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Il Dirigente
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E-book240 pagine3 ore

Il Dirigente

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Il Dirigente

Nel libro illustro la mia storia lavorativa che si svolge interamente in un Ente Pubblico.

Attraverso fatti, aneddoti anche divertenti, persone e riferimenti reali descrivo un pezzo di Pubblica Amministrazione che, attraversando una lunga stagione di grandi cambiamenti, offre, ad un giovane funzionario motivato e volitivo occasioni per vivere esperienze molto significative.

In sostanza ho scelto di scrivere una storia che potrebbe costituire anche un irrituale e, credo, piacevole manuale che non espone regole e teorie ma fatti e situazioni da cui si possono trarre agevolmente modelli di comportamento.

L'ambizione è quella di dimostrare che anche nella Pubblica Amministrazione esistono le condizioni per una gestione manageriale che concili l'efficienza con la funzione sociale. Non è vero che i Dirigenti non hanno i poteri per svolgere efficacemente i propri compiti; non è vero che la politica condiziona tutto; non è vero che non si possa premiare il merito, ecc. Certo bisogna assumere qualche rischio, ma acquisita questa mentalità è possibile realizzare con pienezza obiettivi sfidanti ed innovativi.

Il successo e le strade seguite per ottenerlo potrebbero essere motivo di ispirazione per giovani che operano sia nel mondo del lavoro privato che in quello pubblico.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2020
ISBN9788831696739
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    Anteprima del libro

    Il Dirigente - Alessandro Crisci

    ispirazione.

    I primi passi: l'approccio al lavoro

    Sono passati più di 43 anni.

    Era un'uggiosa alba di fine ottobre del 1976 quando, dopo un viaggio notturno in un treno espresso, sbarcai alla stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia. Mi ero lavato nel bagno del vagone e aspettavo che si facessero le 8.00 per presentarmi alla Direzione Regionale dell' INAIL del Veneto che aveva, e sono ancora lì, i suoi uffici proprio di fronte alla stazione, dall'altro lato del Canal Grande.

    Non avevo voluto perdere tempo.

    Avevo vinto il concorso durante il periodo del servizio militare e mi ero congedato tredici giorni prima. Dovevo presentarmi entro 30 giorni dalla fine della leva, ma ero troppo impaziente per attendere quello che consideravo l'inizio della mia vita da adulto. Avevo 25 anni, avevo già aspettato troppo.

    L'università, facoltà di Giurisprudenza alla Federico II di Napoli, era andata benissimo. La successiva borsa di studio del Ministero per l'Interno, ottenuta per frequentare il corso per segretari comunali, mi permise non solo di approfondire tutte le materie che avevo studiato all'Università, ma soprattutto di passare otto mesi a Roma così da chiarirmi le idee su cosa avrei voluto fare nella vita.

    Avevo deciso.

    Non avrei fatto l'avvocato; non avrei tentato di fare il magistrato; non mi sentivo uno studioso del diritto. Mi piaceva gestire, affrontare problemi, dirigere. Non sapevo dove, non sapevo in quale ambito, ma una cosa mi era chiara: volevo guidare, organizzare, coinvolgere.

    Per farlo intravedevo una sola strada: determinazione e competenza.

    In sostanza dovevo continuare a studiare, ma a modo mio.

    Era un metodo, sicuramente non originale, basato sul capire, o cercare di capire, quale fosse il nocciolo della questione.

    All'Università, quando preparavo un esame, leggevo tutto di un fiato il libro, sottolineando le parti più importanti, mettendo punti esclamativi, frecce, annotando parole chiave. A quel punto sapevo cosa fosse importante e cosa inutile.

    Lo studio vero e proprio, fatto di lettura ed esposizione a voce alta, di rilettura e riesposizione, di domande e di risposte, cominciava solo allora. Il 30% del programma era fuffa e non meritava che gli dedicassi altro tempo, ma l'altro 70% non dovevo solo studiarlo: il diritto andava capito; dovevo coglierne l'essenza, l'impatto sulla realtà. Solo così sarei stato in grado di esporlo, di spiegarlo, di applicarlo e di non dimenticarmene mai. I miei esami si trasformavano quasi sempre in decine di botte e risposte, discussioni rapide con gli esaminatori. I bei voti confermavano la bontà del metodo. Mi laureai brillantemente in tre anni e una sessione nel luglio del 1974.

    Avrei continuato a prepararmi in quel modo anche per affrontare i concorsi. A quel tempo non erano diffusi, o non erano alla mia portata, master di specializzazione che mi aprissero le porte del mondo aziendale. L'unico orizzonte che intravedevo era quello pubblico.

    Il primo incontro con la Pubblica Amministrazione, che sarebbe diventata in futuro la mia casa, fu però molto complicato.

    Ero uscito dal corso per segretari comunali quasi con il massimo dei voti.

    Non era stato semplice perché si teneva presso l'Università Pro Deo (oggi LUISS) e i professori erano competenti e rigorosi. Direttore del corso nonché docente di Diritto privato era il prof. Vittorio Bachelet, figura alta e di grande prestigio, poi trucidato dalle Brigate rosse nel 1980.

    Dopo il tirocinio pratico fatto presso il comune di Itri, in Ciociaria, acquisii l'abilitazione a svolgere le funzioni di Segretario comunale fuori ruolo. Come i miei compagni di corso feci domanda alle Prefetture vicino casa (per me Avellino e Benevento).

    Dopo un mese quasi tutti avevano ricevuto l'incarico. Mancavamo solo un collega di Avellino e io.

    Cosa avevo in comune con Nicola? Lui era stato il primo del corso e io il secondo. Sei mesi dopo avrei conosciuto i dettagli. In quel momento sapevamo solo che nessuno dei due era democristiano.

    Oggi si fa fatica a crederlo.

    Bisogna pensare cos'era l'Italia e, in particolare, la Campania negli anni '70. Dalle mie parti imperava il sistema creato dai notabili democristiani. La Democrazia Cristiana aveva più del 50% dei voti e controllava tutto, soprattutto nella Pubblica Amministrazione. Figuriamoci se in un posto chiave di un Comune, dove la collaborazione con il Sindaco era essenziale, si poteva inserire una persona non organica al sistema e quindi di non provata fedeltà.

    E pensare che a quel tempo stravedevo per l'economista Ugo La Malfa e quindi votavo per il Partito Repubblicano. Ero un moderato, non un pericoloso estremista.

    Da giovanotto inesperto cercai di avere spiegazioni in Prefettura ad Avellino chiedendo un appuntamento. Nessuno mi volle ricevere.

    Allora tentai presso la Prefettura di Benevento.

    Qui ebbi maggior fortuna.

    Riuscii a parlare con il viceprefetto; era un piemontese.

    La cosa mi meravigliò molto: cosa ci faceva a Benevento? Confesso che lo immaginai vittima di un trasferimento punitivo.

    Il funzionario fu molto cortese e riconobbe che dalla mia domanda emergevano titoli che avrebbero dovuto indurli ad assumermi di corsa. Altrettanto chiaramente, però, mi tolse ogni speranza di ricevere la nomina. D'altra parte non potevo accampare alcun diritto, perché rientrava nei poteri discrezionali del Prefetto conferire l'incarico di segretario fuori ruolo. Non ero un vincitore di concorso.

    Per dimostrare la sua umana comprensione promise che mi avrebbe segnalato ad alcune Prefetture del Nord Italia.

    Dopo neppure venti giorni mi arrivarono lettere di convocazione per il conferimento di incarico da Vercelli, Novara e Bergamo.

    Non mi presentai. Non volevo andare a chiudermi in un paesino di montagna che non avevo scelto. Avrei cercato di vincere il concorso che a breve sarebbe stato bandito e sarei entrato dalla porta principale.

    Fu così che mi recai al Distretto militare, rinunciai al rimanente periodo di rinvio cui avevo diritto per motivi di studio, e a settembre del 1975 cominciai la naia a Barletta. Dopo due mesi fui trasferito a Bari.

    Fu un periodo non bellissimo ma non del tutto inutile.

    Intanto mi consentì di appurare finalmente il motivo, chiamiamolo tecnico, che mi aveva impedito di ricevere dai Prefetti di Avellino e Benevento l'incarico di segretario comunale.

    Siccome ero laureato fui inserito negli uffici del plotone comando del battaglione. Un commilitone di servizio all'Ufficio Affari Riservati sbirciò nel mio fascicolo personale. Insomma scoprii che ero identificato con la sigla 3P. La legenda ne spiegava il significato: vicino agli ambienti di sinistra. Ero etichettato proprio come un pericoloso estremista.

    E' vero che ero simpatizzante del Partito repubblicano di La Malfa, ma (dedussi) frequentavo mia sorella che era del Manifesto, un gruppo considerato di estrema sinistra.

    Non sapevo se ridere o piangere. La rabbia dentro di me era tanta. Non immaginavo che quella sarebbe stata la mia fortuna.

    Ero stato costretto a rinunciare a una professione molto contigua alla politica che avrebbe richiesto doti di camaleontismo a me estranee. Insomma, per il mio bel percorso professionale non ringrazierò mai abbastanza l'on. Ciriaco De Mita, a quel tempo uomo di punta della Democrazia cristiana in Campania.

    La naia fu utile anche perché mi fece conoscere la gerarchia, il potere; quello più soft, perfino illuminato, e quello più ottuso, becero. Erano il training perfetto per il mestiere che volevo fare da grande.

    Ricordo l'arrivo del nuovo Comandante di battaglione che rivoltò la caserma come un calzino. Chiuse la mensa ufficiali e la fece confluire in quella della truppa. Aprì la piscina a tutti e rilanciò la sala cinematografica interna. Un vero innovatore.

    Poi incrociai il piccolo potere ottuso.

    Eravamo in fila all'ingresso della mensa; arrivano due soldati che smontavano dal turno di guardia e che di lì a due ore avrebbero dovuto riprendere il loro servizio. Era buona consuetudine che non facessero la fila per andare a pranzo. Il sottotenente addetto al controllo, una recluta con le stellette, evidentemente non conosceva l'usanza. Pensando fossero dei furbastri li apostrofò in malo modo.

    Ero vicino a lui e gli spiegai la situazione a voce bassa per non metterlo in imbarazzo.

    La risposta non si fece attendere: «si faccia i c… suoi … qui comando io! ». Penso che a casa sua non si sarebbe mai espresso in quei termini, ma sotto le armi avere un linguaggio greve è sinonimo di autorevolezza e virilità. Avrà avuto 21 anni; io ne avevo 25 e non mi andava di essere trattato così da un imberbe; gli spiegai con sottile ironia perché era un cretino e un ottuso.

    Mi fece rapporto e presentò proposta per una punizione esemplare.

    Forse perché mi conosceva, forse perché lo aveva sollecitato il capitano del mio reparto, fatto sta che il Comandante ci convocò nel suo ufficio. Mi rimproverò duramente per il comportamento tenuto, riconobbe che ero un elemento serio e affidabile sul lavoro, mi invitò a scusarmi formalmente e chiese al sottotenente cosa proponesse in via conclusiva. Il giovane ufficiale: « sig. Colonnello non è per me … ma è per la divisa che indosso che ... »

    Il comandante mi guardò e paternamente concluse: «Crisci mi dispiace, ma due giorni di cella di rigore te li devi fare!».

    Fu così che conobbi la regina delle punizioni, la prigione.

    In definitiva, il servizio militare ebbe una qualche importanza nel mio processo di crescita. Imparai che il potere non è né buono né cattivo in sé; dipende dall'uso che ne fai. I piccoli uomini ne approfittano, ne abusano, ma nel tempo ne sono soggiogati. Gli uomini veri, magari solleticati da un pizzico di vanità, lo considerano uno strumento per costruire grandi cose o semplicemente per servire meglio la comunità.

    Durante il periodo di naia continuai a studiare per preparare due concorsi pubblici per laureati, il primo all' Inail e il secondo bandito dal Ministero delle Finanze (a quello per segretari comunali decisi di non partecipare. Quel capitolo per me era chiuso). Li vinsi tutti e due ma l'INAIL si dimostrò straordinariamente efficiente e, a luglio del 1976, mi invitò a prendere servizio a Venezia il successivo 1° di settembre.

    Avendo comunicato che ero impegnato a servire la Patria fui autorizzato a presentarmi entro 30 giorni dalla data di congedo.

    Finii a metà ottobre del 1976 ma non stavo nella pelle. Ero troppo curioso di cominciare a lavorare, di prendere uno stipendio, di avviarmi su un percorso professionale.

    Fu così che la sera del 27 ottobre partii per Venezia; viaggiai tutta la notte e la mattina sbarcai sul Canal Grande.

    La visione era stupenda.

    Foto 1: Il palazzo Foscari Contarini, sede della Direzione regionale Inail visto dalla stazione S. Lucia

    Ero già passato per Venezia nell'estate del 1974 durante il viaggio post laurea fatto con il mio amico e futuro cognato Tonino Musto. Eravamo arrivati con la mia Cinquecento in Piazzale Roma che, come tutti sanno, è l'approccio più brutto che si possa avere con la città lagunare, perché è uno squallido terminal per autobus ed automobili.

    Ora invece ero all'ingresso nobile.

    La stazione Santa Lucia si affaccia direttamente sul Canal Grande.

    Appena esci hai una visione stupenda; palazzi colorati con quelle tinte rosa tipicamente veneziane che si specchiano nelle acque placide del Canale, appena mosse dal passaggio di un vaporetto o di una gondola; portabagagli, gondolieri e motoscafisti che, incrociandosi, si chiamano e parlano in dialetto ad alta voce.

    Anche se la giornata non era splendida, tutto mi appariva meraviglioso ed eccitante. La bellezza e la grandezza di Venezia non mi intimoriva.

    Il palazzo dell'INAIL era di fronte; bisognava solo passare il ponte degli Scalzi.

    La mitica signorina Lamon, segretaria del Direttore regionale, mi accolse con efficiente cortesia. L'ambiente era gradevole. C'era una saletta di attesa tutta foderata in legno scuro su cui si aprivano quattro stanze, quella del Direttore regionale, quella della sua segreteria, quella del vicedirettore e quella di un altro dirigente.

    Questa location è importante; la incontreremo ancora.

    La signorina Lamon mi presentò al vicedirettore regionale che era nella prima stanza.

    Si trattava un dirigente sulla cinquantina dall'aspetto austero, con baffetti da ufficiale asburgico, che mi illustrò in breve la struttura organizzativa dell'Ente nella Regione Veneto. Volle che gli parlassi un po' di me e a un certo punto, quasi a bruciapelo mi chiese: « ma al suo paese ce l'ha la ragazza? » Al mio «certo che sì» concluse allegramente «allora l'avremo qui per poco».

    Mi spiegò che la Direzione regionale era una struttura di indirizzo e controllo per cui aveva bisogno di funzionari molto esperti; che la competenza non si acquista affiancando i controllori ma operando sul campo, in prima linea. In sostanza era necessario che io trascorressi un periodo sostanzioso presso la sede provinciale INAIL di Venezia che, avendo compiti operativi, trattava direttamente le pratiche e gestiva l'utenza.

    Il discorso mi sembrava molto ragionevole, intravedevo una strategia nella gestione del personale; oltretutto la Sede si trovava nello stesso stabile per cui mi sembrava una buona opportunità.

    Un'ora dopo ero già negli uffici della sede di Venezia.

    A questo punto è necessaria una sia pur sommaria descrizione di cosa fosse l'INAIL a quel tempo.

    L'Ente gestiva gli infortuni sul lavoro applicando sostanzialmente la normativa contenuta in un Testo unico. Era un'assicurazione pubblica dal meccanismo abbastanza semplice: assicurava le aziende con i relativi dipendenti; riscuoteva dalle stesse i premi assicurativi la cui entità era proporzionale alla pericolosità delle attività svolte. In caso di infortunio, raccoglieva la documentazione amministrativa e sanitaria ed erogava al lavoratore una indennità sostitutiva della retribuzione persa. Nel caso in cui il lavoratore non fosse guarito perfettamente, ma gli fossero rimasti dei postumi invalidanti permanenti di una certa misura, gli riconosceva anche una rendita mensile.

    La funzione era molto nobile e rispondeva a una esigenza che aveva trovato consacrazione addirittura nella Costituzione repubblicana.

    L'Ente godeva di buona fama. Aveva un'organizzazione interna un po' antiquata ma di buona efficienza. L'impronta era assolutamente tayloristica ed era fondata su una parcellizzazione del lavoro molto spinta che garantiva certezza di funzioni, una laboriosità di fondo e una buona fidelizzazione derivante anche da provvidenze economiche paternalisticamente legate all'impegno dimostrato.

    Il clima interno era buono. La divisione del lavoro così accentuata non consentiva lo sviluppo di particolari professionalità e la visione d'insieme era molto carente.

    D'altra parte il livello di scolarizzazione del personale era abbastanza modesto. I quadri ed i dirigenti provenivano in buona parte dal Sud. Il resto del personale aveva un titolo di studio che solo in pochi casi arrivava al diploma. Quindi l'organizzazione del lavoro era coerente con le potenzialità in essere.

    La logica era sostanzialmente quella della catena di montaggio. Ciascuno faceva il suo pezzetto e il prodotto finale era sufficiente per un'utenza operaia che doveva soddisfare bisogni elementari.

    Nell'aria però cominciava a circolare una certa effervescenza.

    L'Ente aveva deciso di investire pesantemente sulla risorsa umana e in quel periodo aveva bandito ben due concorsi, uno per diplomati ed uno per laureati. Alla sede di Venezia erano state assegnate più di venti persone su un totale di settanta dipendenti.

    Quando mi presentai, con due mesi di ritardo, trovai un ambiente scoppiettante, pieno di giovani meridionali alla prima esperienza lavorativa. Il clima era cameratesco ed anche i veneti si erano lasciati travolgere da questo entusiasmo.

    Essendo arrivati tutti insieme, i giovani neo assunti avevano subito familiarizzato e avevano trovato anche sistemazioni abitative in comune, chi in appartamenti privati, chi in studentati.

    Io ero un ritardatario e quindi mi trovai da solo.

    Dopo un paio di notti passate in una pensione, la solitudine mi aveva indotto a pensare che la migliore soluzione, al momento, fosse lo studentato.

    Sennonché la mattina, parlandone con un collega, venne fuori che il capo dell'ufficio Infortuni abitava da solo in un appartamento di 110 mq e

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