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La capanna dello zio Tom
La capanna dello zio Tom
La capanna dello zio Tom
E-book672 pagine10 ore

La capanna dello zio Tom

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Info su questo ebook

Quando Arthur Shelby e la sua famiglia sono sul punto di perdere la loro fattoria, Arthur decide di vendere due dei suoi schiavi a un mercante di schiavi per saldare i suoi debiti. Lo zio Tom, un uomo di famiglia di mezza età e amico intimo del figlio di Arthur, è uno di loro. L'altro schiavo, Harry, fugge con la madre nel cuore della notte per raggiungere il Canada, dove potranno vivere da persone libere insieme al padre di Harry, che era scappato in precedenza. I due fuggiaschi sono inseguiti per il paese da un cacciatore di schiavi instancabile e spietato, mentre lo zio Tom, separato dalla sua famiglia, cerca di sopravvivere nel suo nuovo ambiente. Quando il romanzo di Harriet Beecher Stowe "La capanna dello zio Tom" fu pubblicato nel 1852, ci fu una protesta da parte degli stati meridionali americani, dove la schiavitù era ancora considerata una misura naturale e necessaria. Molti credono che questo romanzo, ampiamente distribuito, abbia in parte gettato le basi della guerra civile americana, mettendo fine alla schiavitù, una volta per tutte. -
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2020
ISBN9788726521832
Autore

Harriet Beecher Stowe

Harriet Beecher Stowe (1811-1896) was an American author and abolitionist. Born into the influential Beecher family, a mainstay of New England progressive political life, Stowe was raised in a devoutly Calvinist household. Educated in the Classics at the Hartford Female Seminary, Stowe moved to Cincinnati in 1832 to join her recently relocated family. There, she participated in literary and abolitionist societies while witnessing the prejudice and violence faced by the city’s African American population, many of whom had fled north as escaped slaves. Living in Brunswick, Maine with her husband and children, Stowe supported the Underground Railroad while criticizing the recently passed Fugitive Slave Law of 1850. The following year, the first installment of Uncle Tom’s Cabin was published in The National Era, a prominent abolitionist newspaper. Published in book form in 1852, Uncle Tom’s Cabin was an immediate international success, serving as a crucial catalyst for the spread of abolitionist sentiment around the United States in the leadup to the Civil War. She spent the rest of her life between Florida and Connecticut working as a writer, editor, and activist for married women’s rights.

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    Anteprima del libro

    La capanna dello zio Tom - Harriet Beecher Stowe

    La capanna dello zio Tom

    Cover image: Shutterstock

    Copyright © 1852, 2020 Harriet Beecher Stowe and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788726521832

    1. e-book edition, 2020

    Format: EPUB 2.0

    All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    SAGA Egmont www.saga-books.com – a part of Egmont, www.egmont.com

    Prefazione dell’autrice.

    Le scene di questo racconto sono tratte, come il titolo stesso vi annunzia, dalla vita d’una razza di uomini, che rimase finora ignota al nostro bel mondo sociale, razza esotica, i cui padri, nati sotto il sole del tropico, portaron seco e perpetuarono nei loro discendenti un’indole diversa così essenzialmente dall’aspro, imperioso carattere degli Anglo-sassoni, che rimase per molti anni mal compresa, anzi sprezzata da questi.

    Ma un nuovo e più fausto giorno già si leva sull’orizzonte; la letteratura, la poesia, le arti belle cominciano a cospirare, a viemmeglio accordarsi colla gran nota del Cristianesimo: ama il prossimo tuo.

    Il poeta, il pittore, l’artista si studiano significare, abbellire i più dolci affetti che son comuni al cuore umano, e colle forme seducenti della fantasia esercitano un’influenza che dirozza, signoreggia li animi e aiuta i principii cardinali della fratellanza cristiana a tradursi in atto.

    La mano della carità si stende ovunque per isbarbicare abusi, riparare ingiustizie, sollevar miserie, raccomandare ai benevoli riguardi della società li umili, li oppressi, i derelitti.

    In questo movimento generale si gettò uno sguardo all’infelice Africa; a quell’Africa che nel crepuscolo del medio evo iniziò il progresso della civiltà: e che indi, incatenata e sanguinosa, giacque ai piedi dell’umanità incivilita e cristiana, implorando, inutilmente, compassione.

    Ma il cuore della razza dominante che l’avea conquistata, il cuore degli aspri suoi padroni si mosse finalmente a pietà di lei; si comprese quanto sia più nobile ad una nazione il proteggere che l’opprimere i deboli: il commercio degli schiavi, come a Dio piacque, è abolito.

    Lo scopo di questo racconto è svegliar simpatia, commiserazione per la razza africana quale esiste tra noi; svelare le loro angosce, i loro dolori sotto un sistema, così necessariamente crudele ed ingiusto, che tutti li sforzi de’ loro amici per alleviarli riescono a nulla.

    L’Autrice di questo racconto dichiara sinceramente, che nello scriverlo non fu mossa da alcun astioso sentimento contro coloro che trovansi ben sovente, anche loro malgrado, impicciati in vertenze, in rapporti legali colla schiavitù.

    L’esperienza lo ha dimostrato; come le anime anche più generose, come cuori bennati, si possano trovar sovente ravvolti in questi affari; e costoro, meglio d’ogni altro, son certi che per quanti fatti lacrimevoli si raccolgano in racconti simili a questo, non si giungerà mai a poterne dire la metà.

    Negli Stati del Nord si potrà credere, per avventura, che questo racconto sia stranamente esagerato; ma in quelli del Sud, non v’ha persona che non possa attestarne la verità. L’Autrice si riserva dimostrare a suo tempo come abbia avuta personal conoscenza dei fatti stessi che prese a descrivere.

    È dolce lo sperare che come scomparvero, col volger degli anni, altre nequizie, altre miserie dell’umanità, così verrà tempo in cui racconti di cotal fatta più non saranno apprezzati che quai semplici documenti storici d’un’epoca passata per sempre.

    Quando una società civile e cristiana avrà potuto inaugurare sulle sponde dell’Africa quelle leggi, quella lingua, quella letteratura che son tra noi, possano le memorie della casa del servaggio esser per essi ciò che erano per li Israeliti le reminiscenze dell’Egitto — un argomento di grazie a quegli che li ha redenti.

    Perchè, mentre i politici van disputando, e gli uomini sono qua e là aggirati dal vortice degli interessi e delle passioni, la gran causa della libertà umana è nelle mani dell’Uno di cui è detto:

    « Non tralascerà di venire a giudicare la terra; verrà a liberare il povero, l’oppresso, il destituto d’ogni conforto; redimerà le anime loro dall’insidie e dalla violenza, e il sangue loro sarà prezioso al suo cospetto.»

    La capanna dello zio tom

    Capo I.

    Si introduce il lettore a far conoscenza con un uomo di cuore.

    Nella città di P…., nel Kentucky, al tramontare di una fredda giornata di febbraio, due gentlemen protraevan l’ora col bicchiere alla mano in una sala da pranzo splendidamente arredata; allontanato ogni servo, seduti l’un presso l’altro, parea discutessero con gran calore un qualche affare importante.

    Abbiam detto, per convenienza, due gentlemen; ma uno di essi, osservato attentamente, non dimostrava di appartenere a questa classe. Piccolo, tozzo, di lineamenti grossolani, vulgari, affettava quel piglio borioso che è tutto proprio di uomo plebeo, il quale ambisce farsi innanzi nel mondo sociale. Era molto ben in arnese; portava un corpetto di gala screziato, una cravata azzurra, tempestata di punti gialli, composta con un nodo colossale, in armonia perfetta col complesso della persona. Le sue mani, larghe e tozze, splendean di anelli; una massiccia catena d’oro, che finiva in gran volume di ciondoli d’ogni colore, e che egli, nel calore del discorso, solea agitar per vezzo, con evidente soddisfazione, gli pendeva da un orologio d’oro. Il suo parlare, non troppo scrupoloso della grammatica di Murray, si condia tratto tratto di espressioni tali, che, per quanto amiamo esser veridici, non ci indurremo a trascrivere.

    Il suo compagno, il signor Shelby, avea sembianza di un vero gentlemen; la disposizione degli arredi, il sesto generale della casa annunziavano una condizione più che agiata, opulenta. Come abbiam detto, i nostri due interlocutori erano impegnati in una discussione caldissima.

    — «A questo modo acconcierò la bisogna,» disse il signor Shelby.

    — «Ah in verità, signor Shelby — rispose l’altro, sollevando un bicchiere pieno di vino tra il suo occhio e la luce — non posso acconsentirvi.» — «Perchè no, Haley? Tom non è uno schiavo comune; varrà sempre questo danaro; sollecito, onesto, intelligente, fa procedere la mia fattoria colla precisione di un orologio.

    — «Onesto quanto un nero, volete dire;» soggiunse Haley, versandosi un bicchier d’acquavite.

    — «No; credo sinceramente che Tom è uno schiavo pio, intelligente, affettuoso. Assistette sempre, nel corso di quattro anni, alle assemblee religiose; e, certo, non ha sprecato il suo tempo. Da quel tempo gli affidai, senza riserbo, casa, danaro, cavalli, quanto posseggo; gli permisi di girar da solo in lungo ed in largo il paese, e lo trovai mai sempre discreto e sincero.»

    — «Vi ha chi crede — disse Haley sollevando la mano con espressione di ingenuità — che i negri siano incapaci di religione; io ne giudico altrimenti. Aveva uno schiavo, comperato l’anno scorso in Nuova Orleans, buono, giusto, come se tornasse dalle preghiere, dai sermoni del campo. Non l’ho pagato che seicento dollari, perchè il suo padrone si trovava in necessità di venderlo; lo rivendetti con buon profitto. Sì, ritengo che la religione è buona cosa in uno schiavo, quando è articolo sincero, non un tranello.»

    — «E Tom, per questo riguardo — soggiunse Shelby — non avrà mai chi lo superi. Or fa qualche tempo, lo mandai a Cincinnati per assestare alcune mie faccende e riportarmi cinquecento dollari. «Tom, gli dissi, mi fido di voi, perchè siete cristiano: son certo che non mi ingannerete.» Nè mal mi apposi; Tom è ritornato. So che alcuni tristi gli andavano susurrando: perchè non fuggite al Canadà? «Ah! il padrone si è fidato di me, rispose Tom; non voglio tradirlo.» Confesso che mi duole separarmi da lui: e se voi, Haley, siete uomo di coscienza, lo avrete in saldo d’ogni debito.»

    — «Quanto a coscienza — rispose l’altro con piglio di scherzo — ne ho quanta può averne un mercante. Son disposto a far di tutto per obbligare un amico; ma questo è troppo, troppo sicuramente.»

    Il mercante gettò un sospiro patetico, e si versò acquavite.

    — «Quanto dunque volete darmi, Haley?» riprese Shelby, dopo un momento di penoso silenzio.

    — «Non avete un fanciullo, un fanciullino da accoppiare, a Tom?»

    — «Niente, niente di cui possa disporre; non mi induco a vendere che per necessità, a dir vero; non voglio separarmi da’ miei schiavi; ecco il tutto in una parola.»

    In quel momento s’apri l’uscio, e un fanciullino meticcio, dai quattro ai cinque anni di età, entrò nella sala. Vi era nel suo aspetto qualche cosa di attraente; una grazia, una bellezza non ordinaria. I neri suoi capelli, fini come seta, gli ondeggiavano a larghe ciocche intorno al collo, mentre due grandi occhi neri, pieni di soavità e di fuoco, scintillanti sotto lunghe e folte sopraciglia, gettavano uno sguardo di curiosità intorno alla camera. Una tunicella di tartan giallo, e che si attagliava perfettamente alla persona, facea spiccare il carattere della sua bellezza africana, mentre un tal qual piglio di comica sicurezza ben dimostrava che egli era avvezzo alle carezze del padrone.

    — «Vien qua, Tim Crow! — disse Shelby, gittandogli un grappoletto di uva; — prendilo su.»

    Il fanciullo spiccò un salto, aiutandosi di tutta la sua lena, per raccoglierlo, in quella che il padrone ne smascellava delle risa.

    — «Vien qua, Tim Crow!» disse Shelby.

    Il fanciullo si fece innanzi; il padrone gli ficcò la mano tra le ciocche della ricca capigliatura, e lo accarezzò sotto il mento.

    — «Ora, Tim, mostra a questo signore che sai ballare e cantare.»

    Il fanciullo cominciò allora con voce chiara, vibrata, una di quelle canzoni selvagge, grottesche, che son proprie dei neri, accompagnandosi con un comico gesticolar delle mani, dei piedi, di tutta la persona, in accordo perfetto colle note del canto.

    — «Bravo!» disse Haley, gettandogli uno spicchio di arancio.

    — «Ora, Tim — riprese il padrone — cammina come il vecchio zio Cudgioe quando ha i reumatismi.»

    E di subito il fanciullo atteggiò le sue membra flessibili a deformità, a contrazione; aggrinzò il volto, curvò il dorso, e dato di piglio al bastone di Shelby, si mise, sputacchiando, a zoppicar per la camera, tentennando a destra, a manca in guisa di vecchio.

    I due gentleman scoppiavano dalle risa.

    — «Ora, Tim — disse il padrone — ci fa sentire come il vecchio Robbins intuona i salmi.»

    Il fanciullo allungò il volto bizzarramente, e con gravità imperturbabile cominciò un salmo in tuono nasale.

    — «Evviva! benissimo! che bel putto! — esclamò Haley; — è quello che davvero mi conviene.»

    E battendo colla mano sulla spalla di Shelby:

    — «Aggiungete questo fanciullo, e l’affare è fatto.»

    In quel punto l’uscio della sala si aprì lento lento, ed una meticcia, che dimostrava venticinque anni di età, si fece innanzi.

    Bastava gittare uno sguardo al fanciullo ed a lei per accorgersi subito ch’ella era sua madre. Lo stesso occhio nero, grandioso, sormontato da lunghe sopraciglia, le stesse anella di capelli neri e finissimi. Le brune guancie di lei si tinsero in un leggiero incarnato, che diventò fiamma quando si accorse che quello straniero la fissava con occhi di stupore e non velata concupiscenza. Gli abiti, che le si attagliavano con bel garbo alla persona, faceano spiccar viemmeglio la forma delle sue membra ben tornite e delicate. Le sue mani affilate, una nocca delicata, l’avvenente picciolezza de’ suoi piedi eran pregi troppo notevoli perchè sfuggissero all’occhio indagatore d’un mercante che solea giudicare, a primo sguardo, le qualità d’un articolo femminino.

    — «Che volete, Elisa?» chiese il padrone, mentre la guardava con esitanza.

    — «Veniva in cerca di Arrigotto.»

    Il fanciullo si slanciò verso la madre, mostrandole il grappolo d’uva che avea raccolto nel lembo della sua tunicella.

    — «Conducetelo pure con voi» disse Shelby; e quella senza indugio si tolse in braccio il fanciullo ed uscì dalla sala.

    — «Per Giove! — disse il mercante volgendosi a Shelby con atto di meraviglia; — questo è un articolo! Con questa donna potrete fare quandochesia la vostra fortuna a Nuova Orleans. Vidi sborsar migliaia di dollari per altre tali che certo non valean questa.»

    — «Non ho bisogno di far per tal modo la mia fortuna» disse Shelby con mal garbo; e, per deviare il discorso da questo argomento, cavò il turacciolo ad una bottiglia di vino, ne versò al compagno, chiedendogli come lo trovasse.

    — «Eccellente! di prima qualità!» — rispose il mercante. Rivolgendosi quindi a Shelby, e ponendogli famigliarmente una mano sopra la spalla: — «Orsù — gli domandava — quanto volete di quella donna? quanto debbo offrirvi?»

    — «Non è da vendere, signor Haley — rispose Shelby; — mia moglie non la cederebbe per tanto oro quanto pesa.»

    — «Già, già, le donne dicon sempre così perchè non si intendon di calcolo. Fate lor vedere quanti nastri, quante catenelle, quanti orologi si potrebbero comperar con quell’oro, e subito muteran consiglio.»

    — «Haley, ve lo ripeto, è inutile parlarne ancora. Vi ho già detto di no, e ho risoluto di no» disse Shelby con fermezza.

    — «Mi cederete almeno il fanciullo! — riprese il mercante di schiavi. — «Vi dovete essere accorto come ne sono invaghito.»

    — «E a che potrebbe mai servirvi quel fanciullo?» domandò Shelby.

    — «Ho un amico che questo anno tiene un tal ramo di commercio, e che alleva bei fanciulli per venderli poi sul mercato; articoli puramente di capriccio che li compera chi può pagarli. Sono adattatissimi a servir di lacchè, servire a tavola, aprir le porte, far codazzo ai loro padroni, aspettarli nelle anticamere. Costano una bella moneta; e quel diavoletto che gesticola e canta così bene, sarebbe appunto il mio articolo.»

    — «Non voglio venderlo — disse Shelby pensieroso; — non ho cuore di strapparlo dalle braccia di sua madre.»

    — «Ah certo, è ben naturale! comprendo anch’io; rincresce anche a me affligger le donne e detesto le loro strida, le loro lacrime, i loro lamenti; ma, nel maneggiar questi affari, bisogna sapersene isbrigar con bel garbo. Non avrete che a mandar la madre, sotto qualche pretesto, per un giorno, per una settimana in campagna; al ritorno l’affare sarà acconciato. Vostra moglie le regalerà orecchini, una veste nuova o qualche altra bagattella consimile, ed ella se ne terrà paga.»

    — «Ne dubito.»

    — «Viva Dio! credetelo a me; questi esseri non sono come i bianchi; lo sapete anche voi; trattandoli bene, si racconsolano. Si crede generalmente — riprese Haley con tuono di confidenza e con aria di singolare ingenuità — che il commercio degli schiavi indurisca il cuore; per me, non me ne sono mai accorto. Ma io tratto quest’affare ben altrimenti che molti trafficanti. Ne vidi alcuni che strappavano il bimbo dalle braccia della madre per metterlo subito in vendita, mentre quella gettava urla disperate, e si dibatteva come una indemoniata; cattivo metodo; guasta il capo di merce, e talvolta lo rende inabile per qualche tempo al servizio. Alla Nuova-Orleans mi venne veduta una bella giovanetta che fu gettata interamente alla malora per questa sorta di trattamenti. Il compratore non avea bisogno del bambino che ella stringeva al seno; il sangue mi si agghiaccia al sol rammentarlo! le lo strapparono; si dibatteva, singhiozzava, e quando più nol vide impazzì, e nel temine di una settimana morì. Fu una perdita di mille dollari, e ciò per aver mancato dei modi convenienti. Torna sempre a conto l’agire umanamente; credetelo alla mia esperienza.»

    E qui il mercante de’ negri si abbandonò colle spalle sulla sedia, incrocicchiò le braccia al petto, in atto d’un virtuoso proponimento: si sarebbe creduto un secondo Wilberforce.

    Avresti detto che un tale discorso lo avesse commosso fin dalle viscere perchè mentre Shelby stava raccolto ne’ suoi pensieri, rimandando un arancio, Haley si levò in piedi e aggiunse nuove considerazioni, quasi fosse spinto dalla forza della verità.

    — «Non istà bene lodarsi da per noi; ma posso dirlo, perchè è vero. Tutti sanno che ho le più belle coppie di negri, i meglio pasciuti, vigorosi, e che ne perdo meno degli altri che speculano in questo ramo di commercio. Ciò proviene, posso dirlo a viso aperto, che io, nella mia condotta a loro riguardo, mi attengo tenacissimamente al gran principio di umanità.»

    Shelby, non sapendo come sbrigarsela disse: «Benissimo!»

    — «È bensì vero che talvolta mi han canzonato per queste massime che non sono comuni: ma non volli dismetterle, e vi trovo il mio profitto; si può dire che mi han pagato il dritto di pedaggio.»

    E il mercante, a questo scherzo, diè in uno scroscio di risa.

    In questo sermone sull’umanità vi era alcun che di sì piccante, di sì originale, che il signor Shelby non potè rattenersi dal riderne anch’esso. Forse tu non ridi, lettor mio caro; ma al dì d’oggi il sentimento di umanità si traduce in forme così varie, così bizzarre, che non v’ha nulla cui un filantropo non possa dire o fare.

    Il sorriso di Shelby incoraggiò il negoziante, e questi proseguì la sua predica.

    — «È strano che non venni mai a capo di persuader certa gente. Nel Natchez avea un socio anticamente, Tom Loker, uomo di senno, ma un demonio coi negri; uomo più eccellente non mangiò mai pane; ma era un sistema, o signore. Caro Tom, solea dirgli, perchè batter sul capo le giovani vostre schiave, mentre gridano e piangono? perchè dar loro dei pugni? È assurdo, soggiungeva, e non ne caverete nulla di buono. Non vi è alcun male che piangano: è uno sfogo di natura, e convien bene che in un modo o in un altro ella si sfoghi. Invece, studiatevi di acquetarle, di trattarle con mitezza; troverete il vostro conto nell’usar modi umani anzichè nel malmenarle. Ecco ciò che io solea dirgli; ma Tom non volea darmi ascolto, e tanto oltre procedette nel disprezzarmi, che io dovetti separarmi da lui, tuttochè, in fatto di commercio, fosse uomo avvedutissimo.»

    — «E aveste modo di conoscere a prova che il vostro sistema sia preferibile a quello di Tom?» chiese Shelby.

    — «Certo che sì; evito di far baccano; schivo le scene dolorose, come sarebbe strappar dalle madri i bambini; le allontano per qualche giorno; lontan dagli occhi, lontan dal cuore, sapete bene; quando è finita, nè si può più rimediare, vi si acconciano naturalmente. Non si tratta di aver a fare con bianchi, i quali crescono coll’idea di star presso ai loro figli, alle loro mogli; i negri purchè siano ben allevati, non ci pensan neppure; quindi la bisogna procede assai più facilmente.»

    — «Temo che i miei schiavi non sieno educati abbastanza bene» disse Shelby.

    — «Può ben darsi; voi altri abitanti del Kentucky guastate i negri. Avete buone intenzioni per essi, ma una tale benevolenza riesce a male. Un negro che passa, continuamente, da un padrone all’altro, da Tom a Dick, a chiunque siasi, non può nutrire affezioni reciproche, perchè i colpi di bastone gli piovon sempre sulle spalle. Ora, i vostri negri, signor Shelby, oso dirlo, andranno in casa ove non saranno trattati men bene che nella vostra tenuta. Ciascuno, lo saprete anche voi, signor Shelby, crede naturalmente, ed io mi lusingo con ragione, di trattare i miei negri ben meglio che non si meritano.»

    — «Beato chi può contentarsi de’ fatti suoi» disse Shelby; con una crollatina di spalle, e lasciando traveder sentimenti che non avrebbero garbato molto al suo compagno.

    — «Ebbene — rispose Haley, dopo essere amendue rimasti per qualche tempo in silenzio — che ne conchiudete?»

    — «Ci penserò, ne parlerò a mia moglie — rispose Shelby; — intanto se volete, Haley, che l’affare proceda tranquillamente, badate bene che nulla ne traspiri nel vicinato. Vi assicuro che se i miei negri venissero a spillarne qualche cosa, metterebbero sossopra la casa, nè sarebbe facil cosa l’acquetarli.»

    — «Oh tacerò sicuramente; ma, debbo ripeterlo, ho fretta: m’importa quante prima conoscere la vostra determinazione» soggiunse Haley, levandosi da sedere e indossando il pastrano.

    — «Bene, tornate stassera, dalle ore sei alle sette, e avrete la mia risposta» disse Shelby, mentre il mercante, fatto un leggiero inchino, uscìa dalla sala.»

    «Mi sentìa tentato a gittarlo giù dalla scala — pensò Shelby, tra sè stesso, non sì tosto vide chiusa la porta — per quella sua impudente sicurezza; pur troppo si accorge che ha il sopravento. Se taluno mi avesse mai detto che verrebbe giorno in cui dovrei vendere Tom a que’ tristi mercanti di negri, avrei risposto: il mio servo è forse un cane per disfarmene in cotal modo? E quel giorno è sopragiunto…. anche per il figlio di Elisa! Ben veggo che mia moglie vi si opporrà e per Tom e per questo; e tutto ciò per essere indebitato. Il mercante si accorge che ha il sopravento, e se ne vale.»

    Giova forse notare perchè il sistema della schiavitù si mostri più mite nello stato del Kentucky che altrove. Siccome la coltura dei campi procede gradatamente, non sopragiungono que’ periodi di attività industriale, che impongono al povero negro, nei paesi più meridionali, una fatica troppo ardua ed assidua; e i padroni contenti ad un discreto guadagno, son meno esposti a quelle avare tentazioni che signoreggiano la nostra debole natura umana, sempre quando la prospettiva di un subito e rilevante guadagno non ha, nella bilancia del giusto e dell’onesto, miglior contrappeso che le ragioni d’una povera e derelitta creatura.

    Chi percorre alcune tenute nel Kentucky e vede la gioviale benevolenza di non pochi padroni e padrone, l’affettuosa devozione di non pochi schiavi potrebbe lasciarsi allucinare dalla poetica leggenda d’un governo patriarcale. Ma a questa ridente scena soprasta sempre un’ombra funerea, l’ombra della legge. Finchè la legge si ostinerà a riguardare questi esseri dotati di mente e cuore non più di una cosa che appartiene ad un padrone finchè un rovescio di fortuna, l’imprudenza o la morte di un buon padrone possono, da un giorno all’altro, gittar di subito nella miseria, nella disperazione quello schiavo che vivea pocanzi sicuro, tranquillo sotto la protezione d’un proprietario benevolo, non si riuscirà mai a combinar nulla di buono nella amministrazione, anche meglio ordinata, della schiavitù.

    Il signor Shelby era uomo d’ottimo cuore, inclinato, quanto altri mai all’indulgenza verso coloro che lo circondavano, sollecito di quanto potea giovare alla salute de’ suoi negri. Ma si era gittato, spensieratamente, in grandi speculazioni commerciali; e i biglietti di banca, da lui firmati per una gran somma, erano caduti nelle mani di Haley. Questo cenno darà la chiave della conversazione cui pocanzi assistemmo.

    Elisa, nell’avvicinarsi all’uscio della sala, intese casualmente quanto basta per esser certa che quel mercante di negri facea proposta al suo padrone di vendergli qualche schiavo.

    Ben volentieri avrebbe continuato ad origliare alla porta; ma in quel punto la padrona l’avea chiamata; ed ella dovette allontanarsi.

    Le parve tuttavia aver inteso che quel mercante mettea in campo proposte per comperare il suo bimbo. Poteva ella ingannarsi? Il cuore le si agghiacciò; strinse al petto involontariamente con tanta forza il suo Arrigotto, che questi, meravigliato, la guardò in volto.

    — «Elisa, figliuola mia, che ti affanna quest’oggi?» domandò la padrona, vedendo che la giovane, nell’entrare in camera, avea rovesciato inavvertentemente il catino, il suo tavolo da lavoro, e che, quasi smemorata, le porgeva una lunga veste da notte, invece di un abito di seta che le avea ordinato togliesse dalla sua guardaroba.

    Elisa fece un atto di sorpresa — «Oh signora!» disse quindi, alzando gli occhi; e rompendo in lacrime, in singhiozzi, si abbandovò sopra una sedia.

    — «Oh signora, signora! — esclamò Elisa; — giù nella sala un mercante di schiavi parlava col padrone; li ho uditi io.»

    — «Ebbene, figliuola, mia, quando ciò fosse?»

    — «Signora, potete voi credere che il padrone sia capace di vendere il mio Arrigotto?»

    E la povera creatura ricominciò a singhiozzare più che mai disperata.

    — «Venderlo? Oh non mai, pazzarella! Sai bene che il padrone non ha che fare con que’ mercanti del Sud, nè ha intenzione di vendere alcuno de’ suoi schiavi, finchè tengono buona condotta. Perchè, buona ragazza, ti imagini che quell’uomo voglia comperare il tuo Arrigotto? Forse che tutti lo veggono co’ tuoi occhi? Orsù, sta di buon animo; acconciami i capelli, come jer l’altro, e per l’avvenire non origliare più agli usci.»

    — «Bene, signora; ma voi non dareste mai il vostro assenso a….»

    — «Sta pur sicura, figliuola mia, non acconsentirò mai. Perchè affannarti tanto per ciò? Mi vi opporrei come se si trattasse di uno de’ miei stessi figli. Ma sei troppo insuperbita di quel bimbo, Elisa mia. Se taluno fa capolino al nostro uscio, ti imagini subito che egli venga per comperarlo.»

    Elisa, rassicurata dal piglio confidente della sua padrona, procedette con somma cura e prestezza a pettinarla, sorridendo, tratto tratto, della paura che avea avuta.

    La signora Shelby era donna d’alto affare, tanto per le doti dell’intelletto, quanto per quelle del cuore. All’indole, naturalmente nobile e generosa, che è propria delle donne del Kentucky, accoppiava principii, sentimenti altamente morali e religiosi, che sapeva tradurre in atto con non meno di prudenza che di energia. Suo marito, tuttochè non professasse alcuna fede speciale, riveriva, rispettava pur sempre i principii di lei, e forse talvolta ne temea il giudizio.

    Certo è che la lasciava pienamente libera di secondare le sue benevole inclinazioni, coll’assistere, coll’istruire, col migliorare la condizione degli schiavi, senza volersene dar pensiero egli stesso. Non credeva con alcuni settarii che la soprabbondanza delle opere pie in certe persone dabbene valga a compensarne il difetto nel rimanente de’ fedeli; ma avea per certo che la carità di sua moglie avrebbe bastato per due; e si lusingava un tantino che avrebbe guadagnato il paradiso, mercè le operose virtù della moglie, virtù cui egli non pretendeva gran fatto.

    Ciò che, dopo il colloquio avuto col mercante, imbrogliava maggiormente il signor Shelby, era la necessità già preveduta di manifestare alla moglie il contratto stipulato, ovviare le istanze, superare gli ostacoli che egli, pur troppo, aveva motivo di aspettarsi.

    La signora Shelby, ignorando adatto in quali angustie si trovasse il marito, e conoscendone solamente la buona indole, era sincerissima nel combattere i sospetti di Elisa. Difatti non volle nemmen pensarvi la seconda volta, ma, occupata tuttaquanta nell’allestirsi per la visita della sera, dimenticò il tutto.

    Capo II.

    La Madre.

    Elisa era stata, fin dall’infanzia, educata, accarezzata, prediletta dalla sua padrona.

    Chi ha viaggiato nel Sud avrà talvolta osservato quel fare accorto, gentile, la soavità nel parlare che sembrano un privilegio quasi esclusivo delle donne mulatte e delle meticce. Questa grazia naturale si accoppia spesso alle più abbagliante bellezza, e quasi sempre a un esteriore gradevole, interessante. Elisa, quale la descrivemmo, non è un ritratto fantastico, ma quale ci ricordiamo averla più volte incontrata, or fa qualche anno, nel Kentucky. Sotto l’amorosa vigilanza della sua padrona, si era fatta adulta, senza trovarsi esposta mai a quelle tentazioni che rendono talvolta la bellezza sì funesto retaggio in una schiava. Elisa aveva sposato un mulatto giovane, bello di forme e d’ingegno, per nome Giorgio Harris, che era schiavo in un podere vicino.

    Questo giovane era stato dato a nolo dal padrone a un fabbricante di sacchi, nella cui officina avea ben presto acquistato fama di primo operajo, sì per attitudine, sì per diligenza. Avea egli inventata una macchina da purgar la canapa; macchina che, avuto riguardo all’educazione e alle circostanze dell’inventore, ben dimostrava quanto fosse il suo genio per la meccanica ¹ .

    Bello della persona, cortese nei modi, aveva saputo cattivarsi ben presto la simpatia generale in quell’opificio. Tuttavia, siccome dinanzi alla legge non era uomo, ma cosa, le eminenti sue qualità andaron soggette al sindacato di un padrone volgare, ignorante e crudele. Questi, avendo inteso a parlare della macchina inventata da Giorgio, cavalcò subito verso la fabbrica, per vedere ciò che avesse saputo far di bello l’intelligente sua proprietà; e fu accolto con entusiasmo dal direttore, che prese a congratularsi seco lui dello schiavo così raro che possedeva.

    Giorgio, che accompagnava il padrone, gli spiegò i congegni della macchina, parlò colla coscienza del proprio merito, così sciolto e sicuro, mostrò un contegno così virile, franco, così dignitoso, che il padrone fu soprafatto dal sentimento della sua interiorità. Conveniva forse al suo schiavo l’andare in su e in giù pel paese, inventar macchine, tener sì alta la fronte in mezzo ai bianchi? Era uno scandalo cui bisognava por termine, conducendo via l’audace, condannandolo a vangar la terra, per fargli abbassar l’orgoglio. Il direttore dell’officina e tutti gli operai rimasero altamente sorpresi, quando il padrone chiese saldare il conto di Giorgio, ed annunziò il suo fermo proponimento di ricondurlo a casa.

    — «Ma, signor Enrico — osservò il fabbricante — la vostra risoluzione non è forse un po’ troppo repentina?»

    — «E che perciò? quest’uomo non è forse mio?»

    — «Saremmo disposti, signore, ad accrescere il salario.»

    — «Non me ne importa. Non ho bisogno di dare a nolo i miei schiavi, se non mi piace.»

    — «Ma egli, signore, sembra adatto specialmente a questo genere di lavori.»

    — «Può ben essere; ma egli non fu mai adatto ad alcun mestiere quanto a quello cui lo destino.»

    — «Ma riflettete solamente — interruppe in mal tempo uno degli operai — che egli ha inventato questa macchina.»

    — «Oh sì, una macchina per risparmiar fatica, non è vero? un negro è capacissimo di inventarla; non è egli stesso una macchina che lavora? ho risoluto che venga meco.»

    Giorgio, nell’udir pronunciata questa sentenza da una autorità che ben sapea irresistibile, era rimasto come annientato. Incrociò le braccia, si morse le labbra; ma un vulcano di ardenti affetti gli bolliva in petto e parea gli diffondesse di vena in vena torrenti di fuoco. Respirava a stento; i suoi grandi occhi neri scintillavano; e avrebbe scoppiato in qualche impeto pericoloso, se il fabbricante, toccandogli affettuosamente il braccio, non gli avesse detto a voce bassa:

    «Cedete, Giorgio; per il momento andate con lui; vedrem modo di richiamarvi.»

    Il tirannello si accorse di questa segreta intelligenza, e ne argomentò l’importanza, sebbene non fosse riuscito ad intendere ciò che aveano detto. Quindi fermò più che mai seco stesso di mantenere i diritti che possedeva sulla sua vittima.

    Giorgio fu ricondotto a casa e condannato alle più basse fatiche della campagna. Seppe tuttavia reprimersi; ma la cupa espressione della sua fisonomia, i suoi lineamenti contratti, i suoi sguardi corrucciati rivelarono chiaramente ciò che egli sentivano ben dimostravano che quest’uomo non si sarebbe rassegnato mai a divenire una cosa.

    Nel tempo ben fortunato trascorso alla fabbrica, Giorgio ebbe modo di vedere e sposare Elisa. Siccome possedea intera la confidenza del suo padrone, andava e veniva a talento. Questo matrimonio era stato compiutamente approvato dalla signora Shelby, la quale, oltre quel ticchio un po’ femminino di far matrimonii, avea veduto con piacere la prediletta sua schiava impalmata ad un uomo della sua condizione che parevale convenisse per ogni riguardo. La cerimonia nuziale fu celebrata nella gran sala di lei, ed ella stessa intrecciò la corona di fior d’arancio, acconciò il velo sul bel capo della fidanzata; nulla mancò alla festa; nè i vini squisiti, nè i confetti, nè i guanti bianchi di molti invitati, i quali non eran mai sazii di ammirare la bellezza della sposa, e l’indole buona e generosa della padrona. Per uno o due anni, Elisa vedea spesso suo marito, nè fu turbata la sua felicità se non dalla perdita di due bambini che essa passionatamente amava; e pianse con sì profondo cordoglio, che la padrona, dopo aver tentato con sollecitudine tutta materna di temperare colla ragione e colla religione quella natura di fuoco, credette doverlene fare affettuoso rimprovero.

    Tuttavia, dopo la nascita di Arrigotto, Elisa si tranquillò a poco a poco e si ricompose; sentì riannodarsi alla vita per amore di quella dolce creaturina, rimarginarsi le ferite del suo cuore, e visse felice sino al giorno in cui suo marito venne strappato dall’officina del benevolo fabbricante e ricondotto sotto il giogo del suo proprietario legale.

    Il direttore della fabbrica, fedele alla sua parola, si recò a visitare il signor Enrico una o due settimane dopo che Giorgio ne era partito, nella speranza che il mal umore del padrone sarebbe passato, e si studiò a tutt’uomo di persuaderlo acciò lo ridonasse alla sue antiche occupazioni.

    — «Non mi molestate più a lungo co’ vostri ragionamenti — rispose Enrico indispettito; — so ben io ciò che debbo fare.»

    — «Non intendo immischiarmene, signore; credea solamente che, ponderata bene ogni cosa, vi tornasse conto cederci quello schiavo alle condizioni che vi proponiamo.»

    — «Ah capisco benissimo; m’accorsi di ciò che andavate bisbigliando tra voi, mentre stava per ricondurlo alla fabbrica; ma non la spunterete. Questo è paese libero; quell’uomo è mio, ed io posso farne ciò che meglio mi aggrada; la è così.»

    E l’ultima speranza del povero Giorgio andò in fumo; nulla dinanzi a lui, tranne una vita di dolori, di stenti, vita amareggiata continuamente dalle meschine vessazioni che una tirannide ingegnosa e codarda può mai inventare.

    Un giureconsulto, uomo di cuore, ebbe a dire: «Il peggior trattamento che potete fare a un vostro simile, è quello di impiccarlo.» No; gli si può fare qualche cosa di peggio !

    Capo III.

    Il marito e il padre.

    La signora Shelby era uscita per la sua visita; ed Elisa, ritta in piedi sulla veranda, seguia collo sguardo la vettura che si allontanava, quando una mano amica venne a posarsele sopra la spalla. Ella si volse, e i suoi belli occhi lampeggiarono di un dolce sorriso.

    — «Sei tu, Giorgio? mi hai fatto paura. Quanto godo di rivederti! La signora è uscita, nè tornerà a casa per il resto del dopopranzo; vieni nella mia cameretta; avremo tempo di conversare a bell’agio.

    E lo condusse, così dicendo, in una stanza che metteva sulla verenda, e dove ella solea lavorare, a portata di udir la voce della padrona se mai la chiamasse.

    — «Quanto sono felice! Ma perchè non sorridi? Guarda il nostro Arrigotto come è cresciuto!» Il fanciullo, tenendosi stretto al lembo delle vesti di lei, sogguardava furtivamente il padre, traverso le folte anella dei suoi capelli. — «Non è forse bello» riprese Elisa, rimovendogli dalla fronte la ricca capigliatura e baciandolo.

    — «Vorrei che non fosse nato mai! — esclamò Giorgio con amarezza; — io stesso non vorrei esser mai nato!»

    Elisa, attonita e spaventata, si abbandonò su d’una sedia, e piegando il capo sulla spalla del marito, ruppe in lagrime.

    — «Elisa, mia dolce Elisa; ho pur gran torto di affliggerti in questa guisa» riprese egli teneramente. — «Ah vorrei che tu non mi avessi mai conosciuto! saresti stata più fortunata!»

    — «Giorgio, Giorgio! Come puoi dir queste cose? Che ti avvenne di sì orribile, o che ci minaccia? Non siamo stati felicissimi sino a quest’oggi?»

    — «Lo fummo, cara mia» rispose Giorgio; togliendosi quindi il fanciullo sulle ginocchia, prese a guardarlo fiso nei suoi grandi occhi neri e a passargli dolcemente la mano tra le ciocche dei capelli.

    — «È il tuo ritratto, Elisa mia; tu sei la più bella donna che mi venne veduta mai, la migliore che io mi abbia potuto augurar mai; eppure bramerei di non averti veduta mai, e che tu non avessi veduto me!»

    — «Oh Giorgio, e hai cuore di dir queste cose?»

    — «Sì, Elisa; tutto è miseria, miseria, miseria! la mia esistenza è amara come assenzio; mi consumo internamente; sono un poveretto, un derelitto; non posso trarti a parte che della mia umiliazione. A che tentare di far qualche cosa, di saper qualche cosa, diventar qualche cosa? Che far della vita? vorrei esser morto!»

    — «Oh è crudele veramente, mio caro Giorgio! so quanto ti increbbe lasciar l’impiego che avevi in quella fabbrica, e quanto sia duro il tuo padrone; ma ti prego di aver pazienza, e forse….»

    — «Pazienza! — esclamò il giovane, interrompendola; — non l’ebbi io forse? mi sfuggì forse una parola, quando egli, senza averne ragione al mondo, venne a togliermi da un luogo dove tutti mi amavano? non gli resi forse conto di ogni minimo mio guadagno? e tutti concordavano in dire che io era un buon operaio.»

    — «È cosa dura, — riprese Elisa; — ma insomma, come sai, è tuo padrone.»

    — «Mio padrone! e chi lo fece mai tale? Ecco ciò che vado mulinando continuamente; che diritto ha egli sopra di me? sono un uomo al pari di lui; mi intendo d’affari meglio di lui; sono capace di governare una fattoria meglio di lui; so leggere, scrivere meglio di lui; imparai tutto da per me; non gli debbo grazie di nulla. Anzi ho imparato a suo dispetto; ed ora che diritto ha egli di farmi suo giumento; di strapparmi ad una occupazione che conosco ben addentro, per condannarmi a fatiche che un cavallo potrebbe fare egualmente? E pur lo pretende, e dice aperto, che, appunto a questo proposito, si compiace aggravarmi, umiliarmi coi lavori più aspri, più degradanti.»

    — «Giorgio, Giorgio, tu mi spaventi; non ti intesi parlar mai a questo modo! Temo che ti lasci trascorrere a qualche funesto eccesso; comprendo i tuoi sentimenti…. tutto! ma, per pietà, sii prudente, per amore di me e del nostro Arrigotto!»

    — «Fui prudente e paziente; ma il male si aggrava al punto che uomo non può più oltre sopportarlo. Coglie ogni occasione per insultarmi, per tormentarmi; sperava che, portato a buon termine il mio lavoro, mi sarebbe rimasto un po’ di tempo per riposarmi, per leggere ed imparare; ma egli più vide che posso fare, e più mi opprime di lavoro. Dice che, sebbene io mi taccia, si accorge che ho il diavolo in corpo, che vuol cacciarmelo ad ogni costo; ebbene, uno di questi giorni, il diavolo se ne andrà, ma, se non erro, in modo tale, che non sarà di suo piacimento.»

    — «Oh caro! e che faremo noi?» esclamò Elisa dolorosamente.

    — «Non più tardi di ieri, — ricominciò Giorgio, — mentre stava caricando di pietre un carretto, il padroncino Tom facea sibilar lo scudiscio così forte all’orecchio del mio cavallo, che questi cominciò ad impaurirsene. Col miglior garbo che mi fu possibile, lo pregai di cessare; ma egli proseguì, senza badarmi. Lo pregai nuovamente; ed allora, voltosi a me, prese a flagellarmi; io gli rattenni la mano; egli si mise a gridare, si svincolò dal mio braccio, corse da suo padre e gli disse che io lo avea battuto. Suo padre sopragiunse pieno di collera, e mi disse che mi avrebbe insegnato a conoscere chi era il mio padrone. Mi legò ad un albero, tagliò verghette che porse al figliuolo, consigliandolo a flagellarmi finchè la lena gli reggesse; ciò egli fece; ma verrà giorno in cui potrò ricordarglielo.»

    La fronte del giovane si ottenebrò: i suoi sguardi lampeggiarono con tale un’espressione, che sua moglie ne tremò tutta.

    — «Chi lo fece mio padrone, quest’uomo? — soggiunse egli, — ecco ciò che mi importa sapere.»

    — «Credei sempre — riprese Elisa con voce accorata — che debbo ubbidire al mio padrone, alla mia padrona; altrimenti non sarei cristiana.»

    — «Nel tuo caso, ben parli. Ti hanno allevata come loro figliuola, ti hanno ben nutrita e vestita, ti furon sempre benevoli, ti hanno data una buona educazione, posson dunque riclamare qualche diritto sopra di te. Ma io fui battuto, oltraggiato, o, per lo meno, lasciato affatto in abbandono. Che gli debbo io? gli pagai mille volte il mio mantenimento: no, non voglio più a lungo tollerar questo stato; nol voglio assolutamente» esclamò stringendo il pugno ed aggrottando le ciglia.

    Elisa tremò e tacque; quell’indole affettuosa parea piegasse come giuoco sotto l’impeto d’una violenta bufera.

    — «Ti ricordi — riprese Giorgio — del cagnolino che mi avevi regalato? quella povera creatura era l’unica consolazione che mi aveva; di notte si coricava presso di me, di giorno mi seguia dappertutto, e mi sogguardava con tale un’espressione che parea comprendesse ciò che io soffriva. Ebbene jer l’altro, mentre io le dava da mangiare un qualche misero rimasuglio che avea raccolto all’uscio della cucina, il padrone sopraggiunse, mi disse che io manteneva quel cane a sue spese; non poter tollerare che un suo negro tenga un cane; mi ingiunse di afferrarlo, legargli una pietra al collo, gittarlo in una pozzanghera.»

    — «Ah, Giorgio non l’ha fatto!»

    — «Non io, ma ben egli. Il padrone e Tom suo figliuolo ammazzarono a colpi di pietra la povera bestia mentre affogava. Povero cane! mi guardava tra l’accorato e l’attonito perchè io non gli corressi in aita. Fui battuto, perchè non volli ubbidire. Ma poco mi importa; il padrone dovrà persuadersi che io non sono tale da piegare sotto il frustino; e, se non vi bada, verrà il mio giorno!»

    — «Giorgio, che vuoi fare? Non commettere cattive azioni. Se operi rettamente, se hai fiducia in Dio, Dio saprà liberarti….»

    — «Non sono cristiano come tu, Elisa; il mio cuore è gonfio di amarezza; non posso confidare in Dio, perchè lascia che succedano di tali cose.»

    — «Oh Giorgio, bisogna aver fede! La padrona suol dirmi che quando tutto ci va alla peggio, dobbiam credere che Dio il permetta pel nostro meglio.»

    — «Torna facile il dirlo a persone che si adagiano sopra sofà e vanno a diporto nelle loro vetture; ma si mettano un pochino al mio posto, e scommetto che parleranno ben altrimenti. Vorrei esser buono, ma il mio cuore arde e non può perdonare. Tu stessa nol potresti a mio posto, specialmente se tu sapessi ciò che ho a dirti. Ma finora non sai tutto.»

    — «Che può dunque sopraggiungermi?»

    — «Ebbene, il padrone ebbe poc’anzi a dirmi che io era stato uno sciocco a lasciarmi ammogliare fuori di lì; che egli detestava i Shelby e tutta la lor gente perchè sono alteri, sfoggiano un’aria di superiorità intollerabile, e che io aveva imparato l’alterigia da te; soggiunse non mi lascerebbe mai più in questa casa, e mi costringerebbe a sposare altra donna e stabilirmi colà. Dapprima non borbottava queste cose che tra i denti; ma ieri mi ingiunse di sposare Mina, di stabilirmi seco lei in una capanna, o che altrimenti mi avrebbe venduto pel basso del fiume ² .»

    — «Ma tu hai sposato me, al cospetto di un ministro — disse Elisa ingenuamente — come se tu fossi un bianco.»

    — «Ignori forse che uno schiavo non può ammogliarsi? La legge vi si oppone; e se al padrone viene in capo di separarci, tu non sei più oltre mia moglie. Ecco perchè vorrei non averti veduta mai, non esser mai nato; sarebbe stato meglio per amendue, sarebbe stato meglio per questo povero figliuol nostro se non fosse nato mai! la sorte stessa può toccare anche a lui.»

    — «Oh, ma il padrone è così buono!»

    — «Sì, ma chi sa? può morire; e quindi il nostro bimbo andar venduto al primo avventore. Possiam noi compiacerci che egli sia bello, vispo, grazioso? Elisa, te lo predico, per ogni vezzo del tuo bambino, una spada trafiggerà l’anima tua; sarà troppo prezioso perchè tu possa conservartelo.»

    Queste parole piombarono qual peso enorme sul cuore di Elisa; vide passarsi innanzi lo spettro di un mercante di schiavi, e quasi fosse côlta da colpo mortale, si scolorò, le venne meno il respiro. Quasi convulsa gittò uno sguardo sulla verenda, ove il figliuoletto, annoiato di quella grave conversazione, si era poco a poco ritirato, e cavalcava su e giù trionfalmente il bastone del signor Shelby. Già stava per comunicare al marito i proprii timori, ma se ne astenne.

    No, no — pensò fra sè stessa — ha già troppo a soffrire, quel poveretto; non gli dirò nulla; e d’altronde la padrona non mi inganna sicuramente.

    — «Ora, Elisa, anima mia — disse il marito melanconicamente — ricevi il mio addio, perchè me ne vado.»

    — «Te ne vai, Giorgio, e dove?»

    — «Al Canada — rispose egli, facendo forza sopra sè stesso; — e di là vedrò modo di riscattarti; ecco ciò che ci resta ancora a sperare; tu hai un buon padrone, il quale non ricuserà di venderti; comprerò te e il nostro figliuoletto; così spero, coll’aiuto di Dio!»

    — «Misera me, se tu fossi preso!»

    — «Non sarò preso, Elisa; morrò piuttosto! libertà o morte!»

    — «Non ti ucciderai!»

    — «Non sarà necessario; mi uccideranno essi; vivo non potranno condurmi mai all’ingiù del fiume.»

    — «Oh Giorgio, sii prudente, per amor mio! Non commettere cattive azioni; non per mano violenta nè sopra te, nè sopra chicchessia; ben so che la tentazione è terribile; ma poichè dobbiamo separarci, va pure; sii guardingo, prudente, e prega Dio che ti aiuti!»

    — «Ebbene, ascolta Elisa, ciò che ho divisato. Venne in capo al padrone di inviarmi per una commissione a casa del signor Symmes, che abita distante un miglio da qui. Certo, egli suppone che io venga a narrarti tutte le mie angosce, e già gode in pensare che, per tal modo, può mettere di mal umore i Shelby, come egli usa chiamarli. Tornerò alla fattoria, tutto rassegnato, comprendi bene, quasi che nulla fosse avvenuto; i miei preparativi son fatti; e vi sono amici che potranno aiutarmi. Tra una settimana, o poco più, sarò nel numero degli assenti. Prega per me, Elisa, e forse Dio vorrà esaudire te!»

    — «Pregalo tu pure, o Giorgio; confida in lui, e non farai cosa di cui abbia a rimproverarti.»

    — «Addio dunque» soggiunse Giorgio, prendendo per mano Elisa e affissandola immobilmente negli occhi. Stettero amendue silenziosi; erano le parole estreme, le estreme lacrime, amplessi come di persone che non isperano mai più rivedersi; e i due coniugi si separarono.

    Capo IV.

    Una sera nella capanna dello zio Tom.

    La capanna dello zio Tom era un piccolo edifizio, formato di tronchi di alberi, annesso alla casa, come il nero suole indicare signorilmente l’abitazione del suo padrone. Le si apria innanzi un giardino, ove, durante l’estate, crescono in abbondanza, mercè diligente coltura, diverse famiglie di legumi e di frutti. La facciata si rivestìa tutta quanta di una bignonia porporina, di un rosaio lussureggiante di fiori, i quali, intrecciandosi graziosamente, riusciano a mascherare la nuda asprezza della costruzione. Gigli, petronie, margherite reali ed altre generazioni di fiori avean ivi trovato un luogo acconcio per isfoggiarvi la loro bellezza, ed eran tutto l’orgoglio, la delizia della zia Cloe.

    Adesso entriamo in casa. Il pranzo de’ padroni era allestito; e la zia Cloe, che avea la soprintendenza della cucina, avea commesso a’ suoi ufficiali subalterni di pulire, lavar le stoviglie, assestare ogni cosa, per correre ad acconciare un po’ di cena al suo vecchiotto. Eccola dunque, innanzi al fuoco, tutta occupata a diverse fritture, a sollevar tratto tratto, con aria di profondo raccoglimento, il coperchio delle casserole, donde emanava un odore che annunziava senza fallo qualche cosa di prelibato. La faccia di lei, nera, paffuta, avea una tale lucentezza, che avresti potuto credere la fosse stata nettata con bianco d’uova, non altrimenti che una delle sue casserole. La fisonomia della buona Cloe, sormontata da un gran turbante screziato, raggiava di quell’interna soddisfazione, e, dobbiamo pur dire, alcun poco di quella alterezza, che ben si conviene ad una donna che venìa creduta, decantata come la miglior cuciniera del vicinato. Ella sentìa ben addentro, nel midollo dell’ossa e nell’anima, la dignità della sua professione; i polli, i gallinacei, le anitre del cortile aveano la tremarella nel vedersela avvicinare, e parea certo riflettessero sulla imminente lor fine, poichè ella dì e notte fantasticava come meglio schidionarli, acconciarli, arrostirli; e tale era l’espressione del suo volto, che facea paura a tutti i volatili. Oltreciò, i suoi intingoli, le sue salse, che sarebbe troppo lungo l’enumerare, erano una specie di sublime mistero per coloro che vi eran meno iniziati; e vi sarebbe stato ben di che ridere l’udirla a raccontare, non senza un secreto orgoglio, come le sue rivali inutilmente si affaticassero per raggiungerne la perfezione.

    L’arrivo di forestieri in casa, il modo di allestire il pranzo, la cena con etichetta, risvegliavano tutte le potenze dell’anima sua, e nulla tanto desiderava vedere quanto un mucchio di bagagli scaricati sotto la veranda; perchè ella prevedeva nuove prove e nuovi trionfi.

    La zia Cloe stava sorvegliando appunto allora il suo forno di campagna; e noi la lasceremo in queste sue geniali occupazioni per finir di descrivere la capanna di Tom.

    In un angolo della camera stava un letto con sovr’esso una copertina non meno bianca della neve, e stendeasi, all’un de’ lati, un pezzo di tappeto, di una tal quale dimensione, ove la zia Cloe, sbrigate le faccende di casa, solea riposarsi. Questo angolo venìa tenuto in particolare riguardo e quasi luogo sacro, illeso, per quanto era possibile, dalle invasioni degli indiscreti ragazzi. Nell’altro angolo stava un secondo letto, di apparenza più modesto, che ben vedeasi destinato agli usi ordinarii della vita. La parete, sopra il camino, era adorna di stampe brillantissime, argomenti tratti dalla Bibbia, e d’un ritratto del generale Washington, delineato e dipinto in modo che l’eroe americano ne avrebbe fatto le meraviglie, se per avventura avesse potuto vederlo.

    Sopra una rozza panca appartata, due garzoni dagli occhi neri, dalle guancia paffute, dalla testa lanosa, stavano sorvegliando i primi passi di una loro sorellina, la quale, come accade mai sempre, tentava alzare il piede, tentennava alcun poco e quindi cadea per terra; e ad ogni caduta que’ ragazzi soleano applaudire schiamazzando come ad una prova di ammirabil destrezza.

    Dinanzi al fuoco stava una tavola, le cui gambe zoppicavano alcun poco, direi quasi per reumatismo, coperta di una tovaglia, con isfoggio di piattelli e di tazze ed altre simili bagatelle che annunziavano vicina la cena. Qui siedeva lo zio Tom, l’uomo fidato di Shelby, uomo di cui dobbiamo presentare ai nostri lettori il dagherotipo, perchè protagonista della nostra storia. Alto, robusto della persona, largo di petto, presentava nei lineamenti del volto il vero tipo africano, improntato d’una tal quale gravità, assennatezza, benevolenza che ne costituivano il carattere. Vi trapelava eziandio il sentimento della dignità propria, ispirato dalla coscienza di se medesimo, ma temperato da una schiettezza umile e fidente.

    ln quel momento stava tutto raccolto a delineare su d’una lavagna, che tenea in mano, alcune lettere dell’alfabeto, ricopiandolo da un esemplare che gli avea dato il piccolo Giorgio, figlio di Shelby, garzone di tredici anni, che parea sentisse in quell’ufficio tutta l’importanza di precettore.

    — «Non va così, non va così — disse il giovane, mentre Tom con gran fatica conducea a rovescio la gamba di un g; — non vi accorgete che ne fate un q?» E dato di piglio alla matita, si facea a descrivere, con facilità mirabile, un gran numero di g e di q. Tom, dopo aver guardato con un misto di rispetto e di ammirazione, ripigliava la matita tra le sue dita inesperte, e pazientemente ricominciava.

    — «Oh! i bianchi san pur far queste cose con precisione! — esclamò la zia Cloe, sollevando la forchetta con un pezzo di lardo infilzato e guardando con orgoglio il suo padroncino. — Con che prestezza sa leggere e scrivere! E pensare che viene tra noi ogni sera a ripeterci le sue lezioni… è cosa ben importante!»

    — «Ma, zia Cloe, muoio di fame — disse Giorgio; — quella vostra stiacciata, nel forno, non è ancora cotta?»

    — «A momenti, Giorgio mio padroncino, — riprese la zia Cloe, sollevando il coperchio dalla tegghia e badandovi attentamente; — prende un color bruno magnifico! Lasciate che vi attenda io sola! Ier l’altro la signora Sally volle provarsi a farne una solamente per imparare, diceva ella. Oh, signora, andate via! le diss’io; mi rivoltava fin dalle viscere veder gittata alla malora sì buona roba! La stiacciata si gonfiava tutta da una parte e non avea miglior forma che la mia scarpa. Eh, andate via!»

    E con questa finale espressione di spregio per l’ignoranza di Sally, la zia Cloe sollevò

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