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Come ti scopro l'America - Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark
Come ti scopro l'America - Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark
Come ti scopro l'America - Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark
E-book400 pagine4 ore

Come ti scopro l'America - Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark

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Info su questo ebook

Un’avventura percorsa in solitaria da Emanuela Crosetti (fotografa e giornalista) lungo un tragitto di 4000 miglia; da Saint Louis al Pacifico sulle orme dei due capitani Meriwether Lewis e William Clark, che il 14 maggio 1804, al servizio del presidente americano Thomas Jefferson, partirono alla ricerca di un passaggio verso Ovest. Un viaggio avventuroso lungo i fiumi Missouri e Columbia, attraverso l’inesplorato West fino alle coste del Pacifico.Alle singolari narrazioni tratte dai diari inediti di Lewis e Clark si intrecciano le storie che l'autrice raccoglie nei luoghi da loro attraversati. La scia di un recente passato resiste nell’immaginario della gente comune e convive con un presente tecnologico e industriale: contraddizioni inafferrabili di un’America contemporanea trascurata dalle principali rotte turistiche. Un’America inaspettata e imprevedibile, sempre mobile, ironica, sconfinata.«Più si procede verso Ovest, più le miglia tra un paese e l’altro si moltiplicano trasformando i minuscoli agglomerati di case in tanti piccoli miraggi dove le stazioni di benzina diventano doni della Provvidenza e i "diners" miracolose scialuppe di salvataggio in un oceano di scarsità».
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788898848713
Come ti scopro l'America - Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark

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    Come ti scopro l'America - Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark - Emanuela Crosetti

    Scritti Traversi

    COME TI SCOPRO L’AMERICA

    Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark

    di Emanuela Crosetti

    COME TI SCOPRO L’AMERICA

    Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark

    di Emanuela Crosetti

    © 2016 - Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Collana Scritti Traversi

    ISBN 978-88-98848-71-3

    Impaginazione omgrafica, roma

    Fotografie Emanuela Crosetti

    A Roberto e a quel giorno

    a Bourg-Saint-Maurice

    Da Saint Louis al Pacifico, il tragitto che Lewis e Clark percorsero tra il 1804 e il 1806.

    SUONALA ANCORA, BOB!

    La città, vista dall’alto, quasi scompare dietro l’immenso Missouri. Le acque scorrono opalescenti e anemiche come un siero malato. Missouri e Mississippi procedono inquieti e insofferenti con irritante lentezza, si confondono con quel cielo atono che incombe su di loro come la più gravosa delle sentenze.

    Only one thing I did wrong: stayed in Mississippi a day too long, cantava Bob Dylan.

    Sto per atterrare a Saint Louis.

    FIGLIO D’UN CANE

    Quando Lewis ricevette la lettera, si trovava ancora a Pittsburgh. E di pessimo umore.

    Era giunto in città il 15 luglio 1803 con l’idea di trattenersi soltanto pochi giorni, il tempo necessario a sistemare alcuni affari, ma finì per restarvi sei lunghe e frustranti settimane.

    La missiva di Clark arrivò la mattina del 3 agosto, in una di quelle torride giornate in cui il fiume trasuda zanzare e i fumi delle fabbriche non riescono a sollevarsi oltre le loro stesse ciminiere. Lewis la aprì con impazienza temendo un garbato rifiuto. Amico mio – scriveva Clark – ti assicuro che non c’è altra persona che conosca con la quale vorrei intraprendere questo viaggio se non tu. Lewis chiuse gli occhi con un sorriso e tirò un sospiro di sollievo: Clark aveva accettato l’invito, sarebbe partito con lui. Ma quando avrebbero potuto lasciare la città? Erano clamorosamente in ritardo sulla tabella di marcia per colpa di un certo William Greenough, l’unico vero responsabile di quelle continue dilazioni.

    Lewis ripiegò la lettera, si asciugò la fronte e si precipitò in officina; trovò Greenough ancora una volta ubriaco, quel furfante di un costruttore, ciucco come una campana stonata e col pugno alzato verso i suoi poveri garzoni.

    Lo afferrò per la camicia e lo strattonò come se fosse una pelle da conciare, gli intimò di onorare il contratto, di portare a termine immediatamente la barca che un mese prima si era impegnato a realizzare. Una barca lunga 55 piedi che Lewis stesso aveva disegnato e la cui costruzione aveva commissionato all’inaffidabile Greenough ancor prima di arrivare a Pittsburgh.

    Erano giorni che il Capitano pianificava la partenza. Ingannava l’attesa facendo e rifacendo ansiosamente i bagagli, ricominciando sempre daccapo l’inventario dei rifornimenti e controllando il livello del fiume che, con sua somma preoccupazione, continuava ad abbassarsi rischiando di mettere seriamente a repentaglio la navigazione.

    Meriwether Lewis, nominato capitano da Thomas Jefferson, allora presidente degli Stati Uniti d’America, aveva una missione da compiere: esplorare l’America selvaggia che si estendeva tra la riva destra del fiume Mississippi e le coste dell’oceano Pacifico, Louisiana inclusa. Proprio quella Louisiana che, poco tempo prima, Napoleone aveva (s)venduto agli Stati Uniti per la cifra ridicola di quindici milioni di dollari.

    Si trattava di un’America sconosciuta, di quel profondo Far West ancora muto e vuoto, attraversato soltanto da cacciatori, pionieri, commercianti di pellicce e stravaganti avventurieri senza più nulla da perdere ma che, nel corso del tempo, avevano alimentato i racconti e le fantasiose divagazioni di chi viveva a Est. A questo punto Lewis doveva reclutare in breve tempo un manipolo di validi uomini disposti a discendere il fiume Ohio insieme a lui, recuperare a Louisville il luogotenente, nonché compagno d’arme e amico, William Clark e risalire il Mississippi fino a Saint Louis. Da qui avrebbe seguito il corso del fiume Missouri verso ovest fino alle sorgenti, superato le Montagne Rocciose e raggiunto infine il Pacifico. Al momento, però, riuscire a tenere Greenough lontano dalla sua fiaschetta di whisky si rivelava un’impresa di gran lunga più complicata.

    Lewis optò per l’unica soluzione percorribile: piazzarsi in cantiere e sorvegliare giorno e notte il lavoro di quei pochi operai rimasti. Ma né i tentativi di persuasione né le minacce ebbero alcun effetto: non ci fu verso di avere la barca finita prima delle sette del mattino di mercoledì 31 agosto.

    Tre ore dopo, completate in tutta fretta le procedure di carico, Lewis e i suoi uomini finalmente salparono dal porto di Pittsburgh lasciandosi alle spalle quella chiassosa città e quell’incallito bevitore figlio d’un cane.

    LEWIS E CLARK

    Sabato 21 maggio 1804, il Corpo di spedizione, comandato dal capitano Lewis e dal luogotenente Clark, composto da ventisei volontari, tre sergenti e da York, lo schiavo nero di Clark, lasciò la città di Saint Louis per iniziare la sua navigazione verso Occidente. C’era anche un cane con loro, Seaman. Lewis lo aveva acquistato a Pittsburgh per venti dollari mentre aspettava pazientemente che il signor Greenough smaltisse la sbornia.

    Avevo conosciuto Lewis e Clark tra i banchi universitari, seduti con le divise abbottonate, i cappelli di pelliccia e gli stivali ancora imbrattati dal fango capriccioso del Missouri.

    Meriwether Lewis era nato a Charlottesville, Virginia, nel 1774. Uomo leale e colto, introverso, riflessivo e spesso irrimediabilmente malinconico, si distingueva per la risoluta ironia e per la diplomatica pazienza.

    William Clark, classe 1770, anch’egli originario della Virginia, aveva conosciuto Lewis mentre prestavano servizio nell’esercito americano. Corporatura solida, temperamento estroverso, Clark era soprattutto un eccellente cartografo con uno spiccato senso dell’orientamento, a parte quella volta che si smarrì nella tempesta quasi travolto dalla corrente del Missouri; lo salvò il suo schiavo York.

    Durante le lezioni di Storia quei due fantasmi se ne stavano lì, muti e accorti, perduti nel mare di parole che risaccava tra date rigide e nomi consunti, tra scalpitanti congetture e racconti che, imbolsiti dal loro essere continuamente narrati, avrebbero ubriacato anche un sordo. Si parlava d’America. Ma io l’America la volevo scoprire dentro le parole degli stessi americani, quelle che ti arrivano senza domande, incapaci di prendersi sul serio; quelle abbandonate sui banconi appiccicaticci di qualche diner o scivolate durante un interminabile e sperduto pieno di benzina.

    Martedì 9 settembre 2014, alle 10.20 di una mattina quasi autunnale, mi imbarco sul volo UA18L per New York diretta a Saint Louis.

    Lo sguardo frange contro la vertigine verticale di quelle linee spigolose. Le vie hanno l’odore calcificato del barbecue, oppresse da una coltre umida e spessa che giunge strisciando dal Mississippi e accerchia i semafori.

    MISSOURI

    SAINT LOUIS

    Eccola, Saint Louis.

    Un cumulo di palazzi simili a scatole di cartone affastellate, colori che vanno dal seppia all’antracite, dalla tinta sabbia al sangue rappreso. Lo sguardo frange contro la vertigine verticale di quelle linee spigolose. Le vie hanno l’odore calcificato del barbecue, oppresse da una coltre umida e spessa che giunge strisciando dal Mississippi e accerchia i semafori. Gli edifici sono tra loro così vicini da trattenere il buio anche nelle ore più chiare del giorno, trasformandosi in serbatoi di dubbie intenzioni. Il dissimulato trambusto e la sua mediocre pulizia rendono però Saint Louis una città sincera dove ogni cosa sta dove può.

    Per fortuna, a ravvivare uno scenario degno della pittura urbana del più fosco Sironi sono gli afroamericani: adorabili, ironici e gentili, dalla battuta sempre pronta e dalla voglia incontinente di parlare, passo lento e abiti pittoreschi. Sempre sorridenti o irreparabilmente incazzati.

    Dave è uno di loro; un ragazzo piuttosto giovane che sembra uscito dagli spalti di una partita di baseball. Indossa pantaloni poco sotto il ginocchio, una maglietta larga più della sua già abbondante circonferenza, scarpe da ginnastica alte e un cappellino rigorosamente a rovescio. Tiene ben stretta nella mano sinistra una bottiglietta semivuota di chissà che bibita e mastica chewing gum con fare flemmatico, un passo dopo l’altro, molleggiando sui talloni con l’aria di chi ha un’intera giornata da perdere. Dave mi coglie in un momento di difficoltà col pagamento della sosta; mi fa cenno di seguirlo e davanti al parcometro mi spiega: «Devi infilarli qui, vedi? È semplice, ogni stallo ha la sua macchinetta e quando scade il tempo lo schermo diventa rosso e lampeggia. Allora prega che la Polizia non se ne accorge altrimenti sono multe, e pure salate… Che diavolo dici? Un biglietto da mettere sul cruscotto? Ma che biglietto, di che parli?».

    Invece di andarsene per conto suo, Dave decide di affiancarmi e così mi obbliga a procedere con il suo stesso passo monotono e sedato. Invidio questa negazione della fretta, questa capacità di trasformare ciò che scorre in una presenza che persiste. I duecento metri che percorriamo insieme mi regalano l’opportunità di guardare ciò che forse avrei solamente intravisto e di ascoltare ciò che probabilmente avrei solamente udito: risa scordate e automobili sature di musica rap, bicchieri dimenticati contro i muri e ingombranti odori di fritto, sfilate di larghi fondoschiena e rigide marce di valigette.

    Oh, Dave! Il tuo slang si sta facendo incomprensibile e le poche parole che riesco a cogliere sono isole perdute nel mare di una sintassi sconnessa. Le uniche due che riconosco sono democracy e rights.

    Poi lui volta a destra e io a sinistra, smaterializzandoci con la stessa fugacità con cui eravamo apparsi.

    Dall’altro lato del fiume, un reticolato di lunghi tir ruggenti di merci scivolano sull’asfalto delle tangenziali, tra fabbriche irte di ciminiere e olezzi che ammorbano il respiro; una statua di bronzo seduta su una panchina rimira la città con la malinconia del frontaliere. Tutto intorno, in una calura asfissiante e caliginosa, invisibili stormi di cicale puntellano l’udito. Un’enorme bandiera americana sventola davanti a uno stabilimento tutto cilindri, passaggi sospesi e fumaioli e un’altra, ancora più goliardica, svetta inspiegabilmente sullo spuntone di una gru.

    Il quartiere della città vecchia, situato a nord di Saint Louis, è lo spirito pulsante che resiste. Le sue linee imprecise si propagano fra case basse e colorate con ingressi precari e infissi spesso inesistenti. Molte giacciono abbandonate e altre sono ridotte molto male. Una di esse è visibilmente instabile e tutta inclinata da una parte ma sembra volersi adagiare più che crollare; nello sfiorarla si ha quasi la sensazione che vibri.

    La popolazione è nera, senza sfumature o eccezioni. Di quel nero che quasi oscura la vista e rende i colori degli abiti ancora più sgargianti e chiassosi.

    La maggioranza dei giovani che si incrociano per strada si barcamena tra un bicchiere di caffè americano e una porzione di patatine fritte. Come seguendo un copione, entrano nei fast food lasciando il pick-up acceso a bordo strada, e ne escono con le mani piene di roba fumante; si siedono in auto e mangiano con metodica voracità, musica ad alto volume e qualche ritrosa effusione, se si tratta di coppie o amanti clandestini.

    La specialità cittadina è il gelato e il gusto più in voga è l’oreo, in onore del famoso dolce statunitense formato da due biscotti al cioccolato, uno strato interno di crema al latte e un vago richiamo di liquore. La Crown Candy Kitchen, con il suo parapiglia cromatico, forme e proporzioni gigantesche, detiene il primato di miglior pasticceria della città. È stata aperta nel 1913 da due immigrati macedoni ed è arredata con una mobilia in stile anni Trenta, tutta insegne, suppellettili lucide e squadrati posti a sedere.

    SAINT CHARLES

    La notte è scesa su Saint Louis prima del previsto, spinta da tifoni incalzanti. Nessuna gradualità: solo il sopraggiungere improvviso di tuoni e lampi, tanto da far sembrare la mia traversata cittadina fino al sobborgo di Saint Charles una spedizione in mare aperto. Ferma a bordo strada, vedo le luci dei lampioni tremolare oltre il finestrino inzuppato di pioggia; non riesco nemmeno a leggere i numeri civici delle case ma sono sicura che quella dalle finestre illuminate è l’abitazione che mi attende. Le altre hanno l’aria di dormire da un pezzo.

    Alle 12, dopo aver dato un affettuoso addio al mio anfitrione, all’eccellente donna sposa del signor Peter Chouteau, e a molti dei miei onesti amici di Saint Louis, abbiamo proseguito verso il villaggio [di Saint Charles] per incontrarci con il mio amico, compagno e collega Capitano William Clark che è già arrivato sul posto assieme alla Compagnia destinata alla scoperta dell’entroterra del Continente nordamericano. […] Il villaggio è composto da una chiesetta, un centinaio di casette e circa 450 abitanti; le abitazioni sono generalmente piccole e mal costruite; la maggior parte delle persone sono povere, analfabete ed eccessivamente pigre, sebbene siano gentili e ospitali. Vivono tra loro in un perfetto stato di armonia e confidano nelle dottrine del loro pastore spirituale, il funzionario della chiesa cattolica romana, alla cui volontà essi cedono con passiva obbedienza.

    Lewis, 20 maggio 1804

    Il sobborgo di Saint Charles, situato nella periferia nordoccidentale di Saint Louis, è una bolla di tempo immobile, un agglomerato ordinato di villini, lunghe auto e giardini costellati di trovate stravaganti, come il lampione a forma di Statua della Libertà collocato lungo un vialetto di ingresso. Ogni casa è una frivolezza di ninnoli, pizzi e fronzoli tinta giocattolo mentre le costruzioni in mattoni rossi, con il loro sapore ottocentesco e orgogliosamente secessionista, si alternano lungo l’unica strada che attraversa il villaggio, dritta, lastricata e ornata di lanterne a gas. I cestini della spazzatura sono botti provenienti da vecchie cantine e ovunque c’è una vetrina davanti alla quale soffermarsi, un’antica insegna da leggere o un passaggio in legno che scricchiola.

    La casa nella quale alloggio sembra uscita da un libro di fiabe: bambole, nastrini e carillon. La cucina è un’immensa tovaglia a quadretti rossi ricoperta di superfici luccicanti, tendine posticce ed elettrodomestici dal fascino anni Cinquanta. La mia stanza, invece, ha pareti tappezzate con foto di lontani canyon ed è ornata da lunghe pipe accanto alle quali scure statue di indiani vigilano come antichi numi tutelari. Mi sento fuori dal tempo, se non fosse per questa pioggia che aumenta e per quest’afa che si gonfia. E poi i grilli: a migliaia, a milioni. Fanno il chiasso di un battaglione. Sono estenuanti, pungenti, ossessivi. Da togliermi il sonno. Dove trovano l’aria per respirare con tutta quest’acqua? Intanto uno strano uccello, proprio davanti alla mia finestra, fa il verso di una porta che cigola.

    Ha piovuto per tutta la seconda parte della notte e la pioggia continua anche stamattina. Ho dormito piuttosto poco a causa del chiasso che facevano cigni, oche, anatre bianche e grigie situati su una piccola isola alla nostra sinistra; sono così immensamente numerosi che il rumore che fanno è terribile.

    Clark, 4 novembre 1805

    Mi sono svegliata sotto il fragore di un acquazzone torrenziale e nella penombra di un tappeto di nuvole stagnanti. All’alba, l’esibizione sonora dei grilli della sera prima ha lasciato il posto al frinire ridondante e fitto delle cicale. La quantità di insetti là fuori è da invasione biblica. Apro le finestre e il volume si impenna, amplificato dal caldo opprimente e da un livello di umidità così elevato da rendere la respirazione un’attività tutt’altro che automatica.

    Il campanellino della signora Rhona, la padrona di casa, ha appena suonato nella stanza accanto, ricordandomi che è tempo di alzarsi. Il profumo che sale dalla cucina mi fa pensare che la colazione sia pronta.

    Rhona è un donnone dai capelli grigi e dagli occhiali spessi. Ha una tremenda voglia di parlare, di condividere, di ascoltare. Come quasi tutti gli americani.

    Scendo dabbasso. C’è un invitante movimento di stoviglie e utensili sparpagliati ovunque. La crema di formaggio è stata rimestata di fresco, il cartone del latte è aperto e versato per metà; i resti di un panetto di burro sono ancora da sciogliere e le uova appoggiate sulla credenza attendono di essere rotte. Aleggia un profumo dolce di marmellata: Rhona sta preparando una torta.

    Mi fa accomodare al tavolo del salotto: nessuna foto di famiglia, nessun volto, nessun ricordo. Sembra una donna senza passato. Tutto pare immobile da molto tempo. Mi serve un’abbondante macedonia di frutta, un pasticcio di formaggio con sciroppo d’acero e del bacon. Mi racconta della misteriosa scomparsa di Meriwether Lewis, diversi anni dopo la conclusione della spedizione, e dei modi gentili di William Clark verso i nativi d’America. Infine mi lascia una mappa e tre generose fette di torta di mele e noci preparata all’alba.

    «Devi fare molta attenzione quando attraversi le Montagne Rocciose», mi raccomanda. «Se segui il fiume Missouri dovrai percorrere circa duemila miglia. Laggiù i villaggi sono rari, le fattorie sperdute e i viaggiatori piuttosto difficili da incrociare».

    Duemila miglia. Cosa sono realmente duemila miglia, in termini di percezione, esperienza, tempo, storia? È quasi come lasciare Francoforte e guidare fino a Stalingrado. La abbraccio e la rassicuro. Dentro quell’abbraccio il corpo di Rhona è davvero grande. Un leggero tremolio delle guance e lo sguardo smarrito rivelano il suo desiderio di non vedermi andar via.

    Make life delicious! People who love to eat are always the best people! è la scritta che campeggia sul muro d’ingresso dell’Olde Town Spice Shoppe, una drogheria tracimante di spezie, salse, aromi e barattoli di ogni genere. Un viaggio nel profumo e nella storia dei sapori americani, mescolanza coraggiosa di elementi franco-britannici, latino-messicani e dell’Europa dell’Est. Anche Maggie profuma di spezie ed è vezzosa quasi come i saliscendi degli scaffali.

    «Questa casa è stata costruita nei primi anni del XIX secolo ed è una delle più antiche di Saint Charles», mi dice la donna. «Il suo primo proprietario era un medico molto affermato in città, così stimato e apprezzato da essere stato chiamato da Lewis e Clark in persona a rifornire il Corpo di spedizione di tutte le medicine, le lozioni e gli antidoti necessari a quel tipo di impresa: laudano e oppio, calomelano e mercurio, chinino, solfato di sodio, nitrato di potassio, acido tartarico e soluzioni purgative. Vedi lassù, su quello scaffale? Ce n’è ancora qualche flaconcino. Sembra che alcuni di questi preparati fossero addirittura letali ma, se utilizzati nelle giuste dosi, potevano fare miracoli».

    Sia Peter Wiser, cuoco e quartiermastro della Compagnia, che Sacajawea, loro guida e interprete, ne sperimentarono i poteri…

    […] abbiamo trovato Wiser che stava male, in preda ad una colica. Ho mandato il Sergente Ordway che è rimasto con lui per dargli un po’ d’acqua e una dose di essenze di menta e di laudano che, nel giro di mezz’ora, gli hanno fatto effetto così che è stato in grado di montare il mio cavallo e io ho proceduto a piedi e ci siamo ricongiunti alla Compagnia.

    Lewis, 2 agosto 1805

    Verso le cinque del pomeriggio, Sacajawea, una delle mogli di Charbono, ha partorito un bel bambino. È il suo primo figlio e, come è comune in questi casi, il travaglio è stato tedioso e il dolore violento. Il signor Jessome mi aveva detto che spesso è solito somministrare una piccola porzione di sonagli di serpente i quali, mi ha assicurato, non hanno mai fallito nel produrre l’effetto desiderato, ovvero accelerare il parto. Avendo con me uno di questi sonagli, glielo ho dato e lui ne ha somministrato alla donna due anelli rompendoli in tanti piccoli pezzi con le dita e aggiungendoci un po’ d’acqua. Che la medicina fosse davvero o no la causa non lo posso giurare, ma sono stato informato che lei l’aveva presa da non più di dieci minuti, quando ha partorito.

    Lewis, 11 febbraio 1805

    Sacajawea era una Shoshone originaria di Salmon, nell’Idaho. Quando Lewis e Clark la vollero con loro, aveva poco più di quindici anni ed era incinta di sei mesi. Poco tempo prima era stata rapita dalla tribù degli Hidatsa e condotta a nord, dove ora sorge la città di Washburn. Il commerciante francese di pelli Charbonneau, che viveva nello stesso villaggio, la liberò dalla prigionia acquistandola o forse vincendola al gioco. La sola presenza di lei e del figlio Jean Baptiste appena nato pare abbia tranquillizzato molte delle tribù incontrate durante il viaggio sulle intenzioni non belligeranti della Compagnia. Clark aveva un’alta opinione di lei e molte sarebbero state le fantasie romantiche tessute sul loro conto nei decenni a venire.

    Quando esco dal negozio è già tempo di cena: lo si intuisce dall’aria unta di carne alla brace e patate al forno, dal mormorio proveniente dagli angoli della via e dalle luci delle finestre che si sono fatte più calde e vivide. Che ore saranno? La casa davanti a me, una dimora di legno bianco in stile coloniale, indossa orologi dai grandi quadranti che, appesi all’esterno di ogni piano, sembrano vestigia di lampadari senza lumi. Sono orologi simili alle pendole da salotto o a quelli che si incontrano lungo i binari delle stazioni ferroviarie. Peccato che ognuno di essi segni un orario diverso. Prendo posto al tavolo del ristorante di fronte e ordino un cheeseburger.

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