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Siberia
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E-book294 pagine4 ore

Siberia

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Info su questo ebook

“La bellezza ci può trafiggere come un dolore”, disse Thomas Mann, e Luciana Vagge Saccorotti ne è convinta, tenendo tra le mani oggetti meravigliosi creati con zanne di tricheco dalle popolazioni che ci presenta in questo libro e che vivono negli sterminati spazi siberiani. Leggendo, ci soffermiamo curiosi sulle acque nordiche dove nuota, ridendosene bellamente del gelo, il beluga dalla bianca livrea e dal grosso “melone” adiposo sulla fronte. O sul bianco tappeto della tundra dove pernici candide, come la buona porcellana, con gli occhietti scuri ci guardano curiose.
L'autrice ci parla della storia attuale e delle antiche leggende di quei popoli aiutata da un mitico personaggio che scende dal cielo sulla terra, entra nella tenda coperta di neve, si acquatta, guarda, ascolta, e poi riferisce, a chi sa ascoltare la voce della tradizione, che essa non serve a conservare le ceneri ma a mantenere viva la fiamma.
LinguaItaliano
Data di uscita17 lug 2018
ISBN9788899932244
Siberia

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    Anteprima del libro

    Siberia - Luciana Vagge Saccorotti

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2018 Oltre edizioni

    www.oltre.it – info@oltre.it

    ISBN 9788899932244

    Titolo originale dell'opera

    Siberia

    di Luciana Vagge Saccorotti

    Collana * il Dragomanno diretta da Raoul Tiraboschi

    OLTRE EDIZIONI

    Sommario

    Autore

    Introduzione:

    In ricordo di un amico

    L’arcipelago addormentato

    Dalla Penisola di Kola alla Čukotka

    Custodisci, Num, il nostro focolare

    La storia recente

    Il tadebja tra i Nency di Jamal

    Il folclore tra gli allevatori di renne di Jamal

    Le leggi del Sole e quelle dello Stato

    Lo sguardo e la voce dei bambini

    L’antica arte della Čukotka

    Beringia

    La Čukotka

    Gli artisti intagliatori

    Le antiche abitazioni

    Conclusione

    Bogoraz ed Eunnekaj dalle gambe storte

    Gli Inuit

    Prima parte

    Seconda parte

    Una terra incantata e i suoi sciamani

    Il culto e le feste dell’orso

    Appendici

    1) Censimenti dei popoli artici e subartici dalla

    Penisola di Kola alla Čukotka

    2) Lingue

    3) Caratteristiche fisiche delle popolazioni

    Nota sulla pronuncia dei termini russi traslitterati.

    Bibliografia

    Luciana Vagge Saccorotti

    Luciana Vagge Saccorotti è studiosa dei popoli aborigeni artici e subartici, ricercatrice e consulente scientifica del progetto Carta dei Popoli Artici, inserito nel programma dell’International Polar Year 2007-2009.

    È ideatrice e coordinatrice del progetto Un Nenec per amico per uno scambio di disegni tra alunni delle scuole dell’obbligo italiane e scuole del Distretto Autonomo dei Nency di Jamal, Siberia occidentale, Federazione Russa. Nel maggio 2011, anno della cultura italiana in Russia, ha collaborato con il Museion, la sezione Giovani del prestigioso Museo statale di Arti Figurative Puškin di Mosca, per organizzare una mostra di quei disegni. Ha accolto in Italia i bambini siberiani che hanno collaborato al progetto.

    Ha partecipato a una spedizione scientifica tra gli allevatori di renne della Penisola di Jamal. Ha condotto ricerche sul campo: nell’Arcipelago delle Solovki/Mar Bianco; tra gli antichi sciamani di Tuva/Siberia meridionale; tra gli Inuit della Groenlandia.

    È collaboratrice delle riviste Slavia (Roma) e Il Polo (Fermo) con relazioni di viaggio, articoli e traduzioni dal russo. Ha tradotto dal russo e curato Leggende della Lapponia e Miti e leggende degli sciamani siberiani per la Casa Editrice Arcana, e Miti e leggende dei popoli siberiani per la Casa Editrice Xenia. È autrice del libro Popoli artici e subartici. Dalla Penisola di Kola alla Čukotka, Edizioni Arctos. Tra le altre sue opere: Il Maestro svelato - Bulgakov riemerge dalla Lubjanka e La gemelle ritrovata, entrabi per i tipi di Gammarò edizioni.

    Introduzione

    In ricordo di un amico

    … e nella dolcezza dell’amicizia ci siano risate...

    (Khalil Gibran)

    Il bimbo nello scompartimento accanto al mio continua a piangere. Mestamente. È una struggente linea melodica alla quale fa da discanto la voce della mamma che cerca di calmarlo con dolci ninnananne: baju, bajuški, bajù, spi moja krošečka. fai la ninna, fai la nanna, dormi piccolino mio. Ma il lamento continua. Che cosa può far disperare così quel tenerissimo essere? Sarà il mal di pancino, o un dente che spinge e tormenta la delicata gengiva, cercando di aprirsi un varco per venire anche lui al mondo; o forse la noia, la terribile noia di dover stare chiuso in quell’angusto scomparto e non poter vedere le interminabili distese che da San Pietroburgo a Petrozavodsk si spalancano trafitte dalle dieci carrozze del treno, lungo serpente che ospita nel suo ventre anime inquiete, anime stanche, anime piangenti, anime allegre perché il ritorno a casa si avvicina.

    Non potendo dormire, me ne sto in piedi nel corridoio e mi domando che genere di anima è mai la mia, che aspetto ha, che carattere, quali abiti indossa per potersi qualche volta camuffare. Mi aspetto forse di trovare una personale stele di Rosetta e che riesca a decifrarla sulle isole di quel mare così lontano, così freddo rispetto alle calde acque del mio Mediterraneo?

    Sono, infatti, diretta a Kem’, scialba e malinconica cittadina sulla costa occidentale del Mar Bianco, dove mi imbarcherò per l’arcipelago delle Solovki. Ma la prima tappa sarà Petrozavodsk. Non posso non andare a trovare, in quella città placidamente distesa sulle rive del lago Onega, la moglie e i figli di un mio carissimo amico e maestro di vita che ormai ci ha lasciati, un grande esperto di cultura saam (lappone), il Prof. Georgij Martynovič Kert.

    I Saami sono un popolo che chiamavamo e ancora a volte chiamiamo lappone: lopari, lappe, lappes, lapu, cioè esiliato, ultimo confine; o löpa – correre – che suggerisce l’abilità eccezionale sempre dimostrata dai Saami nell’uso del loro mezzo di locomozione sulle vaste distese gelate: due assicelle molto simili ai nostri sci ma più larghe e notevolmente più corte; o anche stregone. I finlandesi, per esempio, dicevano un vero lappone per intendere un autentico stregone.

    Un anziano Saam che un giorno ho incontrato in Norvegia era proprio stufo: Dovete smetterla di chiamarci Lapponi. Non è nostro quel nome. Ce lo hanno affibbiato altre popolazioni, ma noi siamo Saami, Saami, capisci?

    Intanto il treno corre, stupido e indifferente al dolore della natura che violenta e ai lamenti di quel bimbo che muore dalla voglia di vedere la lunga processione di betulle, e i villaggi con le mille volute di fumo che escono dai camini delle isbe, tante, una accanto all’altra a tenersi compagnia, orgogliose delle loro piccole finestre incorniciate in bianchi merletti di legno. Sono le dieci di sera, il cielo è largo, largo, ancora molto luminoso, con piccole nuvole grigie e rosa all’orizzonte. Sono sicura che quel panorama, ricco di colori e di silenzio, calmerebbe il pianto del piccolo. Miracoli della bellezza!

    Ci fermiamo. Breve sosta in una piccola stazione. È notte ormai, ma sul marciapiede accorrono donne avvolte in pesanti scialli variopinti. Offrono ai passeggeri mele, tè, uova sode ancora calde, pesce affumicato e pirožki: sorta di ravioli ripieni di funghi, o di patate, carne, riso.

    Non è la prima volta, quindi, che vado a a Petrozavodsk, e neanche la prima volta che vado alle isole Solovki, incredibile paradiso terrestre, meraviglia della natura e dell’ingegno dell’uomo, dove sono stati commessi atroci delitti. Lo spettacolo del grande monastero che appare appena vedi terra a qualche miglia dall’isola Grande ti fa sentire piccola, piccola mentre cerchi invano nel tuo misero vocabolario parole che ti aiutino a esprimere, a descrivere l’emozione che ti impedisce di respirare. Potenza della bellezza!

    La prima volta è stata nel 2003. Stavo lavorando sul folclore dei Saami: fiabe e leggende raccolte da V.V. Čarnoluskij, scrittore russo che si è occupato molto della cultura e del folclore di quel popolo. Avevo incontrato qualche difficoltà nell’affrontare frasi e termini che non si trovavano nei vocabolari a mia disposizione. Si trattava certamente di espressioni e parole di quel popolo che non avevano equivalenti in russo. Mi ero rivolta allora a una mia cara amica, nota musicologa ormai mancata da anni. Rima mi disse che avrei potuto trovare tutte le risposte alle mie domande andando a Petrozavodsk dal Prof. Kert, dottore in scienze filologiche, grande conoscitore della lingua dei Saami, scrittore di numerosi saggi sulle lingue ugrofinniche, conosciuto e citato in tutto il mondo.

    Confesso di essermi spaventata. Avevo sempre amato la lingua e la letteratura russe, ma non avevo potuto in gioventù coltivare appieno la mia passione, per motivi che riguardavano banalissime questioni di affitti, gas e luce. Solo verso i cinquant’anni, avevo iniziato a dedicarmi assiduamente allo studio e alla frequentazione dei popoli artici e alla traduzione di miti e leggende degli sciamani siberiani, che mi affascinavano in modo particolare.

    Non appartenevo al mondo accademico anche se qualche volta venivo chiamata in alcune università per tenere seminari sulla cultura e il destino di quei popoli. Portavo sulle spalle un bel borsone d’anni, ma ero alle prime armi, come una giovane, timida studentessa, e l’idea di incontrare un insigne studioso come il Prof. Kert mi rendeva ansiosa. Sarò in grado di sostenere in russo una conversazione con lui?, mi domandavo. Troverà insignificanti i problemi che gli avrei sottoposto? Insomma, mi aspettavo di trovarmi di fronte a un anziano professore che, dall’alto della sua candida barba, mi avrebbe guardato con supponenza e saccenteria, mettendomi in grande imbarazzo. Ma so anche che quella zona insidiosa della paura, che occupa gran parte del nostro cervello, si supera vivendo la vita, correndo come in una corsa a ostacoli senza scoraggiarsi se si cade a causa di un inciampo. Alzarsi. Andare oltre. Sempre. E così sono partita.

    Il numero 39 di via Dzeržinskij si intravede tra gli alberi del minuscolo giardino. Da un piccolo poggiolo al secondo piano della casa, un uomo senza barba bianca mi vede e, intuendo che sono io l’italiana che sta aspettando, mi saluta con la mano e mi fa cenno di salire. Il cuore batte forte. Salgo le scale insieme a una gatta color pannocchia di mais maturo, che scodinzola come la deliziosa cutrettola. La porta dell’appartamento n.9 è aperta. Penso con un po’ di apprensione all’appartamento n.50 del Maestro e Margherita, dove visse Voland, il diavolo. Entro. Farfuglio qualcosa in un russo orribile. Lo sento. È senza dubbio peggiore di quello che normalmente parlo.

    L’uomo senza barba bianca mi abbraccia, chiude la porta alle mie spalle, dopo aver fatto entrare anche la gatta, e mi presenta una piccola signora: occhi azzurri, splendenti in un viso dolcissimo e delicato. Mi abbraccia anche lei. Mi sento a casa. Parliamo dei Saami, di Čarnoluskij, e ci dimentichiamo dei problemi linguistici. Li lasciamo per l’ultima ora del mio soggiorno di una settimana in quel piccolo appartamento così accogliente, con giornali e libri che sbirciano imbronciati da ogni angolo di impensabili ambienti, invidiosi degli altri disposti ordinatamente su scaffali, loro sede naturale.

    Non sono certamente io la persona più adatta a parlare dei meriti scientifici del Prof. Kert. Ci hanno pensato e ci penseranno altri a farlo meglio di me. Io posso soltanto dire che, nonostante la nostra troppo breve frequentazione, l’ho amato come si ama un vero amico. Ho amato sua moglie, i suoi figli, la sua casa, la sua gatta, la sua cantina dove un giorno, dovendo preparare un semplice primo piatto all’italiana, ho scoperto un oggetto per noi indispensabile in cucina: la mezzaluna, una sorta di coltello a lama ricurva e doppia impugnatura a pomolo, per triturare e sminuzzare alimenti, soprattutto verdure, usata in coppia con il tagliere. In famiglia non l’avevano mai adoperata e non sapevano che uso farne. Ma lei è un autentico esploratore, mi disse ironico il professore, bisogna festeggiare la scoperta!.

    In un regno lontano, dove tutto era meraviglioso e tranquillo, dove non c’erano né guerre, né cataclismi, né tempeste, apparve un giorno un enorme cinghiale selvatico, o forse un bufalo o un toro, o un caprone.

    Così recita una canzone di Vysockij, grande bardo/attore, amato e venerato in Russia, e queste sono le parole che posso ancora riascoltare dalla viva voce di Georgij Martynovič da me registrata. Fanno parte di un piccolo suo concerto domestico con chitarra per festeggiare il mio compleanno prima della mia partenza per le Solovki. Parole e voce che mi hanno accompagnato per tutto il soggiorno sull’arcipelago, come una specie di cupo ritornello che sembrava voler riecheggiare la triste storia di quelle fantastiche isole, dove un giorno è apparso un infernale mostro/lager: si chiamava SLON, ma non aveva nulla a che fare con il mite elefante che quell’acronimo potrebbe in russo significare.

    Caro, carissimo Prof. Kert! Sei partito per il pianeta dei geni sorridenti ormai da qualche anno. Il mio affetto e la mia grande riconoscenza nei tuoi confronti mi danno ora l’ardire di rivolgermi a te con il TU. Sei stato per me un Maestro. Non ti dimenticherò mai. Non dimenticherò mai la tua gentilezza, il tuo impagabile senso dell’umorismo, la tua chitarra, la tua enorme, chiara cultura portata addosso con la semplicità che contraddistingue solo chi possiede grande saggezza e nobiltà d’animo.

    Ho voluto iniziare questo lungo racconto, che riguarda la parte della mia vita trascorsa a calpestare terre sconosciute, con il ricordo di un amico, un Maestro che se ne è andato così come aveva vissuto, tranquillamente, senza troppo rumore, quasi con il sorriso ironico che aveva accompagnato la sua esistenza trascorsa tra i libri, la musica, gli studi filologici e la curiosità verso il fascinoso mistero della nascita dei toponimi nordici. Curiosità che caratterizzava ogni aspirazione del suo spirito acuto, dolce, amorevole e nello stesso tempo inquieto per il poco tempo che credeva gli restasse per poter continuare a cercare di capire.

    Quando l’ho conosciuto non ero certo una bimba, ma la sua, nei miei confronti, è stata veramente una lezione di vita. La sua notorietà non gli faceva desiderare lo scanno severo e solenne, così ambito da alcuni accademici, pur essendo egli un membro dell’Accademia delle Scienze Russa! Le sue battute di spirito, così leggere ed eleganti, erano esilaranti e deliziavano persino i negozianti del quartiere dove abitava, che lo conoscevano bene ed erano orgogliosi di essere da lui considerati amici.

    L’ultimo giorno della mia permanenza in casa sua, durante quel primo nostro incontro, ci dedicammo finalmente alle frasi di origine saam che non riuscivo a tradurre. Neanche lui ci riuscì: avevamo trascorso troppo tempo a chiacchierare di altri argomenti e il tempo che ci restava era ormai insufficiente per fare ricerche. Promise allora di chiamarmi. Mi accompagnò alla stazione e, dopo aver raccomandato ai ragazzi che viaggiavano nel mio stesso scompartimento di comportarsi bene, mi disse sorridendo: erano veramente dei problemi!

    Ci abbracciammo e partii per l’arcipelago addormentato.

    L’arcipelago addormentato

    … qui ci sono persone interessanti, ma forse è meglio dire che erano interessanti. Infatti tutti sono così grigi e spenti. Probabilmente lo stesso accade anche a me.

    (Florenskij, 2000)

    Agosto 2003. Le figlie del Sole hanno trascinato il carro del vecchio padre dietro il lontano orizzonte. La notte è scesa silenziosa sulla terra. I tre ragazzi dello scompartimento mantengono la promessa fatta a Georgij Martynovič e si comportano bene. Sono curiosi, fanno molte domande: perché parlo russo?, cosa faccio così lontano dall’Italia?, perché le Solovki? Ed escono educatamente quando mi devo sistemare per coricarmi.

    Nello scompartimento attiguo al mio non c’è nessun bambino che piange, ma io non riesco a dormire, pur nel rollio ninnante del treno. E cerco di rispondere a me stessa a quelle domande. Ai ragazzi non avrei potuto dire che c’era stato qualcuno che avrebbe voluto fare insieme a me quello stesso viaggio. C’era stato qualcuno che avevo amato e con il quale avevo tanto parlato della storia di quelle fantastiche isole e del significato di quell’orribile acronimo, SLON: Soloveckij Lager Osobogo Naznačenija, cioè Lager a destinazione speciale delle Solovki.

    Arrivo al porto di Kem’ a notte inoltrata, una notte qualunque di quel mese di agosto. Il Mar Bianco mi stava spettando con le sue gelide braccia spalancate. Kem’ è anche fiume: ha rapito le acque di Čirka nelle verdi alture della Karelia e si è smarrito insieme a loro nel freddo abbraccio del mare.

    Kem’ e i magici misteri dei toponimi e degli idronimi che tanto amava il Prof. Kert. Con lo stesso significato di fiume pronunciano quell’unica sillaba anche i Cinesi, i Mongoli e i loro vicini Chakasy. In Siberia è finito il suo gemello; sugli Altaj dicono Ak-Kem, bianca acqua. Radice di provenienza indoeuropea, sentenziano gli studiosi. L’indoeuropeo non è esistito, ma sulle tracce di quello da loro ricostruito spuntano termini con quella radice in tutta Europa.

    Salgo sul traghetto. Dopo qualche ora, pigiata con altri sotto coperta, sento gridare è l’alba, è l’alba. Era apparsa Aurora dalle rosee dita e quello era il richiamo stabilito. Qualcuno a turno era stato sul ponte per non lasciarsi sfuggire il magico istante. Il mare e il cielo non hanno principio, non hanno fine; l’orizzonte, che si è intrufolato nelle loro tavolozze mescolandone i colori, ha completamente mimetizzato la sua linea: si vuole divertire, giocare a rimpiattino. Ma la sfera infuocata sta sconvolgendo i suoi piani: eccola togliersi lentamente il liquido abito; eccola combattere contro nuvole minacciose che, spinte da un vento carico di invidia, tentano di coprire la sua regale nudità; eccola finalmente ridisegnare la linea dell’orizzonte con la cera rossa di Spagna, che si scioglie nell’acqua e arriva in linee arroventate fino a me.

    Voglio un poeta che descriva l’emozione che stringe la gola. Il divino mi invade, cerco di ignorarlo, ma è ormai dentro di me e resterà nei miei occhi ovunque andrò.

    Terra! Terra! La vediamo un’ora dopo. Il battello si avvicina all’isola più grande dell’arcipelago. Una visione fiabesca riempie i miei occhi bagnati un’ora prima dal dio Natura: un monumento prodigioso creato dall’uomo, uno dei luoghi più sacri, ma anche più profanati della terra russa, un grandioso monastero, cinto da mura fortificate in enormi blocchi di pietra, all’interno delle quali si levano cupole verdi su chiese e cattedrali dalle pareti bianchissime. Le mura sono accarezzate dolcemente dalle limpide acque di un piccolo lago, il lago Santo, circondato da boschi di pini e betulle.

    Ai miei nipotini descriverò il viaggio e quelle fantastiche isole muovendo il dito del più piccolo sulla carta geografica:

    Giunti a Mosca, camminate, camminate in direzione nord, finché arrivate a San Pietroburgo. Poi, attraversate a nuoto il lago Ladoga, poi l’Onega, e camminate ancora più su. Vi tuffate nel primo mare che incontrate. Quello è il Mar Bianco. Nuotate un po’ e toccate finalmente terra sulle isole Solovki, a 160 chilometri a sud del Circolo Polare Artico. E trovate me. Seduta sulla spiaggia, vi sto aspettando. Il Sole intuisce la mia ansia e mi tiene compagnia: decide anche lui di aspettarvi. E mentre aspetta, per non annoiarsi, ricama sull’acqua merletti rosa, rossi, blu, gioca con i gabbiani artici e con gli antichi sciamani che mille, mille e ancora più di mille anni fa hanno costruito proprio lì, accanto a me, misteriosi labirinti in pietra. Sembra per confondere le anime dei defunti che volevano ritornare tra i vivi.

    La scoperta e la denominazione di queste isole, così come i loro labirinti¹ in pietra, costituiscono tuttora un mistero. Le leggende parlano di cacciatori di mammiferi marini che, trascinati al largo su banchi di ghiaccio, si sentivano perduti e pregavano i loro dèi. Finalmente videro terra, la terra delle isole che prima non c’era, ma che spuntò dal mare per salvarli, e la chiamarono solovej, usignolo, come il piccolo uccello. Ma in quelle terre l’usignolo non c’è...

    Altri pensano che furono chiamate così per via delle molte saline che vi si trovano. In russo sale si dice sol’. Oppure, secondo il racconto fattomi da un abitante dell’isola Grande Soloveckij, sembra che le isole una volta si chiamassero solncem ovejannye ostrova, isole sfiorate dal soffio del Sole. Secondo il prof. Kert, il nome delle isole proviene dal saam suelo, isola.

    Quanto alla genesi e al significato dei labirinti esiste veramente un ginepraio di ipotesi, spesso legate alle credenze e alle tradizioni popolari.

    Un’idea piuttosto chimerica fa risalire la loro creazione al favoloso popolo degli Iperborei, che abitavano l’estremo Nord della Terra.

    Molte leggende celtiche narrano di labirinti come luoghi di danza delle fate, dove si svolgevano riti per favorire la fertilità delle donne. Anche tra i popoli scandinavi, dove esistono circa 80 labirinti, le leggende parlano spesso di rituali legati alla fertilità. Non è certo un caso che una pietra dalla forma fallica sia posta al centro della maggior parte di tali costruzioni.

    Mentre da un lato una delle ipotesi più accreditate tende a considerare i labirinti delle Solovki dei luoghi di culto dei primitivi Saami, dall’altro è interessante notare che nelle antiche leggende di quel popolo essi siano considerati opere di una sorta di comunità di giganti.

    Piuttosto convincente sembra l’ipotesi dell’appartenenza dei labirinti alla civiltà dei primi navigatori. La maggioranza di queste costruzioni si trova su lingue di terra che si stendono sul mare, o su isole o foci di fiumi. I capi, le isole, le foci dei fiumi racchiudono in sé le necessarie condizioni per la costruzione di santuari. I fiumi, poi, hanno anche un significato utilitario: sono luoghi ideali per rifornirsi di acqua dolce, trascorrervi la notte, o per lunghi stanziamenti.

    I labirinti spesso sono collocati vicino a luoghi di sepoltura. Da qui, l’idea popolare che fossero luoghi dove erravano i defunti tentando, ma non riuscendovi, di ritornare nel mondo dei vivi. Ma questa ipotesi sembra non reggere in quanto ogni labirinto ha una propria uscita che è sempre sul punto dove si trova l’entrata. E da qui prende spunto l’idea della reincarnazione diffusa tra le società antiche.

    Alle Solovki si contano 34 labirinti, tra cui il più grande al mondo. Quando nel Medioevo i primi monaci cristiani giunsero sulle isole, costruirono eremi, innalzarono alte croci in legno e chiese, ma i labirinti e i kurgany² non furono distrutti, così come, fortunatamente, non lo furono dai nuovi funesti colonizzatori del XX secolo.

    Ed eccoci sbarcati sull’isola più grande dell’arcipelago, l’isola Grande Soloveckij. L’arcipelago è situato nel golfo Onega, nella parte occidentale del Mar Bianco, e include sei grosse

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