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E-book262 pagine3 ore

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La memoria della Terra è disseminata ovunque, nella sabbia e nella pietra. E ognuno di noi, a sua volta, è un paesaggio. Lauret Savoy ha ripercorso la storia del continente americano scoprendo che le tracce dei suoi antenati – schiavi e uomini liberi giunti dall’Africa, indigeni e coloni europei – sono andate in gran parte perdute. Mosaico di memorie di viaggio e indagini storiche, Tracce scandaglia le origini degli Stati Uniti e delle sue teorie razziali. Spaziando dalla faglia di Sant’Andrea alle piantagioni schiaviste del South Carolina, dai parchi nazionali alle riserve, fino al confine con il Messico, questa raccolta di saggi mette a nudo un feroce passato per dare voce a una Storia troppo spesso taciuta.
LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2022
ISBN9788894833805
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    Anteprima del libro

    Tracce - Lauret E. Savoy

    Indicazioni di provenienza

    Sette anni, in una mattina assolata di giugno, gravita intorno all’espositore delle cartoline di un negozio di souvenir. Durante il viaggio attraverso il Paese lei e i suoi genitori hanno visitato molti parchi nazionali – Sequoia, Kings Canyon, Zion, il North Rim del Grand Canyon – e a ogni tappa, che sia per fare benzina o sgranchirsi le gambe, la bambina si precipita a guardare l’espositore delle cartoline. In un girotondo di cigolii metallici cerca immagini di casa, una visione che dalla costa della California spazia fino ai canyon, ai deserti e alle montagne del suo Ovest. Anche questi posti devono venire a est.

    Dieci centesimi a cartolina. Porta tesori scelti alla cassa: Point Imperial all’alba; boschi di pioppi tremuli che indorano; stratificate pareti di canyon dalle tinte crepuscolari; fiume rosso mattone su roccia rosso mattone. Luce, trama, casa.

    La donna dietro il banco gira la testa, ma saluta un uomo che viene verso la cassa. Serve lui. Marlboro. Poi un altro cliente. Cartoline e domande sulle condizioni stradali e motel nei paraggi.

    La bambina attende in silenzio, la testa al livello del banco. Queste persone fingono che non sia lì. Attraverso il vetro del banco esamina lucide pietre e tovagliette di perline sotto un velo di polvere accesa dal sole. Si respira aria stantia.

    Solo dopo che tutti gli altri se ne sono andati, la donna allunga la mano. Sei cartoline, sessanta centesimi. Quando la bambina le porge tre quarti di dollaro, per prendere le monete la donna evita di toccarle la mano. La cassa si chiude, clic. La donna si volta.

    La bambina vuole chiedere ma tace mentre la donna la fissa. Ha sette anni e ancora non conosce spregio o rifiuto, e corre a rifugiarsi nella pineta dietro il negozio. La sera, con tutte le cartoline-casa sparse sul letto del motel, si domanda se ciascun posto luminoso basti.

    Pietra e sabbia sono la memoria della Terra. Vecchie cartoline sbiadite custodiscono i ricordi di una bambina nel mio scrittoio. Nella poesia «The Testing-Tree» Stanley Kunitz scrisse, «il cuore si spezza e si rispezza e spezzandosi vive». Ho cominciato in tenera età a sperare che, nonostante le ferite, un senso di compiutezza perdurasse, e che ciascuno di noi possedesse una durezza che non è asprezza, né rigidità, ma la capacità propria della pietra o della sabbia di conservare un suo nucleo a dispetto dei colpi subiti.

    Questa speranza-bambina è rimasta vuota di comprensione adulta finché qualche anno fa non ho compiuto una seconda traversata del Paese. Dopo due mesi sulla strada ho raggiunto la California del Sud, il punto di ritorno. Una porta si è aperta sulla memoria mentre attraversavo il deserto del Mojave diretta al Devil’s Punchbowl, la Conca del Diavolo.

    Ripide pareti di pietra arenaria alte centinaia di metri bordano la Conca, definita una «curiosità geologica», là dove passa la faglia di Sant’Andrea. Con pazienza e tenacia il piccolo torrente che drena la conca rocciosa raduna e riassembla meticolosamente, oggi come secoli fa, frammenti delle rupi circostanti e dei vicini monti San Gabriel. Una testimonianza tangibile del fatto che questa è una terra fatta di processi e reazioni. Da nube a torrente le forze motrici dell’acqua – forze di logoramento ed erosione – e i moti abrasivi, sussultori delle faglie confinanti, hanno modellato e continuano a modellare i rilievi e il bacino. Ciò che può essere percepito come senza tempo non è che uno dei fotogrammi che compongono un film geologico senza fine.

    Sono scesa fra macchie di piñon, manzanita e mogano di montagna per guadare il torrente d’acqua fresca. Per vedere la sabbia compattata slittare, sollevarsi, essere trascinata in superficie granello dopo granello. Domande a lungo evitate sono tornate a galla via via che la corrente mi tirava a valle col suo sedimento. L’ultima volta che ero stata al Devil’s Punchbowl, per un picnic con mio padre e mia madre, avevo cinque anni. Decenni dopo le rupi e il bacino ancora combaciavano con quelle del mio quadro mentale, mentre soddisfacevo un forte desiderio di risentire sotto le dita di mani e piedi l’arenaria scaldata dal sole e il flusso granuloso di questo corso d’acqua. È possibile però che sia tornata per andare oltre la memoria e risalire a una qualche origine, a una direzione. La bambina di cinque anni che ero allora si era immaginata che queste acque defluissero dal principio del mondo.

    Ulisse diceva: «Appartengo tanto al luogo da cui sono partito quanto al luogo in cui arrivo». Io non conoscevo né l’uno né l’altro, talmente la paura mi aveva paralizzato per anni. Ma è stato come se i bordi della Conca, quel torrente e le faglie in perpetuo movimento mi reindirizzassero a una consapevolezza che da sola non sarei stata in grado di conquistare. Quel picnic di tanti anni prima aveva acceso nella me bambina un desiderio ardente di abitare le storie che la terra custodiva – storie che, mentre crescevo in una famiglia che non parlava quasi mai dei ricordi, avevano assunto grande importanza.

    ***

    I monti San Gabriel superano i tremila metri svettando su Los Angeles e il deserto del Mojave. Tra le vette e il bacino in cui sorge la città giace il cardine di una botola geologica nascosta da sedimento alluvionale, autostrade ed espansione urbana. Questi monti crescono a un ritmo tra i più alti del continente. Crescendo, però, un granello alla volta si consumano, e il materiale residuo viene trascinato giù, spargendosi intorno alla loro base come una sottana caduta. Innalzamento ed erosione, orogenesi e decadimento: sono all’ordine del giorno da queste parti.

    La Conca del Diavolo, lì a poca distanza, è costituita da pietra arenaria e conglomerato, cioè sabbie e sassi di antichi ruscelli montani che scorrevano milioni di anni fa, ora ridotti a tavolette di roccia compatta.

    Che cosa dedurne?

    Ciascun granello, ciascun sassolino incastonato nella roccia della Conca, nasce sotto forma di detrito prodotto dal denudamento di antichi altopiani. Cascate ormai svanite un tempo trasportavano sabbia e ghiaia giù per ormai svanite montagne. Se ci mettessimo a esaminarli, a valutarne la trama e la composizione, da ciascun pezzo potremmo dedurre molto circa il loro luogo di origine e le vicissitudini climatiche che hanno attraversato nel tempo. Ma la Conca come luogo di rivolgimenti rocciosi indica anche uno slittamento e una deformazione successivi. Un terremoto dopo l’altro ne ha ammucchiato il terreno contro la catena dei San Gabriel come una moquette contro una parete.

    Origine e fonte materiale. Forze deformanti. Si possono ancora rintracciare entrambi i tipi di provenienza, benché gran parte di quanto esisteva sia stato eroso da tempo.

    E noi? Cosa di ciò che siamo deriva da sangue o cultura, costume o circostanza? Cosa, invece, dal grado di durezza di ciascuno? Cosa fa un individuo in una sequenza di generazioni?

    Queste erano le domande su cui ponderavo lungo il tragitto dalla Conca del Diavolo verso est. Le giornate più lunghe di giugno erano vicine mentre seguivo corsi d’acqua destinati al Pacifico fino alla fonte, oltre il Continental Divide. Ricostruire la storia geologica di ogni luogo sulla Terra sembrava impresa meno ardua che riesumare il passato dei miei antenati. Era più semplice imbastire una plausibile narrativa di una catena montuosa scomparsa dai resti disponibili, che sbrogliare il groviglio di generazioni che hanno prodotto una famiglia. Più semplice che rintracciare le ragioni delle scelte compiute dai miei genitori.

    Da cosa deriviamo la nostra origine? Dal sangue?

    Sono figlia di una donna dalla pelle marrone e gli occhi scuri che ha sposato un uomo dalla pelle chiara e gli occhi grigio-azzurri. Eppure da bambina in California della razza non avevo percezione. Il colore degli occhi e della pelle, il colore dei capelli e la loro consistenza, il peso e l’aspetto fisico variavano molto fra parenti. Come la terra, apparivamo in molte forme. Che alcune differenze avessero valore non mi passava neanche per l’anticamera del cervello. Avevo ideato una teoria secondo cui ero fatta di luce dorata e cielo azzurro. Il sole mi riempiva come riempiva le colline brulle della California, e nelle vene mi scorreva il cielo. Di colore poteva significare solo questo.

    Mentre guidavo verso est dalla Conca del Diavolo mi resi conto di quanto poco sapessi della mia famiglia come unità organica di sangue, esperienza o storia. Ero nata da due persone già di mezza età. Persone venute al mondo prima che il cinema parlasse, prima che i conducenti dei mezzi potessero fare a meno dei cavalli, prima che il venditore di ghiaccio dovesse trovarsi un altro modo per guadagnarsi il pane. Persone che avevano vissuto con anziani che si ricordavano com’era prima della Guerra civile, e i loro ricordi erano illuminati dalle luci delle lanterne. Per tangibili che fossero, i loro passati non mi hanno mai parlato. Papà è morto che ancora non avevo le domande. La mamma diceva di non ricordare. Non capiva perché volessi sapere.

    Da cosa deriviamo la nostra origine? Dai ricordi impressi?

    Nei suoi ultimi giorni di vita la madre di mio padre viene a trovarci in California, dorme nella mia stanza. Ho quasi cinque anni. Lenta, attenta alle parole e alle sue cose, antica ai miei occhi, ogni giorno la nonna si spazzola i capelli grigio-nocciola. Le arrivano sotto le ginocchia. Mi piace afferrarle le gambe da dietro e sentirle calde a contatto con la faccia. I suoi capelli mi ricoprono, mi nascondono. Ogni sera prego che mi crescano capelli lunghi così, e che mi vengano i suoi occhi – gli occhi di papà – per vedere anch’io attraverso il cielo.

    Seconda elementare, ricreazione, giardini della scuola, Washington D.C. Mi trovo accanto alle altalene, vuote. Un compagno di classe mi si avvicina e fa, «Sei di colore, vero?». Io annuisco anche se non è proprio una domanda. Preoccupata di cosa possa dire Bobby Kane del mio oro-sole e azzurro-cielo, mi precipito da suor Mary Richard Ann. La sera chiedo ai miei genitori.

    Casa, sera come tante di un giorno lavorativo. Mio padre è seduto sulla sua poltrona, solo nella stanza sul retro, con un bicchiere di gin o scotch in una mano, il sigaro o la sigaretta nell’altra, l’unica fonte di luce. Cosa veda o pensi, non so. Ciò che ricordo? Fumo. Silenzio.

    Quinta elementare, lezioni di educazione civica, Dunblane Catholic School.

    Uno: il libro di testo descrive l’inadeguatezza degli indiani, destinati alla scomparsa, e mostra una preferenza per gli africani, che hanno prosperato in qualità di schiavi e hanno una propensione naturale a servire. Domando alla maestra Devlin se diventerò una schiava.

    Due: in classe leggiamo che gli indiani sono selvaggi che hanno dovuto rinunciare alla terra e al loro inefficiente stile di vita per il bene della civiltà. Il libro dice che è Destino manifesto. Di nuovo confusa, domando che cosa abbia reso le «cinque nazioni civilizzate» civilizzate.

    Immaginate cosa volesse dire cercare se stessi in lezioni simili. Io sono civilizzata?, mi chiedevo. Sarò schiava? La storia che ci insegnavano non era quella che aveva portato a me, solo che non lo sapevo. La lingua con cui dare voce a chi ero, l’impatto che la terra e il tempo avevano avuto sulla mia famiglia, restavano fuori dalla mia portata.

    Quando verso la fine degli anni Sessanta ci trasferimmo a Washington, appresi in che modo la «razza» scolpisse le nostre vite. Negro! divenne un insulto urlato spesso dopo le rivolte del ’68. Parole sputate con sprezzo mi dimostravano di poter essere odiata perché «di colore». A otto anni mi venne il dubbio di dover ricambiare.

    Ciò che allora non riuscivo a concepire era che radici attorcigliate di continenti diversi non si potessero infilare in una sola scatola. Discendo da africani arrivati in catene e africani che potrebbero non aver mai conosciuto vincoli. Da coloni europei che volevano ricominciare da capo in un mondo nuovo. E da popoli nativi che quei coloni espropriarono delle terre che definivano la loro identità essenziale.

    Alla fine del Diciannovesimo secolo c’erano membri della mia famiglia, di nascita o acquisiti, che avevano abitato nelle campagne della Virginia, del Maryland, dell’Alabama, forse in Oklahoma e sulle praterie lungo il fiume Yellowstone, in Montana. Alcuni andarono ad abitare in città quali Washington e Harrisburg, in Pennsylvania. Ma l’esperienza che facevano del mondo e il ruolo che in esso si ritagliavano restano ignoti. Rimozione forzata, schiavitù e leggi Jim Crow stonavano con il privilegio derivato dalla proprietà. Gli avi dovevano trovarsi invischiati in una fitta rete di relazioni terriere: inclusione ed esclusione, possesso e locazione, investimento ed espropriazione. Certi antenati avevano un’intima conoscenza della terra come casa, altri la lavoravano in schiavitù per ciò che poteva dare. Quale senso di appartenenza a un luogo poteva mai sviluppare chi non aveva garantita nemmeno la propria vita? O era «liberato» in una terra in cui il pensiero razzializzato dettava i limiti di tale libertà?

    Mentre attraversavo il Continental Divide le domande si fecero così urgenti da diventare esse stesse la sostanza del viaggio. Lassù, tra le Montagne Rocciose del Colorado, dove nasce il fiume Arkansas, decisi di tracciare la storia della mia famiglia, e la mia, ripercorrendone i luoghi narrati e i registri. Ma da dove cominciare?

    Osservando il fiume iniziare a spingere il detrito montano giù verso le pianure, dedussi che proprio lui, un fiume, potesse essere una buona guida. Così, dal suo bacino, tracciai un percorso tortuoso verso l’Oklahoma dove, come un’anziana cugina di mia madre mi aveva detto una volta, forse viveva ancora qualcuno dei nostri antenati.

    Sand Creek. Un velo è calato da lungo tempo su questo nome, e il ricordo dell’accaduto è controverso sin dal 29 novembre 1864. Lungo il suo corso, alle prime luci dell’alba, diverse centinaia di soldati volontari guidati da John Chivington attaccarono un grande accampamento di Cheyenne e Arapaho. Black Kettle e altri capi credevano di poter contare sulla protezione dell’esercito degli Stati Uniti, perché vivevano su suolo a loro riservato. Gran parte delle truppe e dei colonizzatori del Territorio del Colorado l’avrebbe dipinta come una «vittoriosa battaglia» contro un nemico ostile. Per i sopravvissuti invece fu il massacro di circa duecento compagni, perlopiù donne, bambini e anziani. Su presunto ordine di Chivington – «Uccideteli e scalpateli tutti, grandi e piccoli; i pidocchi generano pidocchi» – i soldati mutilarono corpi, presero scalpi e altre parti del corpo come trofei. Alcune teste inviate all’Army Medical Museum finirono in seguito tra le collezioni della Smithsonian Institution.

    Fu in uno stato d’animo da «come potrei non» che m’inoltrai nelle pianure del Colorado orientale in cerca di quel sinuoso affluente del fiume Arkansas.

    La statale 96 e i binari della Missouri Pacific Railroad attraversano Big Sandy Creek, subito a est delle rovine del paese di Chivington. Non passarono auto né persone quando, fra l’erba alta e il filo spinato, seguii il corso d’acqua che s’increspava sulla pianura indugiando in anse. Pivieri e merli dalle ali rosse costituivano il mio unico accompagnamento sonoro, oltre al fremito delle foglie dei pioppi nel soffio costante del vento secco di giugno. Un secolo e mezzo prima a quello stesso vento, presso la tenda di Black Kettle, garriva una bandiera statunitense. Gli abitanti dell’accampamento ne sollevarono di bianche all’avvicinarsi delle milizie.

    Il fatto che non ci fosse alcun segnale a marcare l’avvenuta violenza non mi sorprese. La terra non era ancora stata aperta al pubblico come sito storico sotto il National Park Service. Sulla mia cartina e sugli stradari non c’era niente. Della carneficina non si faceva cenno nei miei libri di scuola, così come dell’acqua torbida che portava terra all’orizzonte o delle ombre che quel giorno cercavo di seguire.

    Sfogliando distrattamente una copia di Colorado Heritage in un’area di sosta, m’imbattei in un potenziale tesoro. Nel 1889 un tale O.E. Aultman aveva aperto uno studio fotografico a Trinidad, in Colorado. Nelle circa cinquemila immagini superstiti vi erano straordinari ritratti di afroamericani e persone di palese discendenza mista. Fondata nel punto in cui la rotta settentrionale del Santa Fe Trail incrociava il fiume Purgatoire, di certo Trinidad era un luogo in cui convergevano anche molte genti. Non potevo sapere se alcuni miei antenati fossero passati di lì o meno, ma avrei raccolto tutte le informazioni che si fossero presentate.

    Sia il direttore del Trinidad History Museum che un volontario dell’A.R. Mitchell Museum of Western Art mi trattarono con cortesia e riverenza.

    Resta poco sugli afroamericani in questa zona – certo, qui non se ne vedono più…

    Le informazioni personali sui soggetti dei ritratti di Aultman sono pressoché inesistenti, e anzi, molti riportano la dicitura Ignoto.

    Ignoto, non identificabile. Come singoli granelli di sabbia, quelle fotografie alludono a storie assenti. Nella cittadina era da poco iniziato il grande festival con cui si celebrava l’apertura del Santa Fe Trail. Le strade erano affollate. Come me non c’era nessuno.

    … certo, qui non se ne vedono più.

    Lasciai Trinidad dirigendomi a est, seguendo la corrente del fiume Arkansas.

    In Oklahoma molti fiumi diventano uno. Il Cimarron, alcuni affluenti del Canadian e il Salt Fork si diramano come vene a est, attraverso lo Stato, e si uniscono all’Arkansas prima che serpeggi tra gli altopiani di Ouachita e Ozark.

    Personalmente non ricordavo di aver mai messo piede in Oklahoma; forse mi erano rimasti in testa dei racconti di famiglia. La cugina di mia madre mi aveva detto che anni prima alcuni dei nostri potevano essere stati lì, che erano Cherokee o Creek neri. Che avesse ragione o torto, io avevo solo una manciata di cognomi: Turner, Reeves, Cade e Allen.

    Un segnale stradale m’informò che stavo

    ENTRANDO IN

    T.I.

    Un tempo gli schiavi afroamericani vivevano in «Territorio indiano». Vi erano stati condotti dalle tribù Cherokee, Chickasaw, Choctaw, Creek e Seminole, costrette a lasciare la loro terra madre a est del fiume Mississippi durante gli esodi forzati degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento. Benché solo a un’élite delle «cinque tribù civilizzate» fosse riconosciuto il diritto di considerare gli esseri umani una proprietà, alla vigilia della Guerra civile più di settemila persone di sangue africano erano vincolate dalla schiavitù in Territorio indiano. Il vincolo, però, aveva molte forme, da quella più austera riassunta nel «codice dello schiavo» adottato dalla Nazione Cherokee a quella più flessibile della società dei

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