Persone e fatti...puramente casuali: Storie di un assistente sociale
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Alberto Giuliari è assistente sociale, educatore socio-pedagogico, mediatore familiare, counselor.
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Anteprima del libro
Persone e fatti...puramente casuali - Alberto Giuliari
Alberto Giuliari
Persone e fatti...puramente casuali
The sky is the limit
UUID: 8d71faed-98b5-4390-a290-e23231f51472
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Indice dei contenuti
Prefazione
Come sono finito a fare l’assistente sociale?
La solitudine
La crisi
Sono un Panda
Una rabbia nucleare
La bellezza e la paura
Jack la furia
Fra moglie e marito...
E visse felice
Deperimento organico e assistenzialismo
Non sono un buon samaritano, sono un buon albergatore
Il tempo e le regole
Ricordati che devi morire
Il giorno che imparai a riconoscere le bugie e a dirle
La mamma più brava del mondo
Mamma son tanto infelice
Tutto il resto è noia
Odio quando mi guardano lavorare
La Morte ti fa sereno
Io so trattare con la gente
La solitudine tra noi
Della bellezza e del potere
Tornare ai fondamentali
A Natale si passa alla cassa
Chi decide se la mamma va in casa di riposo?
Uscire dalle buche
Armando
Penelope
Il turco
Scurdammoce o passat, paisà
Chi porta i pantaloni?
Da chi devo andare?
Quello che alle donne non dicono
Se fossi al tuo posto
Non chiedetemi perché faccio l’assistente sociale
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale
Prefazione
Ho letto il manoscritto del collega Alberto Giuliari tutto d’un fiato, inorgoglito dalla parola collega perché condividiamo la stessa professione e la medesima passione per la scrittura.
Ho dovuto farlo senza fermarmi praticamente mai perché in queste pagine c’è tanta sostanza, tutto quello che un lettore, un lettore assistente sociale o un assistente sociale, cerca: riflessioni metodologiche, etiche, emozionali, introspettive, psicologiche, la possibilità concreta di immedesimazione, di specchiarsi, di trovare silente e mutuo aiuto nelle buie notti che ogni assistente sociale, prima o poi, passa. Alberto sa toccare le corde giuste per farci risuonare all’improvviso, senza quella patina pietistica del missionario e senza quel cinismo con retrogusto burocratico del testo scientifico.
Leggere le Storie di Alberto è un po’ come sedersi al tavolino di un bar in sua compagnia perché, parafrasando l’immenso De André: valeva la pena divertirvi le serate estive con un semplicissimo Mi ricordo
. Ma non si tratta solo di ricordi e racconti di un assistente sociale al fronte, un breviario esperienziale con cui mostrare al mondo cosa accade nei nostri uffici, qui c’è molto di più: sono Storie dove non c’è la ricerca del lieto fine, perché nel lavoro di Alberto troviamo l’essere umano, la vita, con tutte le sue -drammatiche? banali? miserevoli? entusiasmanti? assurde? umane?- manifestazioni.
La fatica di Alberto Giuliari è ricca di osservazioni, professionali ma non solo, che noi assistenti sociali di rado ci concediamo davanti agli altri, in attimi di straordinaria onestà intellettuale e trattando temi assoluti con la pacatezza dell’ineluttabile, con la serenità di chi è sopravvissuto, offrendo talvolta una simmetria empatica con chi gli porta un disagio quasi francescana.
Per concludere, augurando buona lettura a chi avrà avuto voglia di leggere questa Prefazione, vorrei parafrasare l’autore: vivere è un’azione complessa, in cui più che la programmazione conta l’adattamento e la fortuna.
La ricerca di senso, che riguarda l’intera specie umana, trova in queste pagine una delle sue interpretazioni più delicate ed efficaci; una lettura vibrante, tridimensionale, impossibile da ignorare.
Grazie, Alberto.
Paolo Pajer
Come sono finito a fare l’assistente sociale?
È una bella domanda, che mi sono fatto mille volte e ho trovato mille risposte valide. Fu una serie di consigli, considerazioni e avvenimenti che mi portò a questa professione.
Certo, dopo una carriera liceale da dimenticare, non avevo proprio idea di cosa fare nella vita. Avevo una certa propensione alla cura
, ma non avevo ancora deciso come svilupparla. Il quoziente d’intelligenza che mi avevano calcolato alle medie, non si era tradotto in una brillante carriera scolastica al liceo, ma in qualche modo suggeriva che io continuassi gli studi. Col senno di poi mi domando quanta validità avesse quel test a cui i miei genitori si aggrapparono per non dover ammettere di avere un figlio zuccone
.
Quando finalmente uscii dal liceo avevo le ossa rotte e non avevo il coraggio di intraprendere studi che consideravo troppo impegnativi. Il mio medico curante mi disse vai a fare medicina
, ma fu l’unico a darmi un rinforzo positivo. Secondo tutti dovevo scegliere qualcosa di abbordabile e quindi le materie scientifiche erano escluse. Non avevo nessuna passione per il denaro, né per la magistratura e quindi esclusi economia e legge. Avevo molti insegnanti intorno a me e sembravano molto frustrati quindi esclusi lettere, storia, filosofia.
E poi c’erano da considerare le mie attitudini: sembravo irrimediabilmente attratto dai problemi di chiunque. Ero diretto verso psicologia, ma poi qualcuno, che riteneva di conoscermi , mi disse: perché non vai a fare l’assistente sociale?
Io non avevo idea di cosa volesse dire, anche se avevo una grande attrazione per il mondo del sociale
. Chiesi cosa facesse un ass.soc. E la risposta fu: " uno che conose anca el can del pignataro e che serca de risolvere i problemi" ( uno che conosce anche il cane di quello che vende le pentole, cioè tutti, e cerca di risolvere i problemi). Non so perché la risposta mi bastò, di certo avevo molto affetto (mal riposto) nella persona che mi diede quel consiglio. Di certo l’esperienza del Liceo non mi aveva avvicinato allo studio e quindi carriere accademiche più complesse non mi attiravano. A quel tempo era una professione sempre mal pagata, ma molto ricercata, avevo la certezza che non sarei rimasto casa a lungo ad aspettare il lavoro.
A quel tempo non era neanche una laurea vera, era una scuola a fini speciali. C’era un esame per entrare e io, nonostante il mio voto di maturità basso basso, per il rotto della cuffia, riuscii ad entrare a sociologia a Trento.
Il professore, che aveva corretto il mio esame di ammissione, e che era uno di quelli che contava, mentre mi comunicava che entravo per il rotto della cuffia , mi disse sono contento che sia passato perché alla domanda più importante è praticamente l’unico che ha risposto correttamente
. La domanda, per quel che riesco a ricordare, era più o meno:
si presenta nel vostro ufficio una donna che vuole lasciare il marito, cosa fate?
1) cercate di convincerla a riconsiderare la sua storia di coppia e a riappacificarla col marito
2) le date tutte le indicazioni perché possa perseguire il suo obiettivo
3) la ascoltate e poi la indirizzate verso un psicologo
La maggior parte dei miei colleghi aveva risposto che la prima era la risposta giusta, io invece avevo optato per la seconda.
Oggi credo risponderebbero in molti di più nel modo corretto, ma trent’anni fa vi assicuro che risposi ben consapevole che era una risposta un po’ strana
. Aiutare gli altri a fare ciò che loro