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I pionieri: Le sorgenti del Susquehanna
I pionieri: Le sorgenti del Susquehanna
I pionieri: Le sorgenti del Susquehanna
E-book576 pagine9 ore

I pionieri: Le sorgenti del Susquehanna

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Info su questo ebook

Con I Pionieri, scritto nel 1823, James Fenimore Cooper inizia la sua serie di romanzi dedicati a Natty Bummpo detto "Calza di Cuoio", che tornerà tre anni dopo nel suo capolavoro L'Ultimo dei Mohicani. Siamo nel 1793 e nei giovani Stati Uniti d'America il vecchio mondo selvaggio trovato dai coloni sta cedendo il passo alla civilizzazione, con tutti i dubbi e i rischi del caso. Natty Bummpo, anziano cacciatore che ha scelto di vivere ai margini della società in stato quasi selvaggio, cerca di mantenere la propria identità in un mondo che si espande troppo velocemente.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2016
ISBN9788899403317
I pionieri: Le sorgenti del Susquehanna
Autore

James Fenimore Cooper

James Fenimore Cooper (1789-1857) was an American author active during the first half of the 19th century. Though his most popular work includes historical romance fiction centered around pioneer and Native American life, Cooper also wrote works of nonfiction and explored social, political and historical themes in hopes of eliminating the European prejudice against Americans and nurturing original art and culture in America.

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    Anteprima del libro

    I pionieri - James Fenimore Cooper

    17

    James Fenimore Cooper, I pionieri

    1a edizione Landscape Books, dicembre 2016

    Collana Aurora n° 17

    © Landscape Books 2016

    Titolo originale: The Pioneers or The Sources of Susquehanna

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-31-7

    In copertina: A Stone Quarry di Frederick Richard Lee.

    Progetto grafico service editoriale il Quadrotto.

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    J. F. Cooper

    I pionieri

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    Chi legge L’Ultimo dei Mohicani, lettura spesso obbligata a scuola o comunque negli anni di formazione, raramente riceve un’informazione fondamentale, e cioè che sta leggendo il capitolo di una pentalogia.

    Quando infatti Cooper pubblicò nel 1826 il suo capolavoro che lo consacrò come primo grande romanziere americano, stava in effetti dando un prequel al suo romanzo di tre anni prima, I pionieri appunto, in cui compariva per la prima volta il personaggio di Natty Bumppo, o Calza-di-Cuoio, che qui vediamo come anziano cacciatore che vive in stato quasi selvaggio, ai margini dell’insediamento di Templeton, accompagnato dal fido Chingachgook (che è in questo caso l’ultimo dei Mohicani). Seguiranno altri tre romanzi, portando il ciclo di Calza-di-Cuoio a diventare una pentalogia in cui ogni romanzo racconta un’epoca diversa della vita di Natty e della storia americana.

    E se è interessante vedere come il protagonista del ciclo sia spesso un personaggio marginale dei romanzi, è molto importante il ruolo che la storia americana ha nella poetica dell’autore. Cooper – che racconta in questo romanzo diversi eventi autobiografici relativi alla sua famiglia – scrive I pionieri nel 1823 ma lo ambienta nel 1793, in un momento cruciale per i giovani Stati Uniti, un momento in cui i coloni devono decidere che tipo di civiltà dovrà rimpiazzare le terre selvagge in via di urbanizzazione, quali leggi sarà giusto applicare e quale attenzione per la conservazione del pregresso. Degli interrogativi che secondo alcuni critici oggi sono più che mai attuali nel momento in cui ci rivolgiamo le stesse domande relative ai limiti dell’individualismo e alla difesa dell’ambiente. Cooper descrive la questione con attenzione quasi antropologica, intervallandola al documentarismo con cui mostra delle terre in via di sparizione o di profonda modifica.

    Questo fa sì che, soprattutto all’occhio moderno, abituato ad altri ritmi, il romanzo appaia all’inizio lento e prevedibile, nonostante l’esordio sia all’insegna dell’azione. Ma è nei primi circa venti capitoli che Cooper, tra una descrizione e una spiegazione, pone le basi perché la seconda parte sia avvincente ed emozionante, con i personaggi fino a quel momento solo descritti che prendono vita e posizione, con le numerose sfumature anche dei coprotagonisti e un tessuto narrativo ancora oggi godibile, nonostante lo stile dell’autore appaia in alcuni casi datato. Ciononostante, I pionieri resta un romanzo incredibilmente potente nel modo in cui illustra il conflitto tra la società in espansione e le spoglie del mondo precedente che si lascia dietro. E si conclude con una scena – Natty che si allontana al tramonto – che da lì in poi verrà ripresa talmente tante volte da diventare un archetipo narrativo.

    Capitolo I

    Vedi, l’inverno viene, a governar l’anno mutato,

    Cupo e triste, con tutto il suo corteo:

    Nebbie e nubi e tempeste.

    Thomson

    Vicino al centro dello Stato di New York si stende un ampio distretto la cui superficie è tutta un susseguirsi di colline e di vallette, o per rispettare maggiormente i termini geografici, di montagne e di vallate. È fra queste che trae origini il Delaware; e, scorrendo dai limpidi laghi e dalle migliaia di sorgenti di quella regione, le numerose fonti del Susquehanna errano di valle in valle finché si uniscono a formare uno dei più imponenti fiumi degli Stati Uniti. Le montagne sono generalmente arate fino alla cima, benché non manchino esempi di fianchi montani irti di rocce che contribuiscono a rendere anche più romantico e pittoresco il carattere del paese: le valli sono strette, profonde e coltivate, e un corso d’acqua le attraversa serpeggiando. Bei villaggi fiorenti sorgono sull’orlo dei laghetti e sulle rive dei fiumi nei punti più adatti alle industrie; e linde e comode fattorie, che presentano tutti i segni esteriori della ricchezza, sono sparpagliate in gran numero per le valli e fin sulle cime. Le strade divergono in tutte le direzioni, dal fondo piano e ameno delle conche ai più aspri e difficili valichi delle montagne. Accademie e scuole si offrono ogni poche miglia allo sguardo del forestiero che percorre le strade tortuose di quel paese così variato; e gli edifici dedicati al culto di Dio vi abbondano con la frequenza tipica di un popolo onesto e riflessivo, e con quella varietà di aspetti e di indirizzi canonici che sgorga dalla più completa libertà di coscienza. In breve, tutto il distretto dimostra continuamente quanto può essere ottenuto, sotto leggi miti, perfino in un paese montuoso e con clima rigido, dove ognuno degli abitanti ha un interesse diretto nella prosperità e nel benessere della comunità della quale sa di far parte. Gli sforzi dei pionieri che per primi ararono questa terra sono stati continuati con assidue migliorie dall’agricoltore che aspira a lasciare i suoi resti mortali sotto la zolla che coltiva, per renderla sempre più ricca; e forse anche suo figlio, nato su questa terra, desidera piamente di non allontanarsi dalla tomba del padre. Solo quarant’anni fa, questo territorio era un deserto.

    Appena dichiarata l’indipendenza degli Stati a mezzo della pace del 1783, l’attività dei cittadini fu diretta a sviluppare i vantaggi naturali dei loro amplissimi domini. Prima della Rivoluzione le parti abitate della colonia di New York erano limitate a meno di un decimo dei loro possedimenti. Una stretta striscia di terreno che si stendeva per breve tratto da ambo le parti dell’Hudson e una cinquantina di miglia sulle rive del Mohawk, insieme alle isole di Nassau e di Staten e a poche colonie isolate qua e là nei punti più convenienti sulle rive dei fiumi, componevano tutto il paese, abitato allora da meno di centoventimila anime. Nel breve periodo di tempo suddetto, la popolazione si è sparsa oltre cinque gradi di latitudine e sette di longitudine, e ha raggiunto un milione e mezzo di abitanti, che sono mantenuti nell’abbondanza e possono guardare all’avvenire, certi che secoli passeranno prima che arrivi il giorno fatale in cui i loro possedimenti possano rivelarsi inadeguati ai loro bisogni.

    Il nostro racconto comincia nel 1793, circa sette anni dopo la fondazione di una delle più antiche di quelle colonie, che hanno effettuato un così magico cambiamento nelle condizioni e nella potenza dello Stato di cui parliamo.

    Era quasi il tramonto di un giorno di dicembre limpido e freddo, e una slitta avanzava lentamente su per una montagna del distretto che abbiamo descritto. Il giorno era stato bello per la stagione, e solo due o tre grosse nuvole, illuminate dal riflesso della neve che ammantava la terra, fluttuavano in un cielo di purissimo azzurro. La strada serpeggiava sul ciglio di un precipizio, sostenuta da una parte da un rinforzo di tronchi ammucchiati, mentre una stretta insenatura scavata nel fianco della montagna, dal lato opposto, formava uno spazio abbastanza largo per le necessità di viaggio a quei tempi. Ma tronchi, scavo e tutto quello che non sorgeva di parecchi piedi sulla terra era sepolto sotto la neve. Un’unica pista, appena appena sufficiente ad accogliere la slitta¹ e sprofondata di circa due piedi sotto la superficie circostante, indicava la strada. Nella valle che si estendeva parecchie centinaia di piedi più sotto, c’era quello che nella lingua del paese era chiamato una chiarita e tutti i lavori d’uso in una nuova colonia; anzi questi si stendevano per la montagna fino al punto dove la strada svoltava bruscamente e correva sul pianoro che costituiva la cima, che era rimasta boscosa. L’atmosfera scintillava, quasi piena di particelle luccicanti, e due bei cavalli bai che tiravano la slitta erano coperti, qua e là, da una crosta di ghiaccio. Il respiro sgorgava dalle loro narici come fumo; ogni cosa intorno, nonché l’equipaggiamento stesso dei viaggiatori, denotava il rigore dell’inverno montano. I finimenti, di un nero opaco, diverso dalle lucenti verniciature che usano oggi, erano adorni di enormi placche e borchie di rame che splendevano come l’oro quando i raggi del sole si infiltravano obliqui fra le cime degli alberi. Enormi selle borchiate e coperte di quel panno che serve a fare coperte per il bestiame sorreggevano quattro alte torrette a punta quadrata, attraverso le quali le pesanti redini passavano dalla bocca dei cavalli alle mani del guidatore, che era un nero di circa vent’anni.

    Il suo viso, che la natura aveva dipinto di un bruno scintillante, sembrava chiazzato dal freddo, e i suoi grandi occhi lucenti erano pieni di lacrime: immancabile tributo dell’africano al gelo acutissimo di quelle regioni. Sulla sua faccia allegra si leggeva tuttavia una sorridente espressione di buonumore, suscitato dal pensiero della casa e di un bel fuoco natalizio e di tutti i divertimenti d’occasione. La slitta era uno di quei mezzi di trasporto ampi, comodi e antiquati che avrebbero accolto nel grembo una famiglia intera, ma conteneva soltanto due viaggiatori oltre al cocchiere. All’esterno era di un modesto color verde, ma nell’interno di un rosso fiammeggiante, inteso a suscitare l’idea del calore in quel rigido clima. Sul fondo erano distese ampie pelli di bufalo orlate di panno rosso a festoni, ammucchiate intorno ai piedi dei viaggiatori, uno dei quali era un uomo di mezza età, e l’altro una fanciulla nel primo fiore della giovinezza. Il primo era grande e grosso, ma le preoccupazioni prese per salvaguardarsi dal freddo lasciavano ben poco della sua persona esposto alla vista. Un pastrano abbondantemente ornato d’una profusione di pellicce, avviluppava tutta la sua figura tranne la testa, che era coperta da un berretto di martora foderato di marrocchino, con due paraorecchi tirati giù e legati sotto la gola con un nastro nero; la sommità del berretto era sormontata dalla coda dell’animale che aveva fornito il materiale e che, non senza grazia, ricadeva di qualche pollice dietro la testa. Sotto questa specie di maschera si intravedeva un bel viso virile e un paio di occhi azzurri, grandi ed espressivi, che tradivano un intelletto non comune, un fine senso d’umorismo e una grande benignità. La figura della sua compagna era letteralmente nascosta dagli indumenti che indossava. Pellicce e sete spuntavano sotto un ampio pastrano di pelo di cammello pesantemente foderato di flanella che, per la foggia e la misura, era senza dubbio destinato a un indossatore di genere maschile. Un grande cappuccio ovattato, di seta nera, le nascondeva la testa non lasciando che una piccola apertura sul davanti, dalla quale scintillavano due vivaci occhi nerissimi.

    Tanto il padre che la figlia (tali erano i due viaggiatori) erano troppo occupati coi propri pensieri per rompere col suono della loro voce un silenzio appena rigato dal facile scivolar della slitta. Il primo pensava a sua moglie che, quattro anni prima, aveva stretto al cuore per l’ultima volta la loro creatura dopo aver consentito, a malincuore, a separarsene, affinché potesse godere i vantaggi d’una educazione offerta a quei tempi soltanto dalla grande città di New York. Pochi mesi dopo, la morte lo aveva privato dell’unica compagna della sua solitudine; eppure, sollecito com’era del bene della sua bambina, non aveva voluto ricondurla nel luogo relativamente selvaggio in cui viveva prima che fosse spirato il periodo destinato al compimento dei suoi studi. Le riflessioni della fanciulla erano meno malinconiche, e mescolate a una piacevole meraviglia dinanzi al mutevole scenario che incontrava a ogni svolta della strada.

    La montagna su cui viaggiavano era coperta di pini che sorgevano nudi e dritti per venti o venticinque metri, e che spesso con la cima raddoppiavano quell’altezza. Attraverso le innumerevoli prospettive aperte fra gli alberi maestosi, l’occhio spaziava finché trovava una lontana irregolarità del terreno o era arrestato dalla cima della montagna che sorgeva al di là della valle. I neri tronchi si slanciavano dal puro candore della neve come lance regolari finché, a grande altezza, ne sgorgavano i rami orizzontali coperti dal magro fogliame dei sempreverdi, stranamente contrastanti col torpore della natura sottostante. Ai viaggiatori sembrava che non ci fosse vento; eppure i rami più alti ondeggiavano maestosamente emettendo un suono grave e lamentoso, in armonia con quella malinconica scena.

    La slitta procedeva scivolando sulla liscia superficie della neve e gli sguardi della fanciulla erano fissi, incuriositi e forse un po’ timidi, nei recessi della foresta, quando si udì un latrato alto e continuo, riecheggiato dalle lunghe arcate dei boschi come l’abbaiare di un’intera muta di segugi. Appena quel suono giunse all’orecchio del gentiluomo, questi gridò al nero:

    «Fermati, Aggy, c’è il vecchio Hector: riconoscerei il suo latrato fra mille! Calza-di-Cuoio ha portato i cani in montagna, con questa bella giornata, e hanno cominciato a cacciare. C’è una pista di cervo poco più su… E ora, Bess, se non avrai paura di sentire un colpo di fucile, ti offrirò un bel pezzo di cacciagione per il tuo pranzo di Natale».

    Il nero tirò le redini con un allegro sogghigno sul viso infreddolito e cominciò a battersi le braccia per riavviare la circolazione sanguigna mentre il signore si alzava, e, gettate via le coperte, scendeva dalla slitta su un mucchio di neve che sostenne il suo peso senza cedere.

    In pochi momenti riuscì a estrarre da una quantità di bauli e di cappelliere una leggera doppietta da caccia. Gettate via le pesanti manopole che gli riparavano le mani, le quali apparvero infilate in guanti di pelle orlati di pelliccia, esaminò l’innesco e stava per fare un passo avanti, quando s’udì fra i tronchi un balzo leggero, e un bel cervo passò come una freccia per il sentiero a poca distanza da lui. La comparsa dell’animale fu improvvisa e la sua fuga inconcepibilmente veloce; ma a quanto pareva il viaggiatore era troppo esperto per lasciarsi sconcertare. Appena l’animale fu in vista alzò il fucile, e con occhio sicuro e mano ferma premette il grilletto. Il cervo balzò via, apparentemente immune. Senza abbassare l’arma il viaggiatore girò la canna nella stessa direzione e fece fuoco di nuovo.

    La scena si era svolta con una rapidità sconcertante, e la fanciulla si rallegrava già inconsapevolmente della salvezza del bell’animale passato come una freccia dinanzi a lei, quando il suo orecchio fu colpito da un suono secco e riverso dalla detonazione piena e sonora del fucile del padre, ma amaramente riconoscibile come un colpo d’arma da fuoco. Nello stesso istante il cervo, balzando dalla neve, fece un gran salto in aria, e prima che ricadesse a terra a capofitto rotolando nell’eccesso stesso della sua velocità, era echeggiato un altro colpo simile al primo. Si udì un grido lanciato dall’esperto tiratore ancora invisibile; poi due uomini uscirono da dietro il tronco di due pini dove senza dubbio si erano appostati per attendere il passaggio della preda.

    «Ah Natty! Se avessi saputo che c’eri tu in agguato non avrei sparato!» eclamò il viaggiatore avvicinandosi al punto dove giaceva il cervo, seguito fin lì dal nero raggiante, con la slitta. «Ma il latrato del vecchio Hector era troppo entusiasmante; però non so neppure se l’ho colpito io».

    «No, no, giudice», rispose il cacciatore ridacchiando fra sé, e con quell’aria d’esultanza che indica la coscienza di un’abilità superiore. «Avete bruciato la polvere soltanto per scaldarvi il naso, con questo freddo. Credevate di fermare un cervo adulto, con Hector e la cagna quasi addosso, con quel fucilino da bambini? Nelle paludi ci sono molti fagiani; e i fringuelli volano così vicini alla vostra porta da poterli sfamare con le briciole e poi sparare a volontà; ma per il cervo, o per un po’ di carne d’orso, giudice, serve la carabina lunga o sprecherete polvere e resterete a stomaco vuoto».

    Così concludendo, colui che aveva parlato si coprì il naso con la mano nuda e spalancò di nuovo l’enorme bocca in una specie di risata interiore.

    «Il fucile risponde bene, Natty, e ha ucciso un cervo prima d’oggi», rispose il viaggiatore, con una risata cordiale. «Una canna era carica di pallottole da cervo, e l’altra soltanto di pallini per gli uccelli. Ecco qua due ferite: una nel collo e un’altra proprio nel cuore. È certo, Natty, che una delle due è la mia».

    «Chiunque l’abbia ammazzato», ribatté il cacciatore un po’ brusco, «scommetto che quest’animale è da mangiare». Così dicendo cavò fuori un grosso coltello da una guaina di cuoio che portava infilata nella cintura, o meglio nella fusciacca che gli cingeva la vita, e tagliò al cervo la gola. «Se ci sono due palle, domando e dico, non ci sono stati forse due fucili? E poi chi ha visto mai uno squarcio come questo del collo, prodotto da un fucile a canna liscia? E dovrete riconoscere, giudice, che il cervo è caduto all’ultimo sparo, che era opera di una mano più giovane e più ferma della vostra e della mia; per parte mia, benché io sia un povero diavolo, posso vivere senza cacciagione, ma non mi piace rinunciare ai miei diritti in un paese libero. Benché, quanto a questo, mi sembra che la forza la vince qua come al paese vecchio».

    Il cacciatore pronunciò il suo discorsetto con un’aria di cupo malcontento, e stimò prudente finire la frase a bassa voce, così da non lasciar udire che un confuso borbottio.

    «Via, via, Natty», continuò il viaggiatore con inalterata bonarietà, «sai bene che io penso solo all’onore. Per pochi dollari comprerò la bestia, ma chi mi ripagherà della gloria perduta di una bella coda di cervo sul mio berretto? Pensa, Natty, come trionferei su quel briccone di Dick Jones, che con tutti i suoi sogghigni ha fatto fiasco già sette volte quest’inverno, e non ha portato a casa che una marmotta e qualche scoiattolo grigio».

    «Ah, la caccia comincia a scarseggiare, giudice, con tutte le vostre chiarite e le vostre migliorie», disse il vecchio, di malumore. «C’è stato un tempo in cui ho ammazzato tredici cervi, senza contare i cerbiatti, stando sulla soglia della mia capanna! E quanto a carne d’orso, se uno ne voleva una coscia, per esempio, non aveva che da appostarsi di notte e poteva prenderne uno, con la luna piena, dalla fessura dei tronchi; e senza paura di addormentarsi, perché ci pensava l’ululato dei lupi a fargli tenere gli occhi aperti. Ecco qua il vecchio Hector», continuò carezzando affettuosamente un alto segugio a macchie gialle e nere, col ventre e le zampe bianche, che si era accostato all’odore, insieme alla cagna già nominata. «Guardate dove l’avevano preso alla gola, i lupi, la notte che li cacciai dalla selvaggina che stava ad affumicare sul comignolo… Questo cane è più fidato di un cristiano, perché non dimentica gli amici e ama la mano che gli dà il pane».

    Nelle maniere del cacciatore c’era qualche cosa di strano che attirava la curiosità della giovane donna, la quale, fin dal momento in cui era comparso, osservava con vivo interesse il suo aspetto e il suo equipaggiamento. Era un vecchio alto, e così magro da sembrare anche più lungo del metro e ottanta che misurava senza scarpe. Sulla testa dai capelli biondicci, radi e lisci, portava un berretto di pelle di volpe, simile per la foggia a quello descritto poco fa, ma molto più modesto in quanto a rifiniture e ornamenti. Il viso era scarno, segnato, quasi macilento, ma non portava traccia di malattie, anzi denotava una salute eccezionalmente robusta. Il freddo e la vita all’aria aperta gli avevano dato un’uniforme tinta rossa: i suoi occhi grigi balenavano sotto lunghe e irsute sopracciglia dove peli grigi si mescolavano a quelli di color naturale; il collo scarno, abbronzato come il volto, era nudo benché un lembo del colletto di una camicia a scacchi, secondo l’uso del paese, spuntasse dall’apertura di una specie di giubbotto di pelle di daino conciata, col pelo interno, stretta intorno al magro corpo da una cintura di filo ritorto multicolore. Calzava mocassini di daino ornati di aculei di porcospino alla maniera degli indiani, e le sue gambe erano protette da lunghe ghette dello stesso materiale, che, giungendo fin sopra il ginocchio sugli scoloriti pantaloni, gli avevano guadagnato fra i coloni il nomignolo di Calza-di-Cuoio. Dalla spalla sinistra pendeva, appeso a una cintura di pelle, un enorme corno da caccia, così consunto da lasciar trasparire il contenuto. La parte più larga era chiusa da un ingegnoso disco di legno, e l’altra tappata ermeticamente da un piccolo turacciolo di metallo. Sul petto gli ciondolava un borsotto, pure di pelle, da cui, mentre concludeva il discorso, cavò fuori un misurino, e dopo averlo accuratamente riempito di polvere, cominciò a ricaricare il fucile, che, col calcio sulla neve dinanzi a lui, arrivava quasi alla cima del suo berretto di pelo.

    Frattanto il viaggiatore era andato esaminando con attenzione le ferite; e ora, senza far caso al malcontento del cacciatore, esclamò:

    «Vorrei stabilire un diritto, Natty, sull’onore di questa morte: e se la ferita sul collo è mia, basta così: perché il colpo al cuore non era necessario… è quello che chiamiamo un atto di supererogazione, Calza-di-Cuoio».

    «Chiamatelo pure come vi pare e piace, giudice», disse il cacciatore buttandosi il fucile sul braccio sinistro e battendo la mano su un piccolo coperchio d’ottone da cui trasse un pezzetto di pelle ingrassata che, dopo avervi avvolto una pallottola, infilò a forza sulla polvere, continuando a premere energicamente mentre parlava. «È più facile dire paroloni che colpire un cervo mentre salta; ma questa bestia ha trovato la morte per opera di una mano più giovane della vostra e della mia, come ho già detto».

    «Che ne dite, amico?», esclamò il viaggiatore volgendosi cordialmente al compagno di Natty: «Buttiamo in aria un dollaro per decidere a chi tocca l’onore, e se perdete tenetevelo pure. Che ne dite dunque?».

    «Dico che il cervo l’ho ucciso io», rispose il giovane con una certa alterezza, appoggiandosi a un lungo fucile simile a quello di Natty.

    «Siamo due contro uno!», replicò il giudice con un sorriso. «Addio votazione. Sono liquidato, come diciamo noi! C’è Aggy che non può votare perché è uno schiavo, e Bess che è minorenne. Ma vendetemi l’animale e il diavolo se lo porti se non inventerò una bella storia sulla sua morte».

    «Non sta a me venderlo», ribatté Calza-di-Cuoio adottando un po’ dell’alterigia del suo compagno. «Per parte mia, ho visto animali che viaggiano per notti e giorni con una ferita nel collo; e io non sono di quelli che derubano gli altri di quel che gli è dovuto, di diritto».

    «Sei ben attaccato ai tuoi diritti, con questo freddo, Natty!», ribatté il giudice con inalterabile buonumore «ma che ne dite, giovanotto, tre dollari vi ripagherebbero del cervo?».

    «Cerchiamo prima di definire la questione del diritto con piena soddisfazione di entrambi», disse il giovane con voce ferma ma rispettosa, e con una pronuncia e un modo d’esprimersi assai superiori al suo aspetto. «Con quante pallottole avevate caricato il fucile?».

    «Con cinque, signore», rispose il giudice, alquanto colpito dalle maniere dell’altro. «Non bastano per uccidere un cervo come questo?».

    «Ne basterebbe una, ma», continuò lo sconosciuto riavvicinandosi al tronco dietro il quale era scomparso, «voi sapete benissimo, signore, di aver sparato in questa direzione: ecco quattro pallottole nell’albero».

    Il giudice esaminò i segni freschi nella corteccia del pino e, scosso il capo, rispose ridendo:

    «Voi fate il processo contro i vostri interessi, mio giovane avvocato… dov’è la quinta?».

    «Qui», rispose il giovane buttando giù il rozzo pastrano che indossava e indicando un foro nella camicia da cui stillavano grosse gocce di sangue.

    «Buon Dio!», esclamò il giudice, inorridito. «Stavo scherzando su una vana superiorità, e un mio simile soffriva per colpa mia senza un lamento! Presto, presto, entrate nella mia slitta, non c’è che un miglio da qui al villaggio dove si può avere l’assistenza medica… Tutto sarà fatto a mie spese, e voi resterete con me fino a completa guarigione… sì, e anche dopo!».

    «Vi ringrazio per le vostre buone intenzioni, ma sono costretto a declinare l’offerta. Ho un amico che starebbe in pensiero se sapesse che sono ferito e lontano da lui. È cosa da poco, e la pallottola non ha toccato l’osso; ma credo, signore, che adesso riconoscerete il mio diritto alla preda».

    «Se lo riconosco!», ripeté il giudice, tutto agitato. «Ti investo qui del diritto di uccidere cervi, orsi o tutto quello che ti pare in questi miei boschi, per sempre. Calza-di-Cuoio era l’unico a cui avevo concesso questo privilegio, e verrà un momento in cui avrà un bel valore! Ma compro il cervo, ecco qua, questo biglietto ti ripagherà per il tuo colpo di fucile e per il mio».

    Durante questo dialogo, il vecchio cacciatore si era raddrizzato in tutta la sua alta statura con aria d’orgoglio, ma aspettò che l’altro avesse finito di parlare.

    «È ancora vivo qualcuno che dice che il diritto di Nathaniel Bumppo di cacciare su queste montagne è più antico che quello di Marmaduke Temple di proibirlo», disse. «Ma se c’è una legge (benché chi ha sentito mai dire di una legge che proibisce a qualcuno di sparare a un cervo dove più gli piace!), insomma se c’è una legge, dovrebbe impedire alla gente di sparare con quei fucili a canna liscia. Uno non sa mai dove schizzerà il piombo quando si preme il grilletto di una di quelle armi da fuoco così poco sicure».

    Senza curarsi del soliloquio di Natty, il giovane si inchinò in silenzio all’offerta della banconota, e rispose:

    «Vogliate scusarmi: ho bisogno di quel cervo».

    «Ma con questa potrai comprartene molti altri!», disse il giudice. «Prendila, te ne prego!». E abbassando la voce in un bisbiglio aggiunse: «Sono cento dollari».

    Per un attimo, il giovane sembrò esitare; poi, arrossendo violentemente sotto i vivi colori che il freddo aveva deposto sulle sue guance, quasi vergognandosi della sua debolezza, tornò a declinare l’offerta.

    Durante questa scena la ragazza si era avvicinata e, incurante del freddo aveva tirato indietro il cappuccio.

    «Giovanotto… signore» intervenne ansiosamente, «non addolorate mio padre costringendolo a lasciare qui, in questo deserto, una persona ferita dalle sue mani. Vi supplico di venire con noi e di farvi curare».

    Sia che la ferita si facesse più dolorosa o che nelle maniere e nella voce della bella mediatrice dei sentimenti paterni vi fosse qualche cosa di irresistibile, la freddezza del giovane fu addolcita da questo appello, ed egli sembrò molto incerto, riluttante ad acconsentire e pure spiacente di rifiutare. Il giudice – perché tale essendo il suo ufficio, così d’ora in poi lo chiameremo – seguiva con interesse i segni di questa singolare tenzone di sentimenti sul viso del giovane; poi, facendo un passo avanti, lo prese gentilmente per mano e lo spinse con dolcezza verso la slitta invitandolo a entrarvi.

    «Non c’è possibilità di aiuto se non a Templeton», disse, «e la capanna di Natty è a tre buone miglia da qui; vieni, mio giovane amico, vieni con noi e lascia che il nuovo medico guardi la tua spalla. Natty porterà notizie tue a quel tuo amico, e se mai, potrai tornartene a casa domani mattina».

    Il giovane riuscì a svincolarsi dalla cordiale stretta del giudice, ma continuava a guardare il volto della fanciulla la quale, incurante del freddo, stava ancora a testa scoperta, e i cui bei lineamenti assecondavano eloquentemente la richiesta del padre. Calza-di-Cuoio se ne stava intanto appoggiato al suo lungo fucile, con la testa un po’ china, immerso nelle sue meditazioni; poi soddisfatti a quanto pareva i suoi dubbi, dopo un attento esame del problema, ruppe il silenzio.

    «Sarà meglio che tu vada, figliolo mio, dopo tutto: perché se il pallino è rimasto sotto la pelle, la mia mano è troppo vecchia per tagliare la carne di un uomo come sapevo fare una volta. Circa trent’anni fa, nella vecchia guerra, quando stavo sotto Sir William, percorsi settanta miglia da solo nelle solitudini più selvagge, con una pallottola di carabina nella coscia, e poi me la cavai fuori tagliandomi col mio coltello a serramanico. L’indiano John se lo ricorda bene. Lo incontrai con una compagnia di Delaware sulla pista dell’Iroquois che era venuto a prendersi cinque scalpi sullo Schoharie. Ma io gli lasciai un segno che credo abbia portato fino alla tomba! Lo presi proprio nel sedere (scusi tanto la signora) proprio quando usciva dall’imboscata, e gli scaricai tre pallottole da cervo nel fianco nudo così vicino che avreste potuto coprirle con una moneta da quattro soldi!» E Natty protese il lungo collo e si raddrizzò spalancando la bocca che scoprì un’unica zanna ingiallita, mentre sembrava ridere con gli occhi e col viso e perfino con tutta la persona, benché non si udisse alcun suono, tranne una specie di sibilo come se egli inalasse l’aria a singhiozzi. «Avevo perduto lo stampo dei pallini traversando lo sbocco dell’Oneida e dovetti servirmi dei pallini da cervo; ma il fucile era sicuro e non sviava come quel vostro affare a due gambe, giudice, col quale non conviene andare a caccia in compagnia».

    Le scuse di Natty alla delicatezza della giovane donna erano perfettamente inutili, perché, mentre lui parlava, la ragazza era stata troppo occupata ad aiutare il padre a rimuovere vari articoli di bagagli per starlo a sentire. Incapace di resistere più a lungo alle premure dei viaggiatori, il giovane, pur mostrando ancora un’incomprensibile riluttanza, si lasciò convincere a salire sulla slitta. Il nero, con l’aiuto del padrone, gettò il cervo sul bagaglio e, quando fu entrato nel veicolo anche lui, il giudice invitò il cacciatore a fare altrettanto.

    «No, no», rispose il vecchio scuotendo il capo, «ho da fare a casa, questa sera di Natale; andate pure voi, ragazzo mio, e fate vedere la spalla a un medico, benché, se vorrà estrarre il proiettile, io poi ho certe erbe che guariranno la ferita più presto di qualunque unguento di fuori». Si voltò, e stava per andarsene quando, quasi ricordando a un tratto qualche cosa, si fermò e aggiunse: «Se vedete l’indiano John a piè del lago, farete bene a prenderlo con voi perché dia una mano al dottore; perché, vecchio com’è, si interessa di ferite e di ammaccature, e…».

    «Ferma, ferma!», gridò il giovane afferrando il braccio del nero che si preparava a frustare i cavalli; «Natty, non dir nulla della ferita, né di dove vado… ricordatelo, Natty, se mi vuoi bene!».

    «Fidatevi del vecchio Calza-di-Cuoio», ribatté il vecchio con un cenno significativo, «che non ha vissuto cinquant’anni nella foresta senza aver imparato dai selvaggi a star zitto… Fidatevi di me, figliolo, e non dimenticate John l’indiano».

    «Natty», aggiunse il giovane ansiosamente, sempre tenendo il braccio del nero, «mi farò estrarre la pallottola e ti porterò stasera un quarto del cervo per il pranzo di Natale».

    Il cacciatore lo interruppe intimandogli il silenzio con un gesto espressivo della mano alzata, poi si avvicinò cauto all’orlo della strada, tenendo gli occhi fissi sui rami di un pino. Raggiunta la posizione voluta si fermò, e, imbracciato il fucile, piegò profondamente un ginocchio; poi, tendendo più che poteva il braccio sinistro lungo la canna, cominciò ad alzare adagio la bocca dell’arma in direzione del tronco diritto dell’albero. Gli occhi di tutti i viaggiatori nella slitta precedettero il movimento del fucile, e presto scoprirono l’oggetto della mira di Natty. Su un ramoscello secco del pino, che sporgeva a una settantina di piedi da terra proprio sotto i rami ancor vivi dell’albero, era appollaiato un uccello che nel linguaggio della regione era chiamato una pernice. Era di poco più piccolo di un comune pollo domestico. L’abbaiare dei cani e la conversazione che si era svolta ai piedi dell’albero avevano spaventato il volatile che si era ritirato accanto al tronco del pino, con la testa e il collo eretti sì da formare quasi una linea diritta con le gambe. Appena fu a tiro, Natty premette il grilletto, e la vittima piombò giù con una violenza tale che la fece sprofondare nella neve.

    «A cuccia, mascalzone», gridò Calza-di-Cuoio brandendo il calcio del fucile contro Hector che si precipitava a piè dell’albero, «a cuccia, dico!». Il cane ubbidì, e Natty procedette con la massima rapidità e accuratezza a ricaricare il fucile; poi raccolse la preda e mostrandola perfettamente decapitata alla comitiva, disse: «Ecco un bocconcino per il pranzo natalizio di un vecchio; non importa il cervo, ragazzo mio, e ricordati di John. Le sue erbe sono migliori di tutte le unzioni forestiere. Guardate qua, giudice», seguitò alzando di nuovo l’uccello, «credete che un fucile a canna liscia l’avrebbe tirato giù dal posatoio senza nemmeno arruffargli una piuma?». Il vecchio fece un’altra delle sue straordinarie risate in cui si mescolava esultanza, buonumore e ironia, poi, scuotendo il capo si voltò e trascinando il fucile si immerse nella foresta con un passo che sembrava un piccolo trotto. A ogni movimento sprofondava di parecchi pollici giù per il declivio; prima che la slitta imboccasse una svolta, il giovane girò gli occhi in cerca del suo vecchio compagno, e lo vide già quasi nascosto dai tronchi, mentre i suoi cani lo seguivano tranquillamente, odorando distratti le piste del cervo, quasi sentendo per istinto che non servivano più. Un altro balzo della slitta, e Calza-di-Cuoio scomparve alla vista.


    ¹ Sleigh è la parola usata in ogni parte degli Stati Uniti per denotare una slitta a cavalli. È d’uso comune nell’Inghilterra occidentale, da dove probabilmente è derivata agli americani. Questi fanno distinzione tra sled, sledge e sleigh: la sleigh è cerchiata di metallo. Le sleigh possono essere a uno o a due cavalli: alla prima categoria appartengono il cutter con le stanghe sistemate in modo da permettere al cavallo di viaggiare al lato della pista; il pung o tow-pung, che è diretto con un bastone, e il gumper, rozza costruzione usata nei nuovi paesi per scopi temporanei. Molte slitte americane sono eleganti, benché l’uso di questo mezzo di trasporto vada diminuendo col migliorare del clima dopo il taglio delle foreste.

    Capitolo II

    Tutti i luoghi che visita l’occhio del Cielo

    Sono per l’uomo saggio rive e porti felici.

    Non pensare che il re t’abbia bandito:

    Tu hai bandito il re.

    Riccardo II

    Circa centoventi anni prima dell’inizio del nostro racconto, un antenato di Marmaduke Temple era venuto nella colonia di Pennsylvania, amico e correligionario del suo grande patrono. Il vecchio Marmaduke (poiché questo formidabile nome di battesimo era proprio della famiglia), portò con sé in quell’asilo di perseguitati una gran quantità delle buone cose di questo mondo. Divenne padrone di molte migliaia di acri di terreno disabitato, e responsabile di una larga schiera di dipendenti; visse grandemente rispettato per la sua pietà, e non poco distinto come settario; fu investito dai suoi compagni di molti importanti uffici politici e morì appena in tempo per non sapere della sua povertà. Fu suo destino di condividere le sorti di molti che portarono con sé le loro ricchezze nelle nuove comunità delle colonie del centro.

    Il rango di un emigrante in quelle province era generalmente accertato dal numero di servi e di dipendenti bianchi e dal genere degli incarichi politici che deteneva. Ciò posto, l’antenato del nostro giudice doveva essere stato un personaggio veramente importante.

    È curioso tuttavia, ai giorni nostri, riandando alle scarse memorie rimasteci di quel periodo, osservare come fu regolare, e, tranne per poche eccezioni, inevitabile, il graduale passaggio dei padroni alla povertà e dei servi alla ricchezza. Avvezzo agli agi e incapace di affrontare le difficoltà che non mancano mai in una società nascente, il ricco emigrante riusciva a mantenere il suo prestigio solo in forza della superiorità e dei meriti personali; ma appena disceso nella tomba, i suoi rampolli indolenti e relativamente maleducati erano costretti a cedere il passo alle energie più attive di una classe stimolata ad agire dalla necessità. Questo corso delle cose è molto comune ancor oggi, allo stato presente dell’Unione; ma era particolarmente la sorte dei due estremi della società nelle colonie pacifiche e poco intraprendenti della Pennsylvania e del New Jersey.

    I discendenti di Marmaduke non sfuggirono alla sorte comune di coloro che dipendevano più dai possessi ereditari che dalla propria forza; e alla terza generazione erano decaduti a un punto oltre il quale, in questo benedetto paese, ben di rado l’onestà, l’intelligenza e la sobrietà possono scendere. Lo stesso orgoglio di famiglia che, con la sua soddisfatta indolenza, li aveva condotti alla decadenza, divenne il principio stimolatore dei loro sforzi per risorgere. Il sentimento, torbido in origine, divenne a poco a poco un desiderio sano e attivo di emulare il carattere, la posizione, e magari la ricchezza degli antenati. Il primo a risalire nella scala della società fu il padre della nostra nuova conoscenza, il giudice; e in questa impresa fu non poco assistito da un matrimonio che lo mise in grado di dare a suo figlio un’educazione assai superiore a quella che potevano offrire le umili scuole pubbliche della Pennsylvania, e che era stata praticata in famiglia durante le due o tre generazioni.

    Alla scuola dove la crescente prosperità del padre poteva mantenerlo, il giovane Marmaduke aveva stretto intima amicizia con un giovane pressappoco della sua età. Era stata questa, per il nostro giudice, una fortunata alleanza, che doveva aprirgli la strada a gran parte dei suoi futuri successi.

    I parenti di Edward Effingham vantavano non solo grandi ricchezze, ma un’alta posizione a corte. Appartenevano a una delle poche famiglie allora residenti nelle colonie che reputavano degradante abbassarsi ai commerci, e non emergevano mai dall’intimità della vita domestica se non per presiedere ai consigli della colonia o per prendere le armi in sua difesa. Appunto le armi erano state l’unica professione del padre di Edward, sin dalla giovinezza. Sessant’anni fa, sotto la corona di Gran Bretagna, le alte cariche militari erano raggiunte con un tirocinio assai più lungo, un servizio assai più pesante di quanto non lo siano oggi. Anni e anni venivano trascorsi senza lamentele nei gradi più bassi: sicché quando ottenevano il comando di una compagnia, quei soldati di stazione nelle colonie si sentivano autorizzati alla massima deferenza da parte dei pacifici abitanti del paese. Qualunque dei nostri lettori abbia occasione di traversare il Niagara, potrà facilmente osservare non solo l’importanza che si danno i più umili rappresentanti della corona anche in quella regione polare del sole della regalità, ma la vera e propria stima di cui godono. Tale, in un periodo non tanto lontano, era il rispetto con cui veniva trattato l’esercito in quegli Stati, dove ora, fortunatamente, non si ode più squillo di guerra, a meno che non sia fatto echeggiare dalla libera voce del popolo. Quando perciò il padre dell’amico di Marmaduke si ritirò col titolo di maggiore dopo quarant’anni di servizio, mantenendo tutto lo splendore dell’andamento domestico, divenne il personaggio più cospicuo della sua colonia nativa, che era quella di New York. Aveva servito con fedeltà e coraggio, e anche con lode, essendo stato onorato di incarichi assai superiori a quanto comportasse il suo grado. Cedendo alle esigenze dell’età, il maggiore Effingham si ritirò dignitosamente rifiutando la mezza paga o qualunque altro compenso per servizi che non poteva più rendere.

    Il governo gli offrì vari uffici civili, che consentivano non solo onori, ma anche profitti; ma egli li declinò tutti, fedele alla cavalleresca indipendenza che lo aveva distinto per tutta la vita. Ben presto il vegliardo fece seguire a questo atto di disinteresse pubblico un altro di munificenza privata che, per quanto poco prudente, era in perfetta armonia con l’integrità delle sue opinioni.

    L’amico di Marmaduke era il suo unico figlio; e a questo figlio natogli dal suo matrimonio con una dama che gli era stata carissima, il maggiore trasferì legalmente tutto il suo patrimonio, consistente in denaro liquido, una residenza in città, una in campagna, parecchie importanti fattorie nella parte vecchia del paese e grandi tratti di terre ancora selvagge nel nuovo, mettendosi così alla mercé della pietà filiale per il suo futuro mantenimento. Rinunciando alle generose offerte del Ministero britannico, il maggiore Effingham aveva fatto sorgere in tutti coloro che affollavano le strade del favore regale anche in quelle remotissime parti del grande impero, il sospetto che fosse ormai rimbambito; ma quando si spogliò volontariamente della sua grande ricchezza personale, anche tutto il resto della comunità adottò d’istinto la stessa conclusione: certo il maggiore era tornato all’infanzia! La sua importanza declinò rapidamente, e se il suo scopo era il godimento dell’intimità e della solitudine, il veterano fu ben presto esaudito. Comunque il mondo potesse valutare l’atto del maggiore, per lui e suo figlio non fu che il dono naturale, da parte di un padre, dei beni che non poteva più né godere né migliorare, a un figlio che per natura e per educazione sembrava atto tanto all’una cosa che all’altra. Il giovane Effingham non fece obiezioni alla donazione, sentendo che benché il padre si fosse riservato un controllo morale sulle sue azioni, egli lo avrebbe alleggerito di un grave peso; tanta, anzi, era la confidenza che esisteva fra loro, che a entrambi sembrò semplicemente di spostare quel denaro dalla tasca dell’uno a quella dell’altro.

    Uno dei primi atti del giovane, entrato in possesso del suo patrimonio, fu di cercare l’amico d’infanzia, con l’intenzione di offrirgli quell’appoggio che ormai era in suo potere di concedere.

    La morte del padre di Marmaduke e la conseguente divisione della sua piccola proprietà fece sì che l’offerta fosse estremamente gradita al giovane della Pennsylvania; egli sentiva la sua forza, e vedeva non solo le qualità, ma anche i punti deboli del carattere dell’amico. Effingham era per natura indolente, fiducioso, a volte impetuoso e avventato; Marmaduke più uguale, acuto, e pieno di attività e di iniziativa. L’appoggio, o meglio la collaborazione offertagli, gli sembrò una promessa di scambievoli vantaggi; l’accettò perciò con piacere, e le condizioni furono stipulate senza difficoltà.

    Con gli utili del patrimonio di Effingham venne fondata nella metropoli della Pennsylvania una casa di commercio; tutto, o quasi tutto, era nelle mani di Temple, il quale risultava l’unico proprietario apparente mentre, in segreto, l’altro aveva diritto a un’eguale partecipazione dei profitti. La società fu tenuta nascosta per due ragioni, una delle quali fu schiettamente confessata a Marmaduke dall’amico durante le loro libere discussioni, e l’altra rimase profondamente nascosta nel suo seno. E quest’ultima non era che orgoglio di casta. Per il discendente di una stirpe di soldati, il commercio, anche in maniera così indiretta, era sempre un’occupazione degradante; ma l’ostacolo veramente insuperabile consisteva nei pregiudizi del padre.

    Abbiamo già detto che il maggiore Effingham aveva servito con onore. In una certa occasione, trovandosi al comando di una località della frontiera occidentale della Pennsylvania contro una lega di francesi e d’indiani, non solo la sua reputazione, ma la salvezza sua e delle sue truppe furono messe in grave pericolo dalla politica di pace di quella piccola colonia. Per il soldato questa fu una colpa imperdonabile. Egli sapeva che i miti princìpi di quella piccola comunità di cristiani puri sarebbero stati calpestati dai furbi e maligni avversari, combatteva per difenderli e sentiva più cocente l’offesa in quanto capiva che rifiutandogli l’appoggio i colonizzatori avrebbero fatto la sua rovina senza salvare la pace. Dopo una lotta disperata, il valoroso soldato riuscì a liberarsi con un pugno d’uomini dal sanguinario nemico, ma non perdonò mai coloro che dopo averlo esposto al pericolo lo avevano lasciato a difendersi da solo. Invano gli fu detto e ridetto che non erano stati loro a chiamarlo a guardia della loro frontiera: era loro «sacrosanto dovere», diceva, dargli aiuto.

    Il vecchio soldato non era stato mai un ammiratore dei pacifici discepoli di Fox. Le loro sobrie abitudini di mente e di corpo li avevano dotati di una grande perfezione fisica: e l’occhio del veterano era solito misurare le belle proporzioni e le atletiche figure dei coloni con uno sguardo carico di sprezzo per le loro imbelli facoltà virili. Egli si compiaceva anche un po’ troppo di esprimere l’opinione che quando l’osservanza delle forme esterne della religione è tanto grande, non ci può essere molta sostanza. Non tocca a noi spiegare quale sia, o quale dovrebbe essere l’essenza del cristianesimo: ci limitiamo a esporre qui le opinioni del maggiore Effingham.

    Conoscendo i sentimenti del padre riguardo a questa gente, non deve meravigliare che il figlio esitasse a confessargli di essere in relazione, anzi di dipendere addirittura dall’onestà di un quacchero.

    Abbiamo visto che Marmaduke traeva origine dai contemporanei e dagli amici di Penn. Suo padre aveva sposato fuori della cerchia della chiesa a cui apparteneva, spogliando così i suoi rampolli di alcuni dei loro privilegi; tuttavia, poiché il giovane Marmaduke era stato educato in una colonia e in una società in cui anche il più comune rapporto fra amici recava l’impronta di quella mite religione, le sue abitudini e il suo linguaggio ne presentavano tracce evidenti. In seguito, il suo matrimonio con una signora completamente estranea a quella setta religiosa contribuì ancora ad affievolire le sue prime impressioni: eppure sotto certi punti egli le conservò fino alla morte, e veniva osservato da tutti che, quando era profondamente interessato o preoccupato, ricadeva nel linguaggio della sua gioventù. Ma questo è anticipare il nostro racconto.

    Quando divenne socio dell’amico, Marmaduke era in tutto e per tutto un quacchero, come aspetto e modo di comportarsi; affrontare i pregiudizi

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