Culpa in educando, culpa in vigilando
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Anteprima del libro
Culpa in educando, culpa in vigilando - Elisabetta Votta
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Introduzione
Questo libro è una raccolta di pensieri, sensazioni ed esperienze di scuola e di lavoro con gli adolescenti.
La società liquida ha prodotto nuovi modi di vivere e di pensare all’insegna della precarietà esistenziale, e nuovi valori, sia materiali che spirituali, che ci stupiscono ma con cui tutti dobbiamo fare i conti. Il cambiamento ha creato una generazione di giovani che dietro a comportamenti violenti, arroganti e apatici nasconde un disagio di vivere che la famiglia e la scuola non riescono a intercettare e gestire.
È un insieme di storie e riflessioni in cui chi scrive non è staccato dal contesto sociale ed educativo in cui viviamo, ma ne è parte integrante, attore e testimone consapevole.
Lo scopo è quello di cercare di capire quello che succede da vari punti di vista: quello del ragazzo o della ragazza, quello dell’insegnante, del genitore o del terapeuta per provare a ricucire tutto in una complessità che una volta letta richiede l’impegno di ognuno.
È un guardare la realtà con un’ottica più emotiva che razionale, in media res, nel campo di battaglia che vede coinvolte, sullo sfondo della società in evoluzione, le due istituzioni che più delle altre incidono sui ragazzi: famiglia e scuola.
Nella seconda parte saranno approfondite due tematiche particolarmente presenti e rilevanti nella mia esperienza, ovvero il bullismo e il disagio dei ragazzi adolescenti con disturbo di apprendimento all’interno del contesto scolastico.
Premessa
Non è forte colui che non cade mai
ma colui che cadendo si rialza.
Goethe
Da insegnante ho un osservatorio privilegiato rispetto all’adolescenza; da psicologa gli strumenti per comprenderlo, ma non sempre per intervenire.
Siamo in un momento storico particolarmente difficile: la scuola, è risaputo, da sempre è un riflesso della società e l’avvento dei social ha sdoganato ciò che prima albergava solo nelle menti, potenziando e fornendo strumenti per esercitare il potere dell’arroganza e il trionfo del narcisismo; narcisismo che non può essere scalfito pena vendette virali o gesti di ripristino dell’onore, continuamente alimentato da selfie al limite della sicurezza personale e altrui.
Vuoi mettere l’immagine di te a cento all’ora in rete, anche se rischi di morire o di far morire chi ti sta accanto?
È un impulso, è più forte.
Non ci dobbiamo meravigliare se ci sono ragazzi che hanno gesti di violenza estrema quando viene sottratto loro il cellulare, che ormai è parte di sé.
È nei social che si forma l’identità dei ragazzi, che si cercano relazioni e approvazione. La corsa ai like assume la connotazione di una vera e propria dipendenza.
Sui social ci sono immagini patinate che corrispondono più a ciò che si vorrebbe essere che a ciò che si è e questo genera invidia e senso di esclusione. Involucri luccicanti di un vuoto enorme.
Il vuoto, questo grande nemico, la noia, in nome della quale si è capaci di commettere anche crimini efferati come lanciare sassi dal cavalcavia o entrare a casa di derelitti e sbandati, per torturali o prendere a pugni chi passa, o ammazzare qualcuno per vedere come si muore.
In quest’epoca è sempre colpa della scuola: si fa troppo o troppo poco, i voti sono bassi o troppo alti, i professori amici, troppo amici o severi, troppo autoritari, i progetti troppi, ma se poi non se ne fa nessuno i genitori portano i figli nelle scuole dove invece si fanno.
Il signore panzone mio vicino di ombrellone, incazzato con il mondo, si lamenta che i professori sono in vacanza per tre mesi mentre lui si spacca la schiena, ma in realtà il 10 luglio i docenti stanno ancora facendo esami in aule senza aria condizionata, grondando sudore e vergognandosi delle risposte degli alunni.
Sta continuamente al cellulare e urla, fa parte del gruppo a casa loro
che ce l’ha con i migranti che fanno la pacchia, mentre la moglie, anche lei sempre al cellulare, si ritocca le unghie. Il figlio di sei anni circa sta da solo in riva al mare, muovendo nervosamente i piedi, e tra poco strillerà che vuole andare via perché si annoia, mentre la sorella più grande manda messaggi alle amiche dello stabilimento vicino.
La scuola fa fatica a sopportare tutto questo. Il vero problema, di questi tempi, sono le famiglie: famiglie, strane, sole, disfunzionali, patologiche, superficiali. Famiglie che hanno abdicato al loro ruolo, ovvero quello di educare i figli, e fanno finta di non vedere e non capire, cercando capri espiatori quando la realtà non è all’altezza delle loro irrealistiche aspettative (di cui i pargoletti si nutrono). Genitori che si spaventano di fronte alla noia, alla fragilità e alla sofferenza dei figli che dovrebbero essere sempre felici, e che per cercare di evitar loro gli ostacoli li iper-proteggono, impedendo loro di acquisire la capacità di affrontare il mondo.
Gli episodi che tutti i giorni vediamo tra i banchi sono esattamente il prodotto di tutto ciò: la scuola e la società pullulano di bambini e ragazzi maleducati, senza regole, che si affacciano al percorso dell’istruzione portando tutto questo, alla ricerca di un palcoscenico su cui recitare ed essere unici e irripetibili.
Quando le false aspettative si scontrano con la realtà si realizza il crollo, il fallimento. I modelli relazionali di riferimento sono quelli di casa e della società, improntati all’arroganza, al sessismo, al razzismo. Lo vediamo tutti i giorni, lo sfascio della famiglia: genitori latitanti, immaturi, adultescenti che non vogliono accettare i limiti della realtà, il sacrificio necessario per costruire qualcosa che superi l’effimero.
La colpa è vostra
Libertà significa responsabilità.
Ecco perché molti la temono.
G.B. SHOW
L’altra sera, mentre stavo guardando il telegiornale, squilla il cellulare. Rispondo (non conosco il numero ma non si sa mai, che sia una cosa importante) e neanche finisco di dire pronto che sono investita da una voce, resa irriconoscibile dalla rabbia, che mi vomita addosso una serie di parole incomprensibili. È un mio alunno di terza che ha appreso dalla segreteria della scuola di essere stato bocciato e mi chiama per sapere come mai.
Preciso che il numero di telefono era stato da me dato alla madre dopo un colloquio svolto durante l’anno in cui avevamo parlato delle difficoltà del figlio.
«Sei stato bocciato perché avevi molte insufficienze» è stata la mia risposta.
L’arroganza unita all’inconsapevolezza deborda ed esplode: «Voi mettete i voti a caso! Avete sempre ragione! Sono stato bocciato perché il professor Tizio ce l’ha con me!»
Un classico esempio di meccanismo proiettivo e de-responsabilizzante (la colpa è degli altri, io non ce l’ho, anzi sono una vittima).
Al mio invito a moderare i toni e a cambiare atteggiamento ha insistito dicendo che c’erano altre persone con otto insufficienze (delirio) e che avrebbe chiesto di vedere tutti i compiti.
Se i genitori sposeranno la posizione del figlio, è fatta: si aprirà la procedura del ricorso contro gli insegnanti cattivi e la scuola ingiusta, che si concluderà con un nulla di fatto. Ma se i genitori facessero davvero i genitori e agissero per il bene del figlio cercherebbero di capire la fragilità del loro ragazzo mascherata da arroganza, sulla quale noi insegnanti, a volte per mancanza di tempo, spazi, risorse e soprattutto per mancanza di supporto della famiglia, non riusciamo a essere sufficientemente incisivi.
Capirebbero che devono dare delle regole, dei limiti, non accontentare i figli in tutto.
In quest’ottica la bocciatura è un momento di presa di coscienza, un segnale che qualcosa non va.
Io che insegno da quasi trent’anni non ho mai amato le bocciature, ma questa è una generazione che ha bisogno di comprensione, ma anche di essere chiamata alle proprie responsabilità. E così i genitori, i grandi assenti, gli immaturi, gli adultescenti di oggi. Quelli che all’uscita degli scrutini telefonano scioccati perché i loro figli hanno 7 in condotta e non sono dei teppisti (ma stanno continuamente al cellulare e sono completamente assenti, questo non vale?), o che chiamati dal figlio che ha preso 5 vengono subito a parlare con il docente che lo ha redarguito perché l’alunno aveva detto che non poteva mettergli quel voto… non di spiegare il perché, ma no, non può deciderlo proprio, il professore, o quelli che chiamati a casa si accorgono all’improvviso che il loro figlioletto innocente scatta le foto al sedere della compagna e le condivide con tutti… Ma sono ragazzate, son ragazzi.
No, non sono ragazzate, sono reati!
Non è tutto oro quello che luccica
Quando vengono chiamati a casa e gli viene comunicato che dovranno partecipare a un consiglio di classe per provvedimenti disciplinari nei confronti del figlio, cadono dalle nuvole.
«Ma come è possibile? Stava scherzando, sono cose da ragazzi.»
Claudio, il figlio quattordicenne, è un bullo, uno che se la prende con i compagni più deboli e li umilia, prendendo soldi e merende. I genitori del ragazzo preso in giro e gli insegnanti dicono che sta facendo del male al compagno, ma «quello è un pappamolla, non è colpa di nostro figlio se ha dei problemi».
Claudio è cresciuto così, con due genitori che giustificano i suoi comportamenti, che non si rendono conto. Vivace, un bambino vivace: è stato sempre definito così, fin dalle elementari.
Il ragazzo, mentre i suoi genitori parlano, guarda dalla finestra con lo sguardo assente come se tutto quello che viene detto non lo riguardasse minimamente.
«Dio, che palle!» Tutto per quel cretino di Luca che ha fatto la spia. Ma cosa vuole da lui quello sfigato?
Alto, muscoli definiti da attività sportiva quotidiana (è un campioncino di calcio, supervalutato). Va a scuola perché deve, ma lui vuole fare altro nella vita, guadagnare tanti sodi e divertirsi. Sono i genitori a mandarlo a lezione: solo dopo il diploma potrà fare come cazzo gli pare.
Luca non lo sopporta proprio e come lui tutti gli sfigati che guardano per terra invece che negli occhi. Tutti i giorni prova un sottile piacere a umiliarlo minacciandolo di ritorsioni qualora decidesse di parlare…
Ha trovato un gruppo di alleati, ragazzi non sfrontati come lui ma che vogliono assomigliargli, dei leader.
In classe tutti sanno quello che succede fuori, soprattutto nei bagni, e ridono.
Il giorno in cui l’avevano costretto a spogliarsi davanti a tutti era stato un vero spasso, soprattutto quando la foto di Luca era stato postata su Whatsapp e su Facebook con la scritta