Non Conforme
Di Dora Monti
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Info su questo ebook
Dora Monti è uno pseudonimo, scelto dall’autrice per proteggere le persone, protagoniste del suo racconto. Se le si chiede il perché, risponde così; poi sorride e aggiunge che, se avesse potuto, si sarebbe chiamata proprio Dora Monti. E in effetti alla sua storia e alla sua personalità lo pseudonimo si addice e la descrive meglio di qualunque altra parola. Studiosa di pedagogia, docente nelle scuole, Dora è come il fiume che le dà il nome: scorre verso gli altri, coinvolgendo e arricchendo chi incontra con la sua esperienza e la sua passione; avanza, dando misura e regola alle tante cose che porta con sé, e quando straripa è solo nel tentativo di cercare nuove strade per interpretare la sua felicità o i suoi dolori. Il suo cognome non potrebbe essere altri che Monti: proprio nell’affrontare l’autismo del figlio qualcuno l’ha accusata di avere la testa fra le nuvole, proprio come i monti. Ma il suo sguardo, che si spinge oltre la linea degli orizzonti comuni, non è quello di una sognatrice, ma quello di chi ricerca con volontà la strada per non subire come un destino schiacciante ciò che accade e per ambire alla resurrezione, possibile anche quando ci si trova di fronte alla malattia del proprio figlio.
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Anteprima del libro
Non Conforme - Dora Monti
Note
Non Conforme
di
Dora Monti
p. 3
Prefazione
Capitolo II. Work in progress
p. 109 Capitolo III. Sulle nostre gambe
p. 109 Verso l’equilibrio familiare
p. 125 Progetti
p. 127 Conclusioni
Prefazione
Ricordo che all’inizio, cercando di capire se i comportamenti di mio figlio potevano in qualche modo essere considerati delle stranezze tipiche dell’età, mi ero iscritta ad un forum di genitori che condividevano informazioni e suggerimenti sull’educazione dei loro piccoli. Mi inserivo nei vari argomenti trattati per confrontarmi con loro circa il comportamento del mio bambino. Purtroppo nessuno dei loro figli aveva comportamenti simili, nessuno rispondeva ai miei post e questo mi dette la misura della gravità della mia situazione e, soprattutto, mi fece sentire fuori dalla categoria dei genitori di figli normali e quindi dei genitori normali.
A quale categoria appartenevo, dunque? Dovevo cercare la mia categoria o mi sarei sentita troppo sola e depressa per poter affrontare il mio compito, che era comunque quello di allevare, crescere ed educare il mio bambino, di portarlo all’autonomia facendo quello che è, né più, né meno, il compito di ogni genitore.
Questo diario, che ho tenuto fin dal sorgere delle prime manifestazioni dei disturbi di mio figlio, ha costituito per me principalmente un modo per sfogarmi, per esprimere e dare ordine al turbine di sentimenti spesso contrastanti che mi sopraffacevano. Ma mi è stato utile anche per fare il punto della situazione, giorno per giorno, e valutare con maggiore obiettività il da farsi.
A distanza di tempo, rileggendolo, ho vissuto ancora una volta i sentimenti di quel periodo e mi sono resa conto che scrivere mi ha dato forza: ne ho tratto il supporto di cui avevo bisogno per mantenere lucidità ed equilibrio interiore. Ho pensato che, la condivisione di quei pensieri, di quei sentimenti provati, di quel vissuto, avrebbe potuto essere di sostegno e di conforto per altre mamme e altri papà che la vita ha messo nella medesima situazione, perché davanti ad un figlio piccolo autistico ci si sente soli, sprovveduti, impotenti. Gli parliamo, lo chiamiamo, ma è sordo alle nostre parole, ai nostri richiami. Non ci guarda negli occhi, sfugge. Compie gesti strani e ripetitivi, si isola in un mondo tutto suo.
Ritengo sia importante prendere coscienza del fatto che, in realtà, purtroppo e per fortuna, non si è soli e che tanti altri genitori stanno cercando aiuto ed hanno bisogno di confrontarsi. Per poter trovare le loro soluzioni. Per ritrovare una qualità di vita soddisfacente per la propria famiglia.
Nella mia ricerca di conoscenza, di conforto, di condivisione, mi sono imbattuta in uno scritto che mi ha intenerito:
La madre speciale
Vi è mai capitato di chiedervi come vengono scelte le madri di figli handicappati? In qualche maniera riesco a raffigurarmi Dio che dà istruzioni agli angeli, i quali prendono nota in un registro gigantesco. «Armstrong, Beth, figlio. Santo patrono Matteo» . «Forrest, Margjorie, figlia. Santo patrono Cecilia» «Rutledge, Carrie, gemelli. Santo patrono...diamo Gerardo, è abituato alla scarsa religiosità». Finalmente passa un nome ad un angelo e sorride. «A questa mamma diamo un figlio handicappato!». L'angelo curioso domanda «Perché a questa Dio? È così felice!» «Esattamente» risponde Dio sorridendo. «Potrei mai dare un figlio handicappato ad una donna che non conosce l'allegria? Sarebbe una cosa crudele!» «Ma ha pazienza?» chiede l'angelo. «Non voglio che abbia troppa pazienza, altrimenti affogherà in un mare di autocommiserazione e pena. Una volta superati lo shock e il risentimento, di sicuro ce la farà». «Ma Signore, penso che quella donna non creda nemmeno in Te». Dio sorride. «Non importa, posso provvedere. Quella donna è perfetta, è dotata del giusto egoismo». L'angelo resta senza fiato. «Egoismo? È una virtù?» Dio annuisce. «Se non sarà capace di separarsi ogni tanto da suo figlio, non sopravviverà mai. Sì, ecco la donna a cui darò la benedizione di un figlio meno che perfetto. Ancora non se ne rende conto, ma sarà da invidiare. Non darà mai per certa una parola. Non considererà mai che un passo sia fatto comune. Quando il bambino dirà «mamma» per la prima volta, lei sarà testimone di un miracolo e ne sarà consapevole. Le consentirò di vedere chiaramente le cose che vedo io - ignoranza, crudeltà, pregiudizio - e le concederò di levarsi al di sopra di esse. Non sarà mai sola. Io sarò al suo fianco ogni minuto di ogni giorno della sua vita, poiché starà facendo il mio lavoro, infallibilmente come se fosse al mio fianco». «E per il santo patrono?» chiede l'angelo tenendo la penna sollevata a mezz'aria. Dio sorride. «Basterà uno specchio».
Ma più spesso, purtroppo, mi sono trovata a riflettere su situazioni reali, molto tristi, tragiche. Fatti di cronaca scioccanti, che rivelano di colpo la sofferenza patita e taciuta, non espressa, o non vista, non ascoltata dagli altri per molto tempo, fino al punto di tramutarsi irrimediabilmente in tragedia.Tempo fa un articolo di cronaca riportava un caso di omicidio – suicidio. Una signora di 66 anni si è procurata una pistola ed ha sparato al cuore e alla testa del figlio di 26, poi si è sparata un colpo al cuore. L’articolo, discretamente, parlava del figlio malato che soffriva anche di epilessia.
E quante volte la cronaca ha riportato fatti di questo tipo! Non giudico. Chi potrebbe? La cura di un figlio adulto con problemi di relazione richiede un impegno sovrumano, totalizzante. Non è nemmeno pensabile che una persona da sola possa far fronte per tutta la vita ad una situazione del genere.
Il menefreghismo generale, il non ho fatto di chi avrebbe potuto fare, l’insofferenza, l’intolleranza di chi avrebbe dovuto capire, l’assenza delle istituzioni che avrebbero dovuto esserci, intervenire! Quelli sono i veri colpevoli di questi crimini.
A chi fa parte delle istituzioni, locali o nazionali, verrebbe da chiedere: perché non provate a pensare voi, che avete figli perfetti, voi che considerate i disabili e le persone in genere solo dei numeri, una quantità, perché non provate a immaginare di trovarvi voi stessi in quella situazione, trattati per anni come colpevoli o come poveri sfigati, dei paria? Perché non provate a immaginare il tenero immenso amore che provereste per il vostro figlio più debole e bisognoso, il fortissimo istinto che vi spingerebbe a vegliare sempre su di lui e a proteggerlo dalla sua fragilità e dalla cattiveria delle persone? Perché non provate a immaginare il grande bisogno di aiuto che avreste e la delusione altrettanto grande, la ferita data dal prendere atto dell’insensibilità delle persone, anche di quelle più vicine. Di quelle da cui vi aspettereste comprensione e collaborazione.
Depressione? È scontato che insorga. Una madre che vede arrivare la vecchiaia e scemare le forze è caduta in depressione ed ha compiuto un atto tanto grave. Ma non era logico che arrivasse a questo? Non era prevedibile?
Perché non provate ad immaginare di andare verso la settantina, di sentire che non avete più la forza fisica, per impedire, per far fronte ai problemi di comportamento di un figliolo che è sempre il vostro bambino, ma che è un ragazzone e ha la forza di un uomo. E non ce la fate più. E sapete che, se venite a mancare, nessuno baderà a lui. Nessuno lo curerà. Nessuno lo accudirà. Sapete che avete consumato la vostra esistenza per amore di quel figlio, che avete fatto l’impossibile per dargli la dignità, l’autonomia che poteva raggiungere. Sapete che siete allo stremo e realizzate essere più dignitoso per entrambi andarsene. Insieme. Senza pesi per la società. Ancora una volta costretti ad assumervi una responsabilità troppo grande, come avete sempre dovuto fare.
Per amore.
Capitolo I.
All’inizio
C’è un problema
Il nostro secondogenito si chiama Fabio, è un bambino di tre anni alto, robusto, biondo e bello come il sole. È estremamente curioso ed impara velocemente tutti i meccanismi dei giochi e degli oggetti di uso quotidiano. È affettuoso e coccolone, ha un bel sorriso, ammiccante e comunicativo, cerca sempre i baci e gli abbracci dei familiari. È un bambino agile, coordinato nei movimenti ed ha un’ottima coordinazione oculo – manuale. Ma non parla.
Fino ai sedici mesi era sereno, allegro, diceva alcune paroline, indicava gli oggetti e le persone. Poi ha semplicemente smesso di farlo. Ha smesso di indicare, di guardare negli occhi, di imitare le azioni e i gesti degli altri. Si è chiuso in un mondo suo. Ci ha tagliato fuori.
Ha iniziato a compiere movimenti ripetitivi, ad autostimolarsi.
Non era più il bambino che conoscevo; non era più il ‘mio’ bambino. Lentamente, ma inesorabilmente, in maniera progressiva si stava chiudendo, come un bocciolo di rosa che, sul punto di schiudersi, in modo assolutamente innaturale resta chiuso, sigillato. Non è, perché non evolve come previsto dalla legge della natura, seguendo la consuetudine.
Era come se gli fosse divenuto impossibile imparare, avere contatti col mondo, e cercasse di riempire quel vuoto con azioni senza senso. Un po’ come facciamo quando siamo nervosi e ansiosi e per occupare il tempo e non andare in crisi compiamo, quasi automaticamente, gesti ripetitivi: C’é chi si alza sulle punte dei piedi ritmicamente, chi si frega le mani ripetutamente, chi gioca con le chiavi nelle tasche, ecc. Fabio doveva assolutamente compiere una serie di azioni di questo tipo.
Da quando è nato, Fabio è sempre stato esagerato: in ospedale, ha iniziato a poppare a poche ore dalla nascita, prima degli altri neonati. Cresceva in media cinquanta grammi al giorno nei primi mesi di vita; lo allattavo al seno e non era possibile staccarlo nemmeno la notte: si riempiva, rigurgitava un po’, e si riattaccava. Di notte e di giorno era
tranquillo solo attaccato al seno. Avrei potuto andare ovunque, fare qualsiasi cosa, ma solo se lo tenevo attaccato al seno.
Con il passare dei mesi lui diventava sempre più pesante e, in realtà, non riuscivo nemmeno a svolgere le normali attività in casa. Questo comportamento aveva dell’esagerato, quasi del morboso. Sembrava non riuscisse ad accettare la separazione dal mio corpo.
Quando dovevo assentarmi per qualche ora e lo lasciavo con le nonne, mi toglievo il latte col tiralatte e lo raccoglievo in un biberon perché non gli mancasse durante la mia assenza.
Lo poppava tutto piangendo e, come rientravo in casa, mi si attaccava al seno, rabbioso, come per rimproverarmi di averlo lasciato, e da quella posizione non si staccava più. Non era mai sazio.
La cosa che mi annientava e che è rimasta per diversi anni una sua caratteristica, era l’impossibilità di calmarlo quando si arrabbiava. Quando succedeva, chiudeva gli occhi, si contraeva tutto ed emetteva un ululato quasi fosse la sirena dell’allarme. Si interrompeva soltanto per riprendere fiato, per poi ripartire.
Non c’era modo di fargli aprire gli occhi e di calmarlo. Continuava ad urlare ad oltranza, fino a che non diventava cianotico, tutto sudato dallo sforzo del pianto. Si riposava il tempo sufficiente per riprendersi e poi ricominciava a piangere.
La cosa mi annichiliva: non potevo andare a fare una doccia senza sentire quelle grida di pianto incessante; non avevo più un momento che non fosse occupato dal pensiero dell’accudimento di Fabio.
In più, c’era Viola da seguire, la mia bambina di tre anni più grande. Viola stava diventando sempre più gelosa di questa presenza che monopolizzava completamente la sua mamma.
Frequentava la scuola materna ma non ci stava volentieri: non voleva pranzare a scuola ed era difficile per lei socializzare con i coetanei.
Quando, verso l’anno e mezzo di età, Fabio iniziò a comportarsi in maniera strana, ad isolarsi, a fuggire, a fissarsi sulle cose luccicanti, tutto divenne più pesante e sempre più preoccupante. Proprio quando ci saremmo aspettati che diventasse progressivamente più autonomo si verificò un blocco: aveva, sì, finalmente iniziato a camminare, ma aveva smesso di guardarci, di relazionarsi con le persone