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Le Opzioni dei Talenti
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E-book301 pagine4 ore

Le Opzioni dei Talenti

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Info su questo ebook

Sentivo il bisogno di scrivere, senza esattamente sapere che cosa e per chi, scoprendo alla fine di aver scritto soprattutto per me, per aiutare a capirmi, a capire il senso della mia vita e del rapporto con gli altri.

Ho constatato che uno scritto che sgorga dall’anima non ha una trama definita a priori, né un progetto organico o un canovaccio da seguire, ma è una strana entità che prende corpo e forma autonomi, fra le righe, in un turbinio di pensieri, di ricordi, di emozioni.

Il tutto immerso in un crescente desiderio di fare qualcosa di positivo, di lasciare qualcosa di utile per il futuro, soprattutto per i più giovani, a coloro ai quali la mia generazione ha fatto trovare una società peggiore di quella piena di fiducia e di speranza che aveva ereditato dai padri.

Non con la pretesa di insegnare chissacché, ma per fornire loro qualche elemento di riflessione in grado di contribuire alla presa di coscienza delle grandi potenzialità di cui sono portatori ed aiutarli a trovare la determinazione a provare ad impiegarle al meglio.

Poi il desiderio di divulgare la prevenzione - la mia materia professionale - vista sotto il duplice aspetto, scientifico e dei fattori umani, nel tentativo di evidenziare quanto questi ultimi siano in grado di delegittimare qualsiasi approccio scientifico e razionale alla prevenzione, vanificando gli sforzi per migliorarne l’efficacia operativa; ipotizzare o spiegare perché questa materia di cui si parla tanto, si conosce molto poco nel nostro Paese, come ricordano tante tragedie recenti e passate.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2014
ISBN9786050342970
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    Anteprima del libro

    Le Opzioni dei Talenti - Salvatore Donato Consonni

    Ringraziamenti

    Perché scrivere?

    Prima o poi, nel corso della vita, a molti viene voglia di scrivere qualcosa. Anch’io ci pensavo da tanto tempo.

    Ma scrivere cosa? E poi per chi?

    La risposta alla prima domanda mi appare più semplice: mi sento in dovere di affrontare qualcosa che conosco bene! Il criterio dell’autorevolezza, mi restringe il campo facilitandomi il compito, con il rischio però di non trovare un argomento utile.

    Penso che chiunque possa essere abbastanza autorevole semplicemente parlando e scrivendo dei propri pensieri e delle proprie esperienze. Nessuno può essere più autorevole in questo. Magari con problemi di obiettività, ma non certo di  autorevolezza.

    La seconda domanda, invece, mi mette in imbarazzo. Per chi? Per me? A che serve? I miei pensieri e la mia esperienza sono racchiusi nella mia mente. Non ho bisogno di scriverli per me. Li conosco e vi attingo ogni volta che voglio. Forse per aiutarmi a ricordare fatti e persone quando la memoria si sarà attenuata? Può essere una buona idea. Ma può servire un ausilio a cercare di ricordare qualcosa in cui non ci si riconosce più? Di cui non ci si sente più parte? Mah?! E, allora? Per chi?

    Forse bisogna attingere ad un po’ di presunzione e pensare che a qualcuno possa interessare quello che scrivi. Non  certo a livello professionale, perché puoi trovare un cliente  interessato che può pagare per questo. Ma leggere i pensieri e le esperienze personali di un signor nessuno è un altro discorso tra tanti signor qualcuno, di qualsiasi ambito e settore sociale o professionale, che prima o poi decidono di pubblicare almeno un libro.

    E allora, scrivere per chi? Per i miei famigliari! Ma si! Con il rischio però di sentirmi dire che avrei potuto impiegare meglio il poco tempo libero oppure, nella migliore delle ipotesi, ricevere un complimento senza la certezza che possa essere del tutto sincero.

    Perciò scrivo e basta. Per il solo piacere di farlo. Senza obbligo alcuno, senza obiettivi di contenuti e di tempo. Per la prima volta nella vita! Dopo tanti anni di studi e di lavoro, costantemente accompagnati dall’ansia  di non riuscire a fare tutto ciò che ritenevo di dover fare e sempre con l’assillo delle scadenze.

    Con la speranza che però non finisca come il corso di chitarra, rimandato per più di 40 anni perchè c’era sempre qualcosa di più importante e di più serio da fare. Iniziato finalmente nel Febbraio del 2008 e poi interrotto bruscamente dopo soli tre mesi perchè qualcosa mi addolorò. Ma su questo, se sarà il caso, ritornerò in seguito.

    Il viaggio

    E allora, tanto per cominciare, mi vien da scrivere del viaggio. Di quel lungo viaggio, del quale più o meno consapevolmente mi sento parte, iniziato chissà quando, che durerà chissà quanto e che porterà chissà dove. Un viaggio del quale percorro solo un brevissimo tratto del più lungo cammino dell’umanità.

    Tutto è in viaggio. Lo è l’universo, con le galassie, le stelle, i  pianeti. A velocità incredibili che non riusciamo a percepire e neppure lontanamente ad immaginare. Ci sembra infatti di stare fermi. Invece, rispetto al sole, viaggiamo con la terra a circa 30 Km al secondo. 30 Km al secondo! Vale a dire a più di 100.000 Km all’ora. E questa è solo la velocità rispetto al sole. Se ci riferiamo al centro della Via Lattea, ci muoviamo con tutto il  Sistema Solare ad una velocità otto volte superiore. Assieme alla Via Lattea, poi, percorriamo circa 3 milioni di km ogni ora!

    Sono questi dati molto grezzi, senza alcuna pretesa di precisione scientifica, ma ci possono dare un’idea delle enormi velocità con cui ci stiamo muovendo. Ma per andare dove? Certamente verso una meta. Non c’è viaggio senza meta! Non si può negare che esista una meta solo perché non la si conosce! Una meta può essere ignota, ma esiste sempre! Viaggiare senza una meta non ha senso. E tutto questo universo, questa meraviglia in cui siamo immersi, non può essere senza senso.

    Anche l’umanità è in viaggio. Non solo in senso fisico insieme alla terra, ma anche con la mente. Un viaggio lungo e complesso verso la conoscenza e la verità. Un viaggio irto di insidie e di difficoltà, fatto di accelerazioni e di brusche frenate. Un viaggio portato avanti, con grande fatica, dalle menti più aperte ed illuminate che l’umanità sia riuscita ad esprimere nel corso della sua ancor relativamente breve storia.

    Sempre  però con la consapevolezza che, per dirla con le parole del grande Albert Einstein: I grandi spiriti hanno sempre incontrato violenta opposizione da parte delle menti mediocri. Ce lo conferma la storia conosciuta. Quanti sacrifici, quante umiliazioni, quante sofferenze! E per molti fino all’estremo sacrificio! Da Socrate a Pitagora, da Galileo a Boltzmann, da Martin Luther King a Nelson Mandela. Maltrattati, vessati, spesso addirittura annientati dalle menti mediocri ed ottuse a causa del loro insopprimibile ed ancestrale bisogno di portare avanti il viaggio della mente verso la scoperta e la conoscenza, verso l’innovazione ed il progresso culturale e sociale dell’umanità.

    Un viaggio che, inevitabilmente, finisce per scontrarsi con gli interessi di una o più menti ottuse che popolano copiosamente ogni epoca della storia umana.  Quel viaggio della scoperta e del sapere al quale tutti gli essere umani sono chiamati a partecipare, ciascuno con le proprie possibilità e capacità, con forza e determinazione sapendo che alle intrinseche difficoltà si aggiungeranno sempre gli ostacoli e le opposizioni delle menti ottuse.

    Credo sia giusto e doveroso per tutti, nel corso della vita, ed a maggior ragione verso la sua conclusione, chiedersi: qual è stata la mia parte? Quale il mio contributo a questo meraviglioso viaggio dell’umanità?

    Il contributo al viaggio

    I personaggi famosi citati potrebbero indurre a pensare che il contributo possa essere dato solo dalle grandi menti: dagli uomini di scienza, dai filosofi, dai teologi o dai pensatori. Credo non sia così. Gli uomini di scienza, i filosofi, i teologi, i grandi pensatori costituiscono la punta trainante della moltitudine in viaggio.

    Sono punte che per potersi esprimere al meglio hanno però bisogno di un favorevole substrato sociale, politico e culturale che può essere determinato solo dal contributo positivo di tutti, in ogni ruolo: padre, madre, maestro, professionista, studente,  operaio, imprenditore, dirigente, o attività che possa contribuire a migliorare le condizioni di vita e accrescere le possibilità di sviluppo umanistico, scientifico, tecnologico, ed in generale la felicità degli individui ed il benessere sociale.

    Occorre uno sforzo collettivo in un contesto sociale di democrazia proiettata al continuo miglioramento delle condizioni di vita e delle capacità conoscitive dell’umanità per la realizzazione di un ecosistema fondato sull’etica e sui valori universali, sull’impegno, la legalità, la lealtà e il rispetto reciproco.

    Sono certo che, quando rileggerò queste righe, mi appariranno le ingenue utopie di un inguaribile romantico. Potevano magari andar bene a diciotto anni, nel bel mezzo del sessantotto, ma superati i sessanta, forse sono un po’ fuori luogo. Eppure la ragione continua tenacemente a dirmi che non è così.

    La speranza può esistere sempre, suffragata dal fatto che ogni epoca ha ospitato persone positive che hanno agito e che agiscono per far trionfare etica, legalità e giustizia sociale. Il problema è che sono sempre state una sparuta minoranza, che ha però sempre saputo farsi valere, anche se spesso con grandi sacrifici, e non di rado anche al costo della stessa vita.

    I progressi dell’umanità, nel corso della storia, sono dovuti all’impegno di chi crede strenuamente nella necessità di accelerare il viaggio, impegnandosi nel contempo a far sì che quella minoranza diventi maggioranza.

    A quel punto avverrà come quando in una reazione nucleare viene raggiunta la massa critica: la reazione avviene in modo esplosivo. I progressi dell’umanità avranno un’accelerazione violenta e nessun traguardo sarà più impossibile.

    In una società corrotta, che ha perso il senso dell’esistenza e che non ha una visione del futuro, non ha molto senso disquisire se questo stato di cose sia colpa o meno dei politici.

    Prendersela con questo o con quel politico, con questo o quel partito equivale a preoccuparsi dei sintomi e non della malattia che li genera, che nella nostra società è la grave perdita di valori e la conseguente deriva culturale che disorienta e fa perdere la traccia del giusto cammino.

    Si sa che ogni trend di crescita non ha sempre ed univocamente  la curva in progresso. Si registrano nuovi massimi e poi inevitabilmente si vede declinare la curva verso nuovi minimi, tanto più profondi quanto più gravi sono le crisi che li generano. Lo sanno bene, ad esempio, gli esperti di economia che sorvegliano i trend di sviluppo economico dei paesi e delle borse mondiali.

    L’attuale momento di calo del trend sociale e culturale del nostro paese, che sta scendendo inesorabilmente verso un nuovo minimo, richiede un grande sforzo di tutti per arrestare la caduta e far ripartire la salita. Tanto più basso sarà il nuovo minimo, tanto più tempo occorrerà per far ripartire la crescita dal livello ove è stato tracciato l’ultimo massimo. Stavolta, data la profondità della crisi, saranno probabilmente necessarie alcune generazioni.

    In questo sforzo nessuno può chiamarsi fuori. Ciascuno nel proprio, o nei propri molteplici ruoli, può offrire un piccolo, ma indispensabile contributo.

    Mi ha fatto molto riflettere, ancor bambino, la scoperta che gli oceani possono essere suddivisi in tantissime goccioline d’acqua. Un numero enorme, ma finito! E mi fa tuttora riflettere il constatare che se ogni goccia decidesse di chiamarsi fuori solo perché da sola non potrebbe far nuotare neppure un girino, al posto di fiumi, laghi ed oceani troveremmo aridi e inospitali deserti.     

    Credo perciò sia doveroso chiedersi quale sia il proprio contributo. Contribuisce alla caduta verso il nuovo minimo, oppure è impegnato a fermarla? Con i nostri molteplici ruoli sociali, possiamo fare molte cose, anche molto diverse fra loro.

    In una società più o meno libera, molte opzioni sono  possibili. Certe scelte, però, ne escludono automaticamente altre, e salvo rari e costosi ripensamenti, quando si fanno impegnative e sbagliate scelte di vita, raramente si può tornare indietro.

    Ma quale contributo?

    Questa riflessione mi porta nel complesso mondo della scoperta individuale delle proprie attitudini, delle proprie possibilità innate e di quelle acquisite mediante l’educazione dalla famiglia, dalla scuola, dalla vita e dalle continue esperienze che ne derivano.

    Fin da bambino, ho sempre pensato di dovermi impegnare  per accrescere la mia cultura personale e professionale attraverso lo studio, nel quale vedevo l’unico mezzo di riscatto dalla condizione sociale della mia famiglia. Nelle mia mente non ne esistevano altri, forse anche grazie all’esortazione di papà che spesso mi ricordava di studiare perché lo studio è come il pane. Si diceva così allora in Brianza "studia che ul studi l’è pan, studia che lo studio è pane".

    Un parallelo che mi aveva colpito anche perché espressione e cultura di una società contadina, che è semplice, saggia e laboriosa per definizione: il pane come fondamentale alimento per sostentarsi, ed il lavoro, lo studio, la conoscenza per progredire.

    Semplice e grande papà! Autoironizzava spesso sulla sua terza elementare, forse neppure conclusa, perché una certa maestra aveva la brutta abitudine di bacchettare dolorosamente le nocche delle dita dei suoi vivaci scolaretti. "Ugiatön", "Occhioni", la chiamavano, per i suoi occhi grandi e sporgenti.

    Papà era nato nel 1920. Negli anni del ventennio, la disciplina era ferrea, ed immagino quanto dovesse soffrire uno spirito libero come il suo, tanto che preferì presto la libertà dei campi, l’ondeggiare del grano maturo da falciare a mano e da fasciare in covoni, la raccolta delle pannocchie di granoturco dorate da gettare sul carro ed il fieno da riporre in cascina per le mucche e per l’indispensabile cavallo da tiro (il mite Belu) da sfamare durante l’inverno.

    Non senza rimpianti, però. L’importanza della scuola gli era rimasta dentro. Tanto da fargli dire spesso: "ul studi l’è pan". E per un contadino si sa quanto sia sacro il pane. Un alimento del quale non si poteva e doveva sprecare neppure una briciola. Quelle che cadevano dal tavolo dovevano essere raccolte per gli uccellini o per integrare il cibo delle galline nel pollaio.

    Amava ironizzare sulla sua performance scolastica, sorridendo sornione sotto i baffetti sempre ben curati e con i capelli sempre ben composti e fissati dalla brillantina, tanto da fargli attribuire in paese l’appellativo di "vuncèt", che non voleva dire unto o sporco, bensì il contrario, cioè sempre ben curato e laccato. In effetti, era un gran bell’uomo. E dopo il lavoro dei campi, amava mettersi in ordine e farsi ammirare dalle belle del paese.

    Ho dovuto smettere presto di andare a scuola perché la mucca mi ha mangiato i libri, diceva con l’aria divertita di chi non pensava certo che qualcuno gli potesse credere. In realtà, se si considerano la tante serate trascorse al calduccio della stalla nell’umido e rigido inverno padano, tale inconveniente avrebbe anche potuto verificarsi.

    Anche chi è giovane, ma ha avuto occasione di vedere il film "L’albero degli zoccoli" di Ermanno Olmi, ha potuto conoscere queste abitudini contadine che appaiono lontane secoli e invece risalgono a meno di 50 anni fa.

    Non credo proprio che i libri di mio padre finirono come si divertiva ad affermare. Le motivazioni del suo abbandono della scuola, oltre la già citata antipatia per la maestra ugiatön, avevano certo risvolti più pratici, legati all’economia della famiglia che, oltre al lavoro dei campi, gestiva una rivendita di vini e l’annessa osteria nella cascina Masciocco di Camparada, dove, la sera, si ritrovavano gruppi di contadini per giocare a briscola oppure al due, la briscola a chiamata. Da bambino, mi divertivo un mondo ad assistere alle giocate e a cercare di capirne le strategie, seduto sulle ginocchia di uno dei giocatori.

    A mio padre, comunque, era rimasta una forte convinzione dell’importanza della scuola. Così forte che avrebbe lavorato giorno e notte per mantenermi agli studi. Non di rado, quando di ritorno dalla scuola andavo a salutarlo mentre era intento a costruire e riparare le strutture in legno e lamiere del cascinotto, le gabbie dei conigli, le strutture di cova e ricovero delle galline e le svariate attrezzature da lavoro, mi diceva: ninїn, ga varisi bisogn d’una man, però sa ta ghe da studià, và a studià, ninin, avrei bisogno di una mano, però se hai da studiare, vai a studiare.

    Non coincideva proprio con lo stereotipo del padre contadino che non vedeva l’ora che il figlio avesse braccia abbastanza robuste per il lavoro dei campi, come succedeva spesso in quei tempi, quando i figli erano una risorsa per il lavoro e non un lusso da non potersi permettere, come purtroppo accade spesso oggi dalle mie parti. 

    E’ noto che nel corso dei tempi, i giovani hanno spesso abbandonato la scuola e cercato un lavoro per una scelta di libertà, che solo un minimo d’indipendenza economica può garantire. Forse pensava a questo mio padre quando mi chiedeva, e lo faceva spesso, se mi trovassi con abbastanza soldi in tasca.

    Ed alla mia risposta, spesso affermativa, anche quando purtroppo non era per niente vero perché mi erano ben presenti le difficoltà economiche della famiglia, mi apostrofava con una severità di cui non è mai riuscito a convincere neppure il nostro cagnolino Lilly: "Sa so ca ta sa fè cumpatì, guai, Se vengo a sapere che ti fai compatire, guai!", affermava con aria seria, seria! Bisognava conoscerlo per capire cosa volesse dire.

    Per lui non farsi compatire significava essere sempre in grado di offrire un bicchiere  di vino ad un amico. Non essere in condizione di farlo, per lui, avrebbe rappresentato una grande frustrazione. Offrire per lui era un piacere maggiore del mantenere in tasca qualche soldo in più. Il suo orto era sempre grande e rigoglioso. Quante borse di verdura ho visto collocare  sulle biciclette ed i motorini dei molti amici, e quanti polli e conigli! Avevo la sensazione che alcuni di questi amici ne approfittassero un po’ troppo.

    Peraltro, non bisogna dimenticare che ci trovavamo nel cuore della Brianza, dove la gente poteva tranquillamente gareggiare in avarizia con scozzesi e genovesi. E le cose non sono molto cambiate neppure ora dopo decenni di notevole benessere, costruito però attraverso il duro lavoro.

    Si sa che i soldi, chi li suda non è propenso a spenderli con superficialità. Non che papà non desse loro il giusto valore. Nel suo piccolo aveva dimostrato di saperli anche usare bene. Come quando nel ’53 insistette con mia madre per acquistare quel pezzo di terra dove vent’anni fa ho costruito i miei uffici.

    O quando ha fortemente voluto acquistare la piccola casa dove ho vissuto fino a quasi ventidue anni. Cioè fino a quando, nel Febbraio del ’72, ci trasferimmo ad Arcore in un appartamento in affitto perché quella casetta di Camparada era, ormai da tempo, divenuta troppo piccola per la nostra famiglia.

    Ho sempre visto nello studio la possibilità del riscatto delle mie umili origini di "povero figlio di campagna", come mi sono spesso definito nel corso dell’esistenza, con un po’ di orgogliosa autoironia, soprattutto nel momento di qualche piccolo successo, giusto per ricordare di non prendermi mai troppo sul serio.

    Fin da bambino, avevo percepito istintivamente la precarietà della nostra condizione terrena. Mi era bastato guardare con insistenza uno scorcio di cielo, sempre lo stesso angolo per non smarrirmi, sopra gli abeti e le robinie dei boschi di Camparada, nella piena luce del giorno o nella maestosità delle notti stellate, per provare a tratti felicità, a tratti sgomento, a tratti conforto ai piccoli o grandi dispiaceri di ogni giorno. Sempre con la percezione di essere piccolo ed inerme, ma con la sensazione dell’esistenza di una grande forza lassù che poteva guidare il mio cammino e darmi la forza ed il coraggio necessari per continuare il mio viaggio.

    Mi sono convinto molto presto che prendersi troppo sul serio fa divenire supponenti e presuntuosi, fa dimenticare la propria inevitabile pochezza e conduce a irrealistici velleitarismi, che si materializzano quando le ambizioni superano le reali possibilità, verso una ricerca spasmodica dei mezzi che inevitabilmente mancano.

    Mezzi che in una società corrotta e demeritocratica si identificano spesso in collusioni, settarismi, poteri più o meno occulti e amicizie particolari di vario genere. Nel corso della vita di chi svolge un ruolo professionale di qualche rilievo, occasioni di tale genere ne capitano spesso. Ed ogni volta implacabilmente si insinua il quesito: perché non dare retta ad un nuovo amico e intraprendere una nuova strada che porta prima al successo e ai soldi, e con minore fatica?

    Ogni centro di potere ha bisogno di buone menti, di bravi professionisti e di facce pulite, perlomeno in apparenza. A volte i fini sono anche socialmente positivi, spesso non lo sono affatto. I vantaggi per la comunità finiscono quasi sempre per essere inferiori a quelli del gruppo di potere. Alla lunga poi questi ultimi prendono sempre il sopravvento.

    Un giorno la piccola Giulia, allora di sette o otto anni, mi chiese: papà, come si fa a capire se un’iniziativa sociale è giusta o sbagliata? Feci dapprima, e per prendere tempo, un breve preambolo, sottolineando che è molto difficile dare una risposta generale a una simile domanda, senza un’adeguata contestualizzazione e valutazione della specifica iniziativa.

    Poi però aggiunsi che forse un criterio di validità generale avremmo potuto trovarlo: a fronte di ogni iniziativa occorreva prevedere quanti individui avrebbero potuto beneficiarne e cercare di capire se sarebbero stati più numerosi rispetto a coloro che ne avrebbero ricavato solo svantaggi o, nella migliore delle ipotesi, non  ne avrebbero tratto alcun beneficio.

    Le dissi: "è un criterio che ti permette, ad esempio, di individuare le moltissime iniziative pubbliche e private, spesso portate avanti con il benestare delle istituzioni, che, per il vantaggio di pochi, finiscono per svantaggiare molti: comunità, paesi, nazioni o addirittura l’intera umanità".

    Inutile sottolineare, e tutti i genitori lo sanno, quanto sia difficile dare risposte convincenti al bombardamento di domande dei propri figli in tenera età. Fortunatamente in quell’occasione la risposta piacque, infatti Giulia in seguito qualche volta me la ricordò.

    Tornando alla possibile adesione ai gruppi di cui parlavo prima della divagazione, i vantaggi individuali sono quasi sempre assicurati, e quasi sempre a svantaggio delle opportunità di altri. Una cosa che è però sempre certa è il sacrificio della libertà. La possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero e di comportarsi secondo il proprio credo ed i propri valori finisce per scontrarsi inevitabilmente con le ragioni del gruppo, che più è integralista e conservatore meno sopporta le voci dissonanti, anche se espresse in rarissime occasioni.

    Per quanto mi riguarda, nulla vale il sacrificio della propria libertà, la possibilità di pensare e dire sempre ciò che si ritiene giusto, senza condizionamenti e l’assillo di dover centellinare le parole per timore di dispiacere a qualcuno.

    Voglio poter pensare al residuo futuro che mi trovo davanti con la libertà di sempre, anzi di più, e sempre con la speranza di poter costruire ancora qualcosa di positivo per me stesso e per altri. Ad esempio, attraverso il mio lavoro, contribuire a migliorare le condizioni di salute e sicurezza di molti lavoratori. Oppure aiutare dei giovani a farsi una professione, trasferendo loro quanto più possibile delle mie competenze e delle mie esperienze.

    Voglio ancora provare a dar credito a quello psicologo, che al termine di un’intervista al centro di orientamento di Vimercate, credo nel 1961, all’inizio della mia prima media, accomiatandomi disse: "ciao Donato, farai molta strada nella vita. Ed io, di rimando, con la naturale ironia che mi ha sempre accompagnato: si, in bicicletta, magari!". Alludendo, ovviamente, alla passione per il ciclismo di cui gli avevo parlato nel corso del

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