Viagginversi. Sulle tracce dei poeti contemporanei
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Anteprima del libro
Viagginversi. Sulle tracce dei poeti contemporanei - Valeria Gentile
IL LIBRO
Viagginversi, dal latino inversus: al rovescio, al contrario, all’opposto.
Giappone, Cina, Libano, Palestina, Senegal: viaggi non abituali sulle tracce di poeti contemporanei.
Nel libro le voci e le poesie di Akira Takenami, Ho Wu Yin Ching, Husam Alsabe, Joumana Haddad e Alioune Badara Beye accompagnano l’autrice in questi straordinari giri contromano dentro lingue e culture. Da fuori a dentro, da Oriente a Occidente, viaggi in versi per descrivere comunità e territori, cibo e tradizioni.
Per Valeria Gentile la poesia è un’attrazione autentica, come autentici sono i suoi viaggi.
«Il verso, più della prosa, richiede la declamazione, e il cammino la propizia come nessun’altra cosa. Io vedo da lontano, da come un uomo cammina e guarda e respira, se è un buon narratore di storie».
dalla prefazione di Paolo Rumiz
L’AUTORE
Valeria Gentile è nata a Nuoro nel 1985.
Ha viaggiato dall’Europa all’Estremo Oriente, dalla Cina ai paesi africani.
Ha collaborato, tra gli altri, con «Colors Magazine», «Il Mucchio Selvaggio», «Il Post», «Il Reportage», «Internazionale», «Peacereporter», la Regione Sardegna, il Festival Internazionale del Giornalismo e il Festival della Letteratura di Viaggio.
Tra le sue pubblicazioni: Invece Sono Fuoco e La Sardegna dei banditi.
Scritti Traversi
VIAGGINVERSI
Sulle tracce dei poeti contemporanei
di Valeria Gentile
Viagginversi
Sulle tracce dei poeti contemporanei
di Valeria Gentile
© 2015 – Edizioni Exòrma
via Fabrizio Luscino 73 – Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
ISBN 978-88-98848-22-5
Collana Scritti Traversi
Fotografie di Valeria Gentile
In copertina illustrazione di Giorgia Marchetti
a chi nella vita ha cercato,
immaginato,
letto o scritto una poesia
Senegal, Saint-Louis.
PREFAZIONE
di Paolo Rumiz
Viaggiare, atto che presuppone la lentezza e il ritmo regolare del cammino, produce naturalmente versi, perché l’andatura diventa ritmo, il ritmo diventa metrica e la metrica verso, verso mormorato o gridato o cantato per farsi compagnia o semplicemente per irradiare vibrazioni buone nel nostro corpo. Il c’era una volta
tranquillizzante delle nostre nonne presuppone il cammino come filo conduttore e la parola cammino sta già nel primo verso della Commedia. Non è un caso. Così come non è un caso che, nelle lingue semitiche, le parole libro
e viaggio
hanno la stessa radice. Sefer, safari, eccetera. Il verso, più della prosa, richiede la declamazione, e il cammino la propizia come nessun’altra cosa. Io vedo da lontano, da come un uomo cammina e guarda e respira, se è un buon narratore di storie. Valeria Gentile, pur narrando in prosa il suo andare a Oriente, viaggia seguendo il ritmo arcano di versi altrui, e – ne sono convinto – è fatalmente destinata al verso nei suoi prossimi lavori. Lo senti dal ritmo delle frasi che spesso sono a un passo dal diventare musica.
Valeria Gentile a Taiwan.
Viagginversi, dal latino inversus: al rovescio, al contrario, all’opposto.
Viaggi non abituali e altre scoperte sulle tracce dei nuovi poeti del mondo.
Straordinari giri contromano dentro lingue e abitudini, passi capovolti e rivoltati in una direzione nuova: da fuori a dentro, da Oriente a Occidente, viaggi in versi per cantare la bellezza che salva ogni giorno l’umanità dall’autodistruzione.
La poesia è viva e lotta insieme a noi. Basta cercarla.
Meno male che ho amato la tristezza
soprattutto la tristezza che c’è nell’occhio delle pietre
del mare dell’essere umano
e ho amato la gioia improvvisa
Nazim Hikmet
INTRODUZIONE
Io sono la stella gialla del sud.
Io sono la viandante dei cieli e dei mari.
Io sono la porta tra i due mondi.
Occhi giù, occhi su. Sotto. Sopra. In basso. In alto. Piano mi accartoccio, mi slancio, mi apro e mi chiudo, mi rimpicciolisco e mi amplio fino a diventare un impercettibile vortice di luce: scendo, salgo, stringo e allargo, mi tengo, mi lascio.
Ho la Terra sotto i piedi: salda, eppure pulsante. Chiudo gli occhi: la luna e il cielo nel mio dna, il vento e la sabbia nella mia spina dorsale, l’aria e l’acqua nel mio plesso solare.
Ho le piante dei piedi sul suolo e piango di gioia. Guardo l’orizzonte con fiducia, tengo il mento sollevato e gli occhi chiusi. M’incammino.
Un passo e poi due. Antichi segni. La poesia è una terra straniera, una lingua universale.
Non solo dalle orecchie la ascolto, ma improvvisamente ogni strato e ogni tessuto, ogni muscolo e ogni nervo sanno la sua lingua e annuiscono. Sospirano in coro: mi espando mi allungo mi dilato mi propago mi diffondo. Caldo. Freddo. Caldo. Cresco.
Due passi e poi tre. Un tornante, vie interrotte, passaggi a livello sulle città. Voci e porte vecchie, inchiostro che piange sui palazzi. Un fantasma, un grido, un angolo… dov’è la poesia? Tempesta, antro, spicchio di luna.
Tre passi e poi quattro. Sorpasso, riparto. Ricordi, sottopassi e case gemelle, procedo eppure profuga m’incastro tra tetti spioventi, rido. Sono felice di avere una corrispondenza con le montagne, il mare e tutte le stelle.
Un tremito di pietre, un fiuto acuminato. Benedizioni sulla strada.
Quattro passi e poi cinque. Salgo scale, scalo salite, apro porte e strade, strade di pietra consumata, carbone, strade di piccioni e rotaie, strade chiuse, aperte, circuiti dai nomi mai sentiti prima. Gradini e maniglie, serbatoi e altre vetture, locomotori e nubi tossiche d’altri tempi. Strade gialle, strade di ghiaia, di corpi svegli e assopite idee, treni, voci mute e occhi a mandorla, bicipiti e seni e ricci capelli. Ognuno scivola e transita nella giostra della poesia.
Non ci sono posti prenotati. Ci si può sedere dove si vuole.
Apertura alare, ambizione e potenza, infinite possibilità e orizzonti. Adduzione, abduzione, rotazione, contrazione, moto coordinato, flusso dell’aria.
E conosco di nuovo ancestrali movimenti, scopro giri e giravolte che non sapevo di poter fare: imperatrice delle mie valli interiori. Sono qui. Sono completa e unica. Sono intera. Volo.
GIAPPONE
I grattacieli del passato
Tutti i versi citati nel testo in corsivo sono del poeta giapponese Akira Takenami
Sulla piazza di una foglia di loto
cade, sottile come un ago
l’ombra di una libellula
Dinosauri soppiantati
dagli umani, ora con
febbre da fieno
Al piano inferiore di Tokyo c’è una città sottopelle.
È il suo brulicante ventre fatto di budella metalliche e destini incrociati. Intestini robot sotto un’umanità distante, frattaglie hi-tech ultima generazione, dove il sole è lontano anni luce e i cuori pulsanti del sottosuolo sono rivenditori automatici di biglietti. È la Tokyo Metro, il dragone sotterraneo che non perdona. Nel circuito folle che sposta alla velocità della luce cose e persone, tutto è pensato nei minimi dettagli per automi che deambulano con tacchi o ventiquattrore senza mai voltarsi indietro.
È una corsa contro tempo e spazio, una guerra all’ultimo timbro. I titoli di viaggio nella metropoli giapponese sono il lasciapassare per una vita di insonnie e di stenti, di puntualità e condotta zen. Ogni individuo è un treno in corsa, un elegante vagone espresso attrezzato di doveri e diritti, un razzo di classe che ha una destinazione da raggiungere a qualunque costo. Mai intralciare il percorso, mai rompere il ritmo: stare anche solo per un secondo nella traiettoria di questi droni antropomorfi è come trovarsi sotto una pioggia di meteoriti.
Le viscere ad alta frequentazione di Tokyo battono tutti i record di sicurezza e comodità. Sono non-luoghi asettici, disinfettati, impassibili. Sterili e freddi come le narici di un immenso dragone mummificato. Numeri, colori e sigle hanno sostituito le vene della terra e i suoi umidi profumi; ingressi e uscite, colonne e corridoi, frecce e direzioni, cartelli e vetri sono coperti di una patina surreale di fumetti e simboli sgargianti.
C’è una Tokyo al di sotto di quella che appare, una realtà parallela, un’avvisaglia di terremoto sotto la superficie: come un segno impercettibile in un gesto di sfida, un indizio di onnipotenza e delirio, un presagio di disfatta, una premonizione di lotta tra genuino e fittizio.
La Tokyo Metro è il termometro della furia del mondo. Tredici linee, trecento chilometri, duecentoottantacinque stazioni nel centro, quattromila vagoni. Sono venuta qui a cercare la poesia, o almeno il bisogno di lei, il suo seme. Qui, camminando lungo le fondamenta della fretta, ascolto queste solitudini e, oltrepassando la linea gialla, sento sulla pelle il vento provocato dal dragone che arriva. Prendo la linea rossa Maranouchi dalla stazione Shinjuku, diretta verso est dal corpo unico della fiumana. Nessuno parla, tranne la voce metallica della cyber-signorina che elenca con eleganza le fermate in giapponese e poi in inglese, la nuova lingua della fretta.
Scendo alla prima fermata, la stazione Sanchome; gli addetti alla sicurezza soffiano con forza dentro fischietti che rompono i mille vetri del silenzio, le porte scorrevoli si aprono e si ricomincia la pazza ricerca della coincidenza con la linea successiva. Una donna in minigonna corre sui binari della propria assenza, picchiettando le mattonelle col furore dei suoi tacchi, fino a sgattaiolare dentro un vagone per sole donne. Le gambe delle giapponesi sono fini e bianche come steli di riso e madreperla. Un uomo la guarda, poi lancia uno sguardo furioso all’orologio che porta al polso, sbuffa. Sul bordo del terminal per la linea marrone Fukutoshin c’è un ragazzo, già in fila, solo.
Proseguo per il capolinea Wakoshi ma scendo una fermata prima. Arrivo alla stazione Chikatetsu-Narimasu che è già notte, i lampioni fanno ombra alle paure di chi non esce di casa. Dietro