Omnia Romae cum pretio: A Roma tutto ha un prezzo
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Info su questo ebook
Durante una serata a teatro assiste alla aggressione di Giulia, una attrice che, prontamente, difende. Scopre però che dietro l’aggressione di tipo sessuale, come inizialmente sembrava, sono nascosti fatti ben più gravi.
A complicare le cose l'omicidio di Stella Maris, attrice tra le più famose dell'epoca, trovata uccisa il giorno dopo che Giovan Battista Picasso l'aveva intervistata.
Il giornalista si trova ad essere al centro della vicenda: da una parte tra i principali sospettati dall'altra indagatore assieme al commissario Valeri che già aveva avuto modo di conoscere in una vicenda precedente.
ROMANZO TERZO CLASSIFICATO GIALLOFESTIVAL 2021
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Anteprima del libro
Omnia Romae cum pretio - tommaso picasso
Tommaso Picasso
OMNIA ROMAE CUM PRETIO
(A Roman tutto ha un prezzo)
Prima Edizione Ebook 2023 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104849
Immagine di copertina su licenza:
https://stock.adobe.com/
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave 60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
catalogo su
www.librisumisura.com
img1.pngTommaso Picasso
OMNIA ROMAE CUM PRETIO
(A Roma tutto ha un prezzo)
Romanzo
img2.pngINDICE
Prologo 6
Capitolo 1 12
Capitolo 2 15
Capitolo 3 20
Capitolo 4 31
Capitolo 5 36
Capitolo 6 45
Capitolo 7 51
Capitolo 8 55
Capitolo 9 59
Capitolo 10 68
Capitolo 11 75
Capitolo 12 81
Capitolo 13 85
Capitolo 14 89
Capitolo 15 97
Capitolo 16 103
Capitolo 17 109
Capitolo 18 113
Capitolo 19 121
Capitolo 20 124
Capitolo 21 135
Capitolo 22 144
Capitolo 23 147
Postfazione 155
L’AUTORE 156
CATALOGO 158
Quid te moror? Omnia Romae cum pretio.
Perché fartela lunga? A Roma tutto ha un prezzo.
(Giovenale, Satire, Libro I, III, 183-184, trad. Biagio Santorelli)
Prologo
Il treno attraversava la campagna lanciando verso il cielo un denso fumo, come un vecchio in bicicletta che saluta con la mano alzata i compaesani affacciati all’uscio delle botteghe in attesa che arrivi un cliente, o che almeno accada qualcosa di diverso dal solito nel villaggio.
Guardando fuori dal finestrino impolverato ripensavo alle tradotte militari e alle canzoni che noi soldatini intonavamo in coro. Soprattutto quella dei Ragazzi del Novantanove
, giovani nati quando il secolo stava finendo e, senza troppi discorsi, spediti in trincea: sull’Altopiano di Asiago, com’era toccato a me, o in un inferno identico. Non ancora maggiorenni per la vita, ma abbastanza adulti per morire combattendo.
A diciotto anni uno non può avere idea di che tipo di uomo diventerà, meno che mai marciando con un vecchio fucile a tracolla e scarponi duri ai piedi, atterrito dalla concreta prospettiva di finire dilaniato da un proietto d’artiglieria, sbudellato da una baionetta o soffocato dai gas.
Quando la guerra finì noi soldatini quasi non ce lo aspettavamo. Eppure non riuscivamo a pensare al futuro, perché nelle nostre teste continuavano a rimbombare i ricordi, assordanti come lo scoppio delle granate e vividi come il sangue dei commilitoni. Io avevo lasciato per sempre il fronte con la pelle intatta, una medaglia sul petto e una scheggia austriaca nella gamba, troppo rischiosa da rimuovere, che ogni tanto si premurava di ricordarmi la sua presenza facendomi zoppicare.
Meditavo su questi ricordi mentre in lontananza il sole tramontava dietro le nubi. Mi chiedevo se la carrozza di terza classe dove sedevo fosse la stessa che dieci anni addietro mi aveva per la prima volta condotto a Roma da Genova. I vagoni sono tutti uguali, scuri e scialbi. Casomai, la differenza stava nel fatto che a quel tempo ero molto diverso: un ragazzo diventato troppo presto adulto sul campo di battaglia, pronto per una nuova vita, spaventato ed eccitato al tempo stesso di andare a vivere in una grande città e col sogno di diventare giornalista.
Un amico di famiglia mi aveva rimediato un posto al Messaggero e io sognavo un lavoro avventuroso. Piuttosto, il giornale era quanto di più vicino a una bolgia infernale potessi mai immaginare. Ero stato preso in prova con la qualifica di praticante: in sostanza non ero molto più di un fattorino e mi occupavo un po’ di tutto. Tranne che di scrivere, come invece avrei voluto. Il mio compito di maggiore responsabilità consisteva nel controllare la corrispondenza e smistarla ai legittimi interessati: un ruolo che sentivo andarmi stretto, ma che mi permise di vivere la mia prima, piccola e indimenticabile avventura romana da cronista.
* * *
Una mattina, era il febbraio del 1920, trovai tra la posta un biglietto destinato al responsabile dei quartieri e andai da lui per consegnarglielo.
— Buongiorno Parisi, credo che questo sia per voi.
— Che roba è? Leggimelo.
Aprii e declamai con voce profonda: — L’Ente Autonomo per lo Sviluppo Marittimo e Industriale in Roma e l’Istituto per le Case Popolari si onorano di invitare la S.V. Ill.ma alla cerimonia inaugurale dei lavori per la costruzione del primo quartiere di case economiche nella zona industriale. La cerimonia avrà luogo alle ore dieci precise di mercoledì 18 corrente in Via della Garbatella, fuori Porta San Paolo.
Seguono firme.
La sua espressione annoiata cambiò. — Oh sì, aspettavo quest’invito. È un atto della massima rilevanza.
— Davvero è un evento così importante?
— Certo, caro il mio giovincello. Se tu fossi di Roma lo sapresti.
Così mi spiegò con enfasi che c’era molta curiosità attorno all’erigendo nucleo di abitazioni progettato con criteri moderni per fornire alloggi ai lavoratori delle circostanti fabbriche. Operai, manovali e impiegati il cui numero era destinato a crescere poiché un porto fluviale sarebbe sorto nei pressi della vicina Basilica di San Paolo fuori le mura, punto di inizio di un canale navigabile fino al mare. E concluse, con aria fiera: — Pensa che so per certo, anche se qui non è scritto, che sarà presente il Re Vittorio Emanuele III.
— Perbacco, addirittura il Re! Non l’ho mai visto da vicino.
— Ti piacerebbe esserci?
Mi sentivo come un ragazzino e annuii con foga mostrando un sorriso ebete.
— E va bene, il giorno dell’inaugurazione ti porterò con me. Mi darai una mano a trascrivere i nomi dei presenti e le dichiarazioni.
Si rimise alla macchina per scrivere e capii che era il momento di andarmene. Non stavo nella pelle per l’emozione.
Il giorno arrivò. Parisi sarebbe passato a prendermi davanti alla Porta San Paolo, dato che alloggiavo in una modestissima pensione non lontana da lì, nel quartiere chiamato Testaccio. Dovevo farmi trovare pronto per le nove, ma io mi ero svegliato molto presto per l’eccitazione.
Avevo indossato il secondo dei due abiti che possedevo, quello buono
, in attesa di potermene comprare un altro con il magro stipendio. Le scarpe, meno male, erano ancora in discrete condizioni e dopo un’accurata lucidatura apparivano smaglianti.
Giunsi sul posto dell’appuntamento con largo anticipo e, per passare il tempo, mi misi a esplorare quella zona a me sconosciuta. Ricordo che mi colpirono le mura, Porta San Paolo con i suoi due torrioni merlati cilindrici e la piramide bianca che pareva quasi fosse messa lì per caso. Mi sembrava di essere un insetto incuriosito che, dal pavimento, osserva i giocattoli lasciati per terra da un bimbo.
Di fronte alla porta si apriva uno spiazzo brulicante di carretti, barrocci, e tante persone; le ruote di un tram stridevano sulle rotaie curve. Lanciando lo sguardo più in là si intravedeva un’immensa campagna, punteggiata di animali al pascolo e vigne. Dal piazzale partiva una lunga strada che fendeva il verde dei campi come uno strappo su un tavolo da biliardo: era la via che portava al mare di Ostia.
Prima di trasferirmi non mi ero mai mosso dalla mia città natale tranne che durante il servizio militare; quando attraversavo, zaino in spalla, paesi di pianura e borghi di montagna credevo che la mia Genova fosse una metropoli. Qui e ora, invece, tutto mi appariva dilatato nello spazio e nel tempo, e solo più tardi ho capito che così era Roma: un villaggio enorme, movimentato nell’aspetto e pigro nell’anima.
La mattinata era fredda ma splendente. La grossa e ansimante vettura su cui viaggiavano Parisi e altri colleghi della stampa arrivò quasi puntuale e, dopo avermi preso a bordo, imboccò proprio la Via Ostiense. Il percorso era costeggiato da opifici, fabbricati industriali e altre costruzioni. Mi colpì la moderna centrale elettrica Montemartini, ubicata di fronte ai Mercati Generali che quel mercoledì formicolavano di persone, animali e carretti. Pian piano cominciava a farsi sempre più netta, pressoché isolata tra gli orti e i frutteti, la candida e colossale sagoma della Basilica di San Paolo.
Poco prima di raggiungerla, il veicolo svoltò a sinistra incanalandosi su per una stretta e breve gola scavata nella pietra di un colle, per poi arrestarsi in uno spiazzo sterrato ove era stato allestito un palco tutto rivestito di rosso. Il poggio su cui si sarebbe svolta la cerimonia era circondato da terreni agricoli e vigne a riposo, tanto da dubitare di trovarsi nel territorio di una moderna capitale.
C’erano già molte persone: uomini in cappotto e cappello a cilindro, signore impellicciate, militari in alta uniforme. Non mi fu facile trovare una posizione che mi permettesse di vedere bene il settore riservato alle autorità. Notai che tra il pubblico erano presenti guardie regie e carabinieri del servizio d’ordine, con la netta impressione però che ve ne fossero molti altri in borghese. La crisi del dopoguerra aveva creato povertà, disoccupazione e quindi rivolte e violenza; i timori per l’incolumità della famiglia reale e di altri personaggi di rilievo erano quasi all’ordine del giorno.
In perfetto orario, con l’arrivo di S.A.R. Vittorio Emanuele III nella sua lucente automobile di rappresentanza, la cerimonia ebbe inizio e mi tenni pronto con lapis e blocco degli appunti. Prese la parola l’ingegner Paolo Orlando, presidente dell’Ente SMIR e ideatore del futuro porto fluviale e del relativo canale. Descrisse il progetto, esaltando gli architetti capaci di ideare una vera e propria città giardino
all’inglese, un aprico quartiere
destinato agli artefici del Rinascimento economico della Capitale
, che era un modo piuttosto originale per definire operai e braccianti.
A mala pena riuscivo a vedere il Re, e mi resi conto con un certo disappunto che ormai la sua figura non mi attirava più come quando ero bambino. Per di più le scarpe lucidate con tanta cura erano adesso coperte di terra.
Annoiato dai discorsi di circostanza mi soffermai a osservare la piccola folla, cercando di annotare sul mio quadernetto i nomi dei notabili che riuscivo a individuare. A un tratto scorsi un fotografo dell’Illustrazione Italiana, che avevo conosciuto sotto le armi, e ci salutammo fraternamente. Gli raccontai come e perché mi trovavo lì, e lui si offrì di aiutarmi.
Mentre alternavamo lavoro a chiacchiere di ex commilitoni fui attratto dai movimenti di un vicino gruppo di elementi delle forze dell’ordine. In particolare mi colpì un giovanotto robusto in abiti civili, dal portamento elegante e dai modi calmi ma decisi, a suo agio nel dare ordini ai questurini. Guidato dall’immaginazione, me lo figurai come Giuseppe Petrosino in lotta contro la Mano Nera, un personaggio che amavo da ragazzo e grazie al quale fui sul punto di fare domanda per arruolarmi nelle guardie regie. Furono poi le preghiere di mia madre a farmi intraprendere un mestiere meno rischioso. E mi illusi così di poter diventare giornalista di nera
per indagare e risolvere casi oscuri e misteriosi.
Chiesi al fotografo se sapesse chi fosse quell’uomo.
— È il delegato Antonio Valeri, anzi adesso credo l’abbiano promosso vicecommissario. Un tipo molto particolare.
— In che senso?
— Si dice sia un poliziotto tanto bravo quanto abituato ad agire fuori dagli schemi. Usa metodi tutti suoi nelle indagini e applica criteri scientifici, come lo studio delle impronte delle dita, microscopi, sostanze chimiche e altre diavolerie. Alcuni lo definiscono uno stregone, anche perché a volte ottiene risultati dove altri si sono arenati. Però, mi capisci, ora vanno più di moda gli sbirri dalle maniere forti.
Poco prima delle undici, dopo la simbolica posa della prima pietra di fondazione, il Re se ne andò. Perciò, dopo aver conversato ancora qualche minuto, salutai l’amico e mi ricongiunsi con Parisi. Questi aveva stabilito di andare a pranzo assieme ai colleghi in un locale vicino, la Trattoria Volpi, frequentata da lavoratori della zona. Ci arrivammo poco dopo mezzodì: dall’alto della collinetta potevo vedere la Basilica e cercavo di immaginare come sarebbe diventata quella parte di campagna dopo la costruzione del porto e del canale.
Parisi, mentre pregustava l’imminente desinare, mi dettò l’articolo da pubblicare l’indomani. Iniziava con: Ieri mattina, fuori porta San Paolo, in Via della Garbatella, ha avuto luogo la cerimonia…
. Conservo ancora il ritaglio tra i ricordi.
* * *
Un sobbalzo del treno più violento degli altri mi ha riportato alla realtà. Fuori era ormai buio e nello scompartimento si erano accese fioche luci; lo sguardo mi è caduto sulla copertina - guarda caso - dell’Illustrazione Italiana che un viaggiatore leggeva seduto davanti a me: Il nuovo prodigio di Guglielmo Marconi
era il titolo. Pochi giorni prima l’inventore, a bordo del suo panfilo Elettra ancorato a Genova, era riuscito ad accendere le luci del Municipio di Sidney attraverso un segnale radio. C’ero anch’io mischiato alla piccola folla presente sulla banchina del porto.
Fissando il giornale, pian piano mi sono assopito. Non so dire quanto tempo dopo ho aperto gli occhi per il trambusto dei passeggeri che recuperavano bagagli e soprabiti: stavamo per arrivare a Roma. Con lentezza mi sono accodato, respirando a fondo. Ero l’ultimo della fila; davanti a me stava una coppia di una certa età. L’uomo sbuffava come la locomotiva ormai quasi ferma, finché non ce l’ha fatta più e ha sbottato: — Quasi due ore di ritardo! E meno male che i treni arrivano tutti in orario, adesso che c’è lui.
— Zitto! — ha ribattuto la moglie mettendogli una mano sulla bocca. — Sei impazzito? Vuoi farci arrestare?
Per loro fortuna lo stridore delle ruote sui binari aveva impedito agli altri viaggiatori di sentirli. E a me la cosa non interessava; da tempo avevo capito che aria tirava in Italia e come ci si dovesse comportare.
Sceso dal vagone mi sono incamminato a testa bassa. Giunto nell’atrio principale ho alzato lo sguardo per osservare l’orologio della stazione. Erano le 20:37 del 30 marzo 1930.
1
Tutte le volte che entravo nella grande e fumosa sala dove svolgevo le mie mansioni, al Messaggero, la prima cosa che facevo era avvicinarmi al calendario appeso alla parete per aggiornare la data; era uno di quelli a blocco con i foglietti staccabili e i numeri rossi. I miei colleghi se ne disinteressavano, o si approfittavano del fatto che ci pensavo io, ma per me quell’atto rituale era necessario perché sanciva l’inizio della giornata lavorativa.
Quel lunedì avevo appena fatto comparire il 31
quando ho udito dietro di me la voce di Fratini, il caposervizio spettacoli: — Oh, sei arrivato. Vieni un momento da me.
L’ho seguito con poco entusiasmo; di solito un siffatto invito corrispondeva a un nuovo noioso incarico.
— Com’è andata a Genova?, — mi ha chiesto mentre si sedeva.
— Ho fatto quel che dovevo fare: firme, saluti, ma non è stato piacevole.
— Ancora non capisco perché non sei rimasto lì. — Si ostinava a farmi un po’ da saggio zio: avevo ripreso servizio da parecchio, ma ogni tanto mi ripeteva la solita domanda provocatoria. Ho messo un pizzico di noia nella risposta: — Mi sembra di averlo già spiegato.
— Dimmelo ancora.
— Ora che la mamma se n’è andata lì non mi è rimasto nessuno, a parte una vecchia zia che mi vuole un gran bene e che vive felice da sola in una villa fuori città, circondata da uno splendido giardino fiorito. Mi avrebbe accolto a braccia aperte, ma non me la sono sentita di rinchiudermi a far nulla in un luogo rimasto fermo al secolo scorso. E così ho scelto ancora Roma.
— In realtà la mia curiosità era un’altra. Quel che vorrei tanto sapere, — ridacchiava, — è il perché dopo le tue esperienze in colonia sei venuto di nuovo a cacciarti qui nella tana del lupo, al giornale. Non ti era bastata la prima volta? Eppure sapevi con chi avresti avuto a che fare.
Fratini si sforzava di essere spiritoso, ma non poteva sapere che non avevo un altro posto nel mondo in cui, bene o male, mi sentissi quasi a casa. Ho fatto una smorfia, e lui mi ha dato una pacca sulle spalle.
— Un po’ di allegria, Giovanni, animo. Ecco qua, stasera te ne vai a teatro e pure pagato, mica tutti hanno siffatto privilegio. È in programma la prova generale dell’Enrico IV di Pirandello e tu dovrai intervistare nientemeno che il primo attore Ruggero Ruggeri. — Tutto sommato, potevo dirmi soddisfatto.
Quella sera sono uscito tardi dalla redazione, giusto in tempo per mangiare qualcosa e cambiarmi d’abito. La prova è filata liscia e la messa in scena mi è parsa interessante, per quanto non amassi molto il drammaturgo siciliano. L’incontro con il divo, invece, è stato deludente: era di cattivo umore e non aveva voglia di collaborare. Pazienza, mi sarei inventato qualcosa da scrivere.
Uscito dal primo camerino
mi sono guardato intorno per capire se potevo parlare con qualcun altro, già che c’ero, ma ho subito percepito qualcosa di strano nell’aria, quasi di elettrico; c’era uno strano silenzio e in giro non si vedeva anima viva. Ho vagato per gli stretti corridoi finché ho notato, in fondo a uno di essi, un tale che importunava una ragazza; questa sulle prime ha fatto finta di nulla, poi ha protestato cercando di andarsene, infine si è opposta con decisione alle avances. L’uomo le ha mollato uno schiaffo, ma lei invece di piangere o gridare ha reagito come una furia sbattendogli la borsetta in faccia: il bello è che nessuno accorreva per aiutarla, erano tutti spariti.
Non potevo sopportarlo, quindi mi sono messo in mezzo benché il tale fosse più grosso di me. La cosa non è piaciuta all’energumeno che ha cercato di darmi un pugno; per fortuna era anche grasso e lento, mentre io avevo combattuto corpo a corpo in prima linea e sapevo come schivare i colpi e restituirli. Per farla breve l’ho messo a terra e a quel