni decenni.⁵ Harriet Tenenbaum, psicologa dello sviluppo alla University of Surrey, in Inghilterra, ha studiato come i genitori parlano ai figli. Quasi tutti i genitori sostengono di volere che i maschi siano più espressivi, spiega, ma non sono consapevoli di rivolgersi a loro in modo diverso.⁶ Con le figlie i genitori parlano maggiormente di emozioni, utilizzando un ventaglio semantico più ampio. Le uniche eccezioni a quello che gli accademici chiamano discorso sulle emozioni? La rabbia e i sentimenti negativi. I genitori affrontano l’argomento con i figli maschi ma non con le femmine.⁷ Le madri in particolare tendono a utilizzare parole legate alla rabbia quando parlano con i figli maschi o raccontano loro delle storie.⁸

    Le supposizioni riguardanti sfera emotiva e genere si estendono senz’altro all’età adulta.

    Nel 2011 la docente Kerri Johnson, assistente di scienze della comunicazione e psicologia alla UCLA, ha pubblicato i risultati di un innovativo studio sulla percezione del genere e delle emozioni in cui si legge che è accettato – persino previsto – che gli uomini esprimano rabbia. Quando sono le donne a provare un’emozione negativa, invece, ci si aspetta che esprimano il loro scontento tramite la tristezza.

    I pregiudizi legati al sesso ci portano a leggere più facilmente felicità e paura sul volto delle donne, spingendoci a ritenere volti femminili neutri meno arrabbiati rispetto a volti maschili.¹⁰ Negli studi, i volti femminili neutri vengono descritti come sottomessi, innocenti, spaventati e felici; in un caso, i partecipanti li hanno definiti collaborativi e infantili.¹¹ Diversi esperimenti mostrano che il viso di una donna arrabbiata risulta uno dei più difficili da decifrare,¹² e che un viso androgino che esprime rabbia viene classificato come maschile nella schiacciante maggioranza dei casi.¹³

    Una donna triste e un uomo arrabbiato potrebbero essere in preda a emozioni (negative) simili, ma le parole che descrivono queste emozioni e gli stereotipi che esse evocano producono esiti radicalmente diversi. La differenza non è di poco conto.

    Il potere, che alcuni teorici considerano il requisito d’accesso per la rabbia, non è necessario per la tristezza.¹⁴ La rabbia è un’emozione di avvicinamento, mentre la tristezza è un’emozione di ripiegamento.¹⁵ Pensare a qualcuno come a una persona triste ci porta a ritenerla più debole e sottomessa. È la rabbia, non la tristezza, che viene associata al controllo delle circostanze individuali come la competitività, l’indipendenza e la leadership. È la rabbia, non la tristezza, che viene collegata all’assertività, alla perseveranza, all’aggressività. È la rabbia, non la tristezza, uno dei modi per stimolare attivamente il cambiamento e affrontare le sfide. È la rabbia, non la tristezza, a generare la percezione di uno status e un rispetto più elevati.¹⁶ Come le persone felici, anche quelle inclini alla rabbia sono più ottimiste, convinte che il cambiamento sia possibile e che sia in loro potere influenzarne gli esiti. Le persone tristi e timorose tendono al pessimismo e non si sentono in grado di apportare cambiamenti.¹⁷

    Gli studiosi di scienze sociali Matthijs Baas, Carsten De Dreu e Bernard Nijstad hanno mostrato che la rabbia, a differenza della tristezza, incoraggia il pensiero non strutturato negli individui impegnati in compiti creativi e che le persone arrabbiate sono migliori quando si tratta di generare nuove idee. Elemento ancora più interessante, uno studio ha rilevato la notevole originalità delle idee avanzate da tali persone.¹⁸

    Anche la tristezza, tuttavia, apporta alcuni benefici cognitivi. Per esempio, spesso chi la prova riflette in modo più profondo e metodico sulle cause del proprio stato emotivo; le persone tristi tendono a prendere in considerazione i problemi a livello sociale invece di assegnare colpe a livello individuale. Sono inoltre più generose.¹⁹ L’altra faccia della medaglia è che la tristezza può facilmente trasformarsi in ruminazione paralizzante, abbassamento delle aspettative e impazienza, che può costare molto cara. Le persone tristi si aspettano meno e si accontentano di avere meno.²⁰

    Che ricadute ha per noi donne la separazione tra rabbia e femminilità? Per prima cosa, significa rendere la rabbia femminile inefficace come risorsa personale o pubblica e collettiva, minimizzare la resistenza delle donne contro la loro stessa condizione di disparità.

    Nel 2012 un’approfondita analisi su genere, infanzia e regolazione delle emozioni ha vagliato tre decenni di studi sul modo in cui i bambini manifestano i loro stati d’animo. Gli studi includevano oltre ventunomila partecipanti e si concentravano non solo su come i piccoli esprimevano se stessi, ma anche sulla reazione degli adulti e su come i bambini, a loro volta, si adeguassero alle aspettative. Gli studiosi hanno individuato differenze di genere significative ma alquanto ridotte nell’espressione delle emozioni di bambini e bambine, ma differenze rilevanti nell’accoglienza riservata dagli altri.

    A casa o al nido, i bambini molto piccoli imparano che i loro stati d’animo sono soggetti ai pregiudizi di genere, vale a dire che le loro interazioni con gli adulti di solito comportano un trattamento diverso a seconda che siano maschi o femmine. Quasi tutti gli adulti si aspettano che le bambine siano affettuose e più disponibili, collaborative e propense a stringere legami. Quando una bambina piccola mostra emozioni positive o è accondiscendente, è molto più probabile che venga gratificata con sorrisi, calore e cibo, ricompense che a un maschio vengono elargite in caso di comportamento stoico e risoluto. A mano a mano che si allontanano dalla prima infanzia, le bambine esprimono le emozioni negative e l’aggressività – sia verbale sia fisica – sempre meno apertamente.²¹

    Arrivati in età prescolare, i piccoli associano già la rabbia ai visi maschili e riferiscono di ritenerla normale nei bambini ma non nelle bambine.²² Con il passaggio dall’intimità domestica all’ambiente scolastico, agli sport e ai luoghi di culto, i bambini sono sempre più spinti dalla società a comportarsi in maniera stereotipata. Le discrepanze riscontrate nella manifestazione della rabbia da parte di maschi e femmine sono maggiori al di fuori della famiglia, in quanto i bambini cercano di ridurre gli attriti conformandosi alle norme dominanti.

    All’ingresso a scuola gran parte dei bambini considera già i comportamenti di disturbo e l’assertività (per esempio, parlare a voce alta, interrompere, ruttare, fare battute e imprecare) marcatori linguistici della mascolinità, accettabili nei maschi ma non nelle femmine.²³ I bambini sintonizzano le loro reazioni sulle aspettative adulte e gli adulti si dimostrano sistematicamente a disagio di fronte all’idea di una bambina che ha tutti i diritti di essere arrabbiata e che avanza delle richieste. Le bambine, esortate a usare un tono più gentile con una frequenza tre volte superiore ai maschi,²⁴ imparano ad accordare la priorità ai bisogni e ai sentimenti di coloro che le circondano; spesso ciò significa che ignorano il loro stesso disagio, il risentimento o la rabbia che provano.

    Se glielo si domanda, quasi tutti i genitori giureranno di educare i loro figli nel medesimo modo, indipendentemente dal genere. Risulta però che bambini e bambine non recepiscono la lezione in egual misura. In uno studio i ricercatori hanno deliberatamente inflitto una delusione ad alcuni bambini in una serie di scenari in cui venivano elargiti regali. In media è risultato più probabile che le bambine, a prescindere da come si sentivano, sorridessero, ringraziassero e si mostrassero contente nonostante il disappunto interiore. In base a quanto è emerso dagli studi, le bambine che iniziano a manifestare disturbi comportamentali a questa età esprimono scontento o rabbia, sia apertamente sia in privato, con più difficoltà dopo una delusione.²⁵ Il self silencing (silenzio autoimposto) e l’acting out (messa in atto)* sono modalità bidirezionali, ciascuna delle quali influisce sulla probabilità che si verifichi l’altra.

    Le bambine imparano presto a sorridere, e molte culture insegnano loro esplicitamente a fare buon viso a cattivo gioco. È un modo per placare le persone, un adattamento facciale all’aspettativa che vuole le donne pronte a dare la priorità agli altri, a preservare i rapporti sociali e a nascondere delusione, frustrazione, rabbia o paura. Ci si aspetta che siano più accomodanti e meno assertive o dominanti.²⁶ A mano a mano che i sorrisi delle bambine diventano meno autentici, dunque, lo stesso si verifica per la loro consapevolezza di sé.

    Per le bambine nere, la richiesta del sorriso è intrisa anche di razzismo e della classica pretesa che i neri mettano i bianchi a loro agio non mostrandosi scontenti delle proprie condizioni di disparità.²⁷ Eppure sono in pochi a riflettere sul fatto che incoraggiare le bambine a essere carine, magari aggiungendo: «Sei più bella quando sorridi», ha ricadute anche sulle condizioni sociali.

    Siamo così impegnati a insegnare alle femmine a piacere che spesso dimentichiamo di insegnare anche a loro, come facciamo con i maschi, che dovrebbero essere rispettate.

    La rilevanza culturale incide sulla percezione e sul pensiero che abbiamo di noi stesse

    Dopo il periodo che gli psicologi chiamano latenza, le bambine entrano nella pubertà e cominciano a mostrare in modo più aperto e frequente le emozioni, inclusa la rabbia. Quando diventano più assertive, specie riguardo ai motivi di scontentezza, gli adulti sono colti di sorpresa. Che cosa è successo alla mia dolce piccolina?, si domandano spesso. Le femmine, tuttavia, tendono a esprimere emozioni negative senza essere in grado di dire quale ne è la causa.

    Ciascuna di loro apprende, in vari gradi, a filtrare se stessa attraverso messaggi che comunicano l’irrilevanza culturale, l’impotenza e lo scarso valore effettivo del sesso femminile. Immagini e parole che trasmettono disprezzo per le donne di tutte le età e la femminilità in generale investono i più piccoli con grande violenza, mentre il passaggio all’età adulta è imperniato per quasi tutti i maschi – anche quelli svantaggiati per classe sociale o etnia – sulla centralità culturale della virilità e della mascolinità.

    Nella fruizione mediatica o nella partecipazione a fenomeni di natura culturale come la visione di film di successo o la presenza a importanti eventi sportivi, le ragazze si trovano spesso di fronte a una scelta semplice: o mettersi nei panni di uomini e ragazzi oppure riflettere su che cosa significano la relativa invisibilità, il silenzio e lo snaturamento delle figure femminili. Sono rare le donne raffigurate sulle valute nazionali o a cui vengono dedicati monumenti pubblici. I protagonisti di libri, film, giochi e forme di intrattenimento popolare sono uomini o bambini con frequenza doppia o tripla,²⁸ e più spesso bianchi.²⁹ E man mano che crescono queste cifre diventano ancora più vere.

    Ogni anno l’analisi dei media rivela che i risultati non sono cambiati, ovvero che agli uomini, anche qui soprattutto bianchi, va il 70-73 per cento dei ruoli nei principali film americani, nonché la maggioranza delle parti recitate e delle posizioni creative ed esecutive sia sullo schermo sia fuori.³⁰ L’asimmetria di genere è simile a livello globale.³¹ Uno studio condotto nel 2014 sulle raffigurazioni cinematografiche legate a genere, etnia e appartenenza al mondo LGBTQ ha mostrato che nel periodo preso in considerazione nessuna donna sopra i quarantacinque anni aveva interpretato il ruolo di protagonista o coprotagonista, solo tre protagoniste o coprotagoniste appartenevano a minoranze e nessuna delle donne protagoniste aveva vestito i panni di un personaggio lesbico o bisessuale.³²

    Schemi simili sono evidenti nei media, dai videogame ai materiali scolastici. Molti adulti si preoccupano per la violenza nei videogiochi, ma gran parte di loro non considera l’assenza e la diffusa sessualizzazione di donne e ragazze come un motivo sufficientemente grave per proibirli. Per esempio, il celeberrimo videogioco di calcio FIFA, realizzato da EA Sports, non ha avuto squadre femminili fino a una release del 2015. Conta qualcosa che gli appassionati di FIFA non vedano mai o quasi mai donne nelle vesti di giocatrici, manager, allenatrici e nemmeno spettatrici?

    Persino a scuola le lezioni di letteratura presentano i testi scritti da donne e uomini di colore come eccezioni (casi isolati tra molti scrittori maschi bianchi) o, a volte, sono materia di studio solo in corsi facoltativi. Una ricerca recente su scala globale ha riscontrato che il pregiudizio di genere dilaga [anche] nei testi scolastici.³³ Il risultato di simili scelte pedagogiche influisce sull’autostima, sull’empatia e sulla comprensione, nonché sul risentimento, la confusione e la rabbia.

    Qualche anno fa ho chiesto a una classe di oltre cento studenti tra i quattordici e i diciotto anni se avessero studiato la schiavitù e il movimento per i diritti civili. Tutti hanno risposto di sì. Quel giorno stavamo parlando di aggressioni sessuali all’interno del campus, così ho chiesto quanti fossero a conoscenza degli stupri subiti dalle schiave nere all’epoca delle leggi Jim Crow, quelle per la segregazione razziale. Praticamente nessuno. Poi ho domandato in quanti avessero sentito battute sullo stupro in film famosi e avessero riso, per esempio. Oltre il 90 per cento. Ho fatto alzare la mano a coloro a cui qualcuno aveva parlato dei secoli di lotta per la liberazione della donna negli Stati Uniti o della sua inscindibilità dalle battaglie contro la discriminazione razziale e per i diritti LGBTQ. Forse sei. Sojourner Truth, mi sono sentita di dover spiegare, non era il nome di un gruppo indie, bensì di una famosa abolizionista e protofemminista.

    Data la predominanza dei punti di vista maschili, le bambine imparano presto a mettersi nei panni dei maschi. Se così non fosse, la loro immaginazione sarebbe una landa sterile. È però molto meno probabile che i bambini facciano altrettanto, e nei pochi casi in cui ciò accade vengono presi in giro. In generale i bambini e gli adolescenti non considerano le donne modelli a cui ispirarsi, e nell’ambito della fruizione mediatica non sono costretti a identificarsi con l’altro sesso. La centralità e la visibilità di cui godono i giovani maschi bianchi, negli Stati Uniti in particolare, sono una fonte di fiducia, un capitale invisibile che assume la forma dell’autostima.³⁴

    Per le bambine, tuttavia, c’è un altro problema oltre la cancellazione, il pregiudizio e gli stereotipi. È la silenziosa e ampiamente ignorata degradazione della femminilità che impregna l’aria. Espressioni tipo piangere o strillare o comportarsi come una femminuccia sono ancora capisaldi dell’infanzia socialmente accettabili in molti ambienti. Il linguaggio quotidiano è costellato da termini offensivi che oscillano tra il polo positivo e quello dispregiativo, riflettendo la disparità strutturale tra mascolino e buono e femminile e cattivo. Tutte siamo sempre potenziali puttane. Termini come troia o stronza vengono associati con leggerezza a minacce di violenza. Da Buon compleanno, stronza! si può passare in un batter d’occhio a Succhiamelo, stronza. È risaputo che dire di qualcuno che è la puttana di qualcun altro non implica necessariamente che la persona in questione sia una donna, perché è risaputo anche qual è il significato della frase, ovvero che essere dominati e impotenti è una condizione femminile.

    I social media hanno subito critiche durissime per il ruolo che giocano nel bullismo e negli abusi, ma è importante riflettere sulle radici profondamente tradizionali degli abusi online. Il bullismo, ovvero quel che abbiamo sempre chiamato sessismo, razzismo e omofobia, ora ha un potere ramificato, però il problema alla radice non è tanto la tecnologia quanto i costumi culturali. Il lato positivo, tuttavia, è che online le persone sono più libere di autorappresentarsi secondo modalità prima non disponibili, di trovare comunità di appartenenza e di contrastare gli attacchi.

    Si tratta di una forza culturale importante. Molto di ciò che le ragazze producono sui social media – foto, contenuti di Snapchat, meme, commenti – lancia una poderosa sfida agli stereotipi femminili negativi o irrealmente idealistici. La creazione di meme e l’uso dei selfie, per esempio, permette alle ragazze di affrontare, minare e criticare con crea­tività, humour e rabbia le raffigurazioni mediatiche poco utili o dannose.³⁵ Inoltre, coloro che hanno corpi non conformi agli standard possono respingere il body shaming, i commenti critici o derisori che mirano a umiliare una persona per il suo aspetto fisico.

    Tuttavia, anche mentre utilizziamo la tecnologia per scrivere nuove regole, rimaniamo soggette a quelle dominanti, che vengono diffuse con estrema facilità. La cultura del selfie ha i suoi pregi, ma allo stesso tempo enfatizza la magrezza, la pelle bianca e la bellezza idealizzata, dando risalto ai modi in cui il genere femminile dovrebbe apparire. In tutte le tipologie mediatiche, per esempio, c’è una probabilità almeno quattro volte superiore che bambine e donne siano rappresentate come sottopeso e fisicamente inferiori, così da trasmettere fragilità, debolezza e impotenza.³⁶ Più una ragazza è esile, più è probabile che abbia successo con gli altri. Studi condotti su bambini di tutto il mondo mostrano che a dieci anni le femmine sono già convinte di essere effettivamente deboli, meno coraggiose dei maschi e bisognose di protezione.³⁷ Le bambine si girano e rigirano in testa questo genere di informazione mentre vengono messe davanti agli effetti limitanti e preoccupanti della loro vulnerabilità fisica. Le ricerche dimostrano che persino i genitori, molti dei quali si definirebbero sostenitori dell’uguaglianza, si comportano tacitamente come se le figlie fossero più fragili e meno capaci;³⁸ impongono vere e proprie restrizioni che trasmettono un senso di minaccia, per esempio limitandone gli spostamenti notturni o insegnando loro ad andare in bagno sempre in coppia. Questo senso di fragilità e impotenza che inculchiamo in molte ragazze rende più difficile la resilienza di fronte ai danni di natura personale o culturale.

    Analizzando razionalmente queste pretese, le ragazze si domandano cosa può significare che le parole, le idee, gli interessi, le capacità e il duro lavoro di una donna paiano passare in secondo piano rispetto alla sua apparenza fisica. Le donne hanno la massima visibilità in qualità di intrattenimento sessualizzato. Mentre scrivevo queste righe, per esempio, mi sono chiesta cosa avrebbe trovato una ragazza se avesse digitato online atlete. Il primo risultato è stato: Le 50 atlete più hot del 2017. Una ricerca per donne amministratore delegato effettuata nel 2015 ha restituito, come prima immagine, non una donna vera, ma la foto di una Barbie.³⁹ Proprio così. Una Barbie, che, a proposito, si chiamava proprio Barbie Amministratore Delegato.

    Nella rappresentazione femminile questi temi sono accompagnati da una marcata assenza di sorellanza. Le donne, isolate dalle altre donne, compaiono spesso sole in un mare di uomini.⁴⁰ Se una donna è geniale o potente è perché ha caratteristiche uniche. Persino film di enorme successo in cui compaiono iconiche figure femminili potenti e combattive – Wonder Woman è uno dei più recenti e famosi – faticano a coltivare la solidarietà con le altre donne.⁴¹ Per esempio, quando Wonder Woman lascia il suo paradiso di Amazzoni, i suoi principali compagni di lotta e arcinemici sono uomini. Esistono modelli femminili da ammirare, raffigurazioni positive dell’amicizia tra donne e programmi che riflettono la diversità, e tuttavia, come mostrano le ricerche, anno dopo anno le donne restano ai margini, dove spesso sono ancora sole.

    Mi sono concentrata su descrizioni improntate al binarismo di genere, in quanto gli studi su infanzia, regolazione emotiva e fluidità di genere sono pochissimi e perché dal punto di vista culturale non abbiamo copioni – le linee guida inconsce che seguiamo per organizzare pensieri e comportamento – per le persone non binarie e genderfluid, quelle che non riconoscono e non si riconoscono nell’idea che esistano solo un maschile e un femminile nettamente distinti e la cui identità oscilla nel tempo lungo lo spettro di genere. Tutti gli studi o quasi utilizzano per l’analisi le tradizionali cornici binarie. Gli stereotipi positivi che plasmano l’infanzia sono molto pochi per gli individui bisessuali, trans e queer. I bambini che sfuggono al binarismo si ritrovano nel mirino, e ai genitori non resta che creare per loro un ambiente sicuro e combattere per il cambiamento a livello sociale oppure contribuire, intenzionalmente o meno, a esercitare dannose pressioni perché i figli si adeguino.

    È importante osservare quanto profonda può essere l’influenza che la denigrazione del femminile esercita sulla vita e sulle emozioni dei bambini e degli adulti che non si conformano alle tradizionali aspettative di genere. In età infantile la stragrande maggioranza del bullismo ha origine da qualche variante della sorveglianza di genere che prende la forma dell’omofobia, della transfobia e delle molestie sessiste. La disciplina esercitata sui bambini con identità non binaria – sessuale o di genere – raggiunge il massimo del rigore, per esempio, verso i maschi che scelgono deliberatamente la femminilità o le femmine che vi rinunciano in favore di prerogative maschili.

    Trovo che coloro che puntano a ridicolizzarmi o a liquidarmi, ha scritto l’attivista trans Julia Serano, non si limitino a criticarmi perché non mi conformo alle norme di genere. È più frequente che si prendano gioco della mia femminilità. Dal mio punto di vista, gran parte dell’atteggiamento antitrans con cui devo confrontarmi si potrebbe più accuratamente definire misoginia.⁴²

    È uno scherzo crudele che giochiamo alle ragazze, esponendole a queste realtà e contemporaneamente inten­sificando al massimo la pressione sociale perché ignorino e nascondano la rabbia che esse scatenano. Distogliamo lo sguardo dalla rabbia delle più giovani e ci rendiamo complici del sistema che ne erode l’autostima; poi ci voltiamo e ci chiediamo che cosa, nella loro natura, le renda così poco sicure nell’essere donne.

    Minare la sicurezza delle ragazze va a braccetto con la negazione, lo svilimento e il dirottamento della loro rabbia. La prima reazione di fronte a una ragazza arrabbiata può essere fotografarla o filmarla mentre esprime questa emozione. Due dei termini più frequentemente associati alla ricerca su Google dell’espressione bambina arrabbiata sono carina e vivace. Le adolescenti arrabbiate sono meno carine. Se poi sono scure di pelle, sono ancora meno carine e diventano arroganti.

    Anche la discriminazione in base all’età (ageismo), l’omofobia e il razzismo giocano un ruolo nella percezione della rabbia. Non esiste un periodo della vita in cui essa sia accettabile. Le adolescenti che si fanno valere sono viziate, sciocche o lunatiche. Le donne adulte che ne hanno abbastanza, e lo dicono, sono castranti e rancorose. Le donne arrabbiate sono camioniste, lesbiche e odiatrici di uomini. Gli stereotipi razziali si sprecano (Asiatiche Tristi, Latinas Calienti, Bianche Pazze e Nere Incazzate). Neanche a dirlo, le donne arrabbiate sono anche brutte, il peccato capitale per eccellenza in un mondo in cui il loro valore, la loro sicurezza e la loro gloria dipendono dall’importanza sessuale e riproduttiva che rivestono per gli uomini che le circondano. Niente di tutto ciò induce a pensare alla rabbia come a una proprietà morale o politica del genere femminile.

    Per quanto fossi consapevole di questo quadro, non ero preparata ai miei stessi pregiudizi o all’impatto ostinato che simili idee possono avere. La reazione che ho avuto agli eventi nella classe di mia figlia ha riportato a galla abitudini familiari. Ho valutato costi e benefici e ho stabilito che, se mi fossi mostrata apertamente arrabbiata parlando con i genitori del bambino, non avrei certo reso un favore a mia figlia. È la cosiddetta autocondanna preventiva, diffusa tra le donne che hanno motivo di essere arrabbiate. Sapevo che la mia rabbia sarebbe stata accolta male, perciò ho deciso di utilizzare alternative ben rodate. Ho avanzato suggerimenti educati. Ho chiesto l’intervento dell’insegnante. Ho ascoltato pazientemente i genitori del bambino. Volevo mantenere la pace e coltivare i rapporti.⁴³ La rabbia e le manifestazioni irate di frustrazione, ho pensato, sarebbero state inutili e potenzialmente dannose.

    Che cosa succede all’autostima quando consideriamo

    la rabbia un rischio inutile?

    È raro che la rabbia compaia nei discorsi sul divario di fiducia in se stessi legato al genere. Fino circa ai cinque anni di età, femmine e maschi godono sostanzialmente degli stessi livelli di autostima, di sentimenti di competenza e ambizione. Gran parte delle bambine ha una buona opinione di sé, pari a quella che hanno i maschi, è fiera di com’è e del genere di appartenenza, punta in alto e non riferisce di provare vergogna più dei bambini.

    Dopo i cinque anni, tuttavia, la fiducia delle bambine nelle proprie capacità vacilla e incespica, a differenza di quanto accade ai maschi. Uno studio del 2017 condotto su bambini americani ha rilevato che, a cinque anni, femmine e maschi associano con pari frequenza la genialità al proprio genere. Un anno dopo i maschi fanno ancora la stessa associazione, le femmine no. A sei e sette anni, il 65 per cento dei maschi ritiene che bambini e uomini siano molto, molto intelligenti, mentre solo il 48 per cento delle femmine pensa lo stesso di bambine e donne.⁴⁴ Può darsi che i maschi pecchino di presunzione e che le femmine siano solo più realiste, ma resta il fatto che il divario è notevole. Persino inquadrare il problema in questi termini – divario di fiducia in sé legato al genere – dà spesso per scontato che lo standard maschile sia quello che bambine e donne dovrebbero cercare di raggiungere.

    Per tutta l’adolescenza i maschi continuano a pensare di essere eccezionali e competenti, sebbene le ragazze li superino in termini di media dei voti e ambizioni universitarie. L’alta opinione che i ragazzi hanno di sé, e in particolare delle proprie doti di leadership, non conosce limiti di età, mentre è vero l’opposto per le ragazze, la cui relativa insicurezza permane anche da adulte. Negli Stati Uniti, dai sei-sette anni in avanti, nonostante le migliori performance scolastiche gran parte delle bambine e delle ragazze si sente meno dotata di leadership in un gruppo misto ed è più restia a candidarsi come rappresentante degli studenti oppure a sostenere le altre ragazze, in particolare se bianche, che decidano di farlo.⁴⁵ Le nostre figlie escono da scuola con meno fiducia in sé rispetto a quando sono entrate.

    Lyn Mikel Brown, Carol Gilligan e Rachel Simmons sono psicologhe e educatrici di fama ed esperienza che hanno studiato e scritto molto riguardo alla vita emotiva delle ragazze durante questo periodo di transizione. Nel tempo, il loro lavoro ha dato sempre più spazio all’importanza di capire la rabbia e l’aggressività, dimostrando come le femmine – che agiscono in un vuoto di informazioni circa le proprie emozioni negative – le incanalano in maniera occulta, ricorrendo per esempio al pettegolezzo e alla diffusione di falsità sul conto di altre persone. Le ragazze esercitano anche una forma di autovigilanza per evitare il giudizio negativo delle loro pari.

    Nell’arco di decine di anni di indagini, le tre ricercatrici hanno osservato come la posizione delle ragazze nella gerarchia sociale di riferimento influisca sul loro modo di esprimere la rabbia. Gran parte degli studi su genere, emozioni e autostima, spiegano le ricercatrici, riflette le norme dominanti della femminilità bianca di classe media. Le ragazze marginalizzate e appartenenti a minoranze esprimono la rabbia con più libertà e sono più consapevoli di come e quando manifestarla. Laddove predominano le difficoltà economiche e la privazione dei diritti, l’autoaffermazione e l’aggressività diventano parte del panorama sociale tanto quanto i giardinetti e i camioncini dei gelati, scrive Rachel Simmons nel suo Odd Girl Out: The Hidden Culture of Aggression in Girls (L’intrusa. La cultura nascosta dell’aggressività nelle ragazze). In questo mondo, il silenzio può significare invisibilità e pericolo.⁴⁶

    Gli studi sull’implicit bias (pregiudizio implicito) indicano che le ragazze che si mostrano assertive non si limitano nel parlare, reclamano attivamente spazio verbale e, sì, magari ammettono di essere arrabbiate e vengono considerate dagli adulti maleducate, provocatorie, non collaborative e trasgressive.

    Arrivate all’adolescenza, quasi tutte sanno che le aperte manifestazioni di rabbia sono una minaccia per la loro sicurezza e il loro successo. Capiscono che la rabbia è un rischio per il loro status, il gradimento che riscuotono presso gli altri e le relazioni.⁴⁷ Quel che è peggio, sono più portate ad associare la rabbia al senso di vergogna. Per le ragazze nere e quelle appartenenti alla classe lavoratrice, anche loro consapevoli che la rabbia è malvista e fonte di vergogna, esprimerla è particolarmente complicato e pericoloso, in quanto è spesso anche una preziosa e necessaria forma di autodifesa.

    Le accuse rivolte alle angry black women, prima che per stereotipare, silenziare e controllare le donne, sono utilizzate per penalizzare le ragazze che rispondono, sono bellicose e alzano troppo la cresta.⁴⁸ Queste spesso hanno comportamenti indistinguibili da quelli che in giovani maschi bianchi verrebbero chiamati turbolenza e attitudine al comando e di loro si dice che sono arrabbiate e risultano elementi di disturbo. Già durante la prima infanzia, agli occhi degli adulti le bambine nere sono meno innocenti o meno bisognose di cure e protezione.⁴⁹ A partire dall’età prescolare, la probabilità di essere punite, sospese o espulse è dalle cinque alle sette volte maggiore di quella dei pari, a seconda di dove vivono.⁵⁰ Pregiudizi come questi incanalano le ragazze nere in un ben documentato percorso chiamato school-to-prison pipeline (SPP), che dalla scuola conduce direttamente al carcere. In ambienti scolastici del genere molte ragazze fanno di tutto per essere brave ed evitare a ogni costo di esprimere la rabbia, anche quando serve loro per difendersi.

    Per le ragazze di origine latinoamericana è più probabile essere licenziate quando mettono in atto. In Chicana Without Apology (Sono chicana e non chiedo scusa), Edén E. Torres scrive che le persone mainstream spesso non sentono quello che diciamo, perché ci ascoltano filtrandoci attraverso stereotipi che ci vogliono iraconde ed esplosive.⁵¹

    L’attivista per la salute mentale Dior Vargas ha un ricordo nitido delle aspettative di genere spesso tramandate da madri e nonne, a loro volta alle prese con la rabbia. «Le donne sono più riservate riguardo alle emozioni negative. Da me ci si aspettava che non ne parlassi. Era come avere un peso sul cuore» mi ha spiegato. «Durante la socializzazione ci viene inculcato che non possiamo esprimere rabbia, mentre piangere va bene. Per me vedere emozioni in una donna significava lacrime. Pensavo che gli uomini non fossero biologicamente in grado di piangere. Eppure anche il pianto a volte è scoraggiato, lasciandoci ben pochi modi per dare voce a ciò che sentiamo.»

    Le ragazze di origine asiatica, invece, si scontrano più spesso con un’aspettativa che le vuole tranquille e ben disposte per natura. «Da piccola vedevo che i capricci dei miei fratelli venivano giustificati o poco disciplinati mentre, in qualunque modo io esprimessi la rabbia, i miei genitori e tutti gli adulti attorno a me ci andavano giù pesante» mi ha raccontato Regina Yau, scrittrice e attivista per i diritti delle donne. Le sue parole suoneranno familiari a molte. «Lo stereotipo della figlia ligia, obbediente e docile significava che gli adulti che mi circondavano erano perplessi. Gli accessi d’ira mi venivano fatti pesare come un grave difetto. Mi veniva ripetuto che non ero autorizzata e non avevo il diritto di essere arrabbiata per qualcosa. Alla fine ho imparato a incanalare la rabbia a sostegno del mio attivismo femminista: per fare qualcosa sulle convenzioni culturali che insegnano alle donne che emozioni e sentimenti equivalgono a debolezze e che non sanno gestire la rabbia femminile, mentre chiudono un occhio quando gli uomini feriscono, mutilano o uccidono le donne perché non sanno gestire la propria rabbia di fronte al rifiuto.»

    Nel 1994 Lela Lee, al tempo studentessa universitaria, ha disegnato e prodotto un corto d’animazione che ha intitolato Angry Little Asian Girl (Piccola ragazza asiatica arrabbiata). La protagonista del cartone, Kim, sarebbe poi approdata a una serie di libri di successo.

    Lela Lee spiega che nel tempo, esplorando con la sua arte il tema della rabbia, ha iniziato a capire che donne di ogni età e provenienza non si sentivano autorizzate a essere arrabbiate.⁵² (L’intestazione attuale del suo sito internet, alla sezione Angry Little Asian Girl, è semplicemente: Anger is a gift, la rabbia è un dono.)

    Come già anticipato, le ragazze bianche di classe media sembrano essere le più inclini a reprimere i sentimenti negativi e le meno portate ad andare apertamente in collera. Una simile presa di distanza dalle emozioni è necessaria per preservare degli standard di femminilità basati su relativa impotenza, vulnerabilità, tristezza, debolezza e passività come norme dominanti. Si tratta anche di un ideale di femminilità che può facilmente trasformarsi in un’arma. La necessità di proteggere le donne bianche, dipinte come fragili, innocenti e indifese, è da secoli una giustificazione per la violenza razzista a carattere terrorista. In

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1