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Io, l’infedele
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E-book120 pagine1 ora

Io, l’infedele

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Info su questo ebook

Carole è nata a Beirut, in Libano, molti e molti anni fa. Sua madre le ripeteva spesso che aveva avuto troppa fretta di venire al mondo, perché non le aveva nemmeno dato il tempo di arrivare in ospedale. Era forse la fretta che aveva provato lei stessa, ebrea siriana, quando era stata costretta a fuggire da Aleppo con la bambina in pancia. Era appena scoppiata la guerra in Medio Oriente con la dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele. La famiglia si rifugiò in Libano e poi in Italia.

In questo romanzo, Carole, ormai canuta, si siede alla sua scrivania milanese. Si rivolge ai genitori da molto tempo scomparsi. Racconta ciò che non ha potuto dire loro mentre erano in vita: quanto ha sofferto, quanto ha lottato, quanto ha gioito.

Dalle roventi cucine dei ristoranti del vecchio porto di Giaffa, alle sale riunioni di aziende multinazionali di Parigi, Londra e New York, Claudine Chayo ha vissuto molte vite nel suo cammino esistenziale. Tanti diversi ruoli, molteplici identità e appartenenze culturali. Oriente e Occidente nelle sue radici ebraiche medio-orientali.

Claudine Chayo ha scritto un libro di racconti, Sguardi. Ha scritto e interpretato due monologhi teatrali: C’era una volta o forse no e Marlene D. Memorie di una diva.
Io, l’infedele è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2023
ISBN9788830689718
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    Io, l’infedele - Claudine Chayo

    ChayoLQ.jpg

    Claudine Chayo

    Io, l’infedele

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-8576-5

    I edizione novembre 2023

    Finito di stampare nel mese di novembre 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Io, l’infedele

    A mio figlio e a suo padre

    Le anime non raccontano di se stesse, ma di ciò che su di esse ha agito; quanto apprendiamo dal loro racconto non appartiene perciò soltanto alla psicologia ma alla vita.

    Martin Buber

    Prefazione

    Cosa resta di una vita?

    Cosa ci ricordiamo della nostra storia?

    E come l’appartenenza religiosa può determinare il nostro percorso di crescita?

    Carole, la nostra protagonista, ripercorre la sua vita dall’infanzia ai giorni nostri attraverso due lunghe lettere dedicate al padre e alla madre.

    E nel raccontarla se ne riappropria tracciando una mappa interiore di liberazione e autodeterminazione.

    Le battaglie, gli amori, gli abbandoni, le delusioni e le gioie si intrecciano ad un viaggio che è reale e metaforico.

    Fa eco la ‘Storia’ in questa ‘storia’ che si legge tutta d’un fiato per mettere insieme i tasselli di questo puzzle in cui ognuno potrà identificarsi e prendere per sé il pezzo in cui più si riconosce.

    Da Aleppo a Beirut, da San Paolo a Milano, da Tel Aviv a Viareggio, Carole cerca se stessa attraverso l’appartenenza ad una cultura, quella ebraica, che stringe lacci sempre più stretti attorno a lei.

    Ma se i lacci si possono sciogliere i legami familiari restano indissolubili e con quelli Carole dovrà fare i conti per ricucire strappi e ferite e riappropriarsi di un destino che alcuni, per lei, avevano già tracciato.

    Con una scrittura incisiva e accattivante Claudine Chayo, in questo romanzo ci racconta quanto sia necessario restare fedeli a se stessi e a quello che si è nel profondo della propria anima anche a costo di allontanarsi dalle origini, a costo di ‘tradire’ un’appartenenza.

    A costo di essere ‘infedele’.

    Monica Faggiani

    Questo romanzo si basa su fatti realmente accaduti.

    Alcuni eventi sono di pura invenzione.

    Un omaggio a voi genitori.

    Che la vostra memoria sia di benedizione.

    Un tentativo di unirvi almeno dopo morti e darvi una voce che non avete avuto.

    Raccontare per ricordare.

    Per lasciarvi andare per sempre e liberare le vostre anime da qualsiasi strascico terreno.

    Se esiste il Paradiso prego perché ora possiate stare insieme, voi due. In pace finalmente.

    Questa è la mia storia, la nostra storia.

    Carole

    LETTERA A MIO PADRE

    Colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio e se ne rende degno.

    Fedor Dostoevskij

    Milano, maggio 2020

    Ti scrivo molti decenni dopo la tua dipartita, ora che ho le rughe e i capelli bianchi.

    Ho bisogno di farti sapere quanto la mia vita si sia nutrita della tua assenza.

    Ho attraversato l’oceano del tempo galleggiando come una ciambella alla deriva, sola in mezzo al mare e con un grosso buco dentro: il vuoto lasciato da te, il baratro attorno al quale ho dovuto fabbricare il mio io.

    Non sai quante volte ti ho chiamato, supplicato, evocato. Cerco di farti rivivere nella fantasia aggrappandomi a piccoli frammenti di ricordi: tu che mi accompagni il primo giorno di scuola, tenendomi per mano – Dio, come mi sentivo fiera! –, tu che mi fai salire per la prima volta sul tram, che avventura meravigliosa! Mi avevi spiegato che i posti seduti costavano il doppio di quelli in piedi ma che io meritavo di stare seduta perché ero una brava bambina. Tu che entri in salotto e mi consegni un pacchetto avvolto in una carta lucida, con un bel nastro rosso fuoco.

    Buon compleanno, piccola mia!

    Era un bellissimo orologio da bambina che mi avevi insegnato a leggere immediatamente: questa è la lancetta delle ore, questa dei minuti, questa dei secondi… Ero in piedi di fianco a te, seduto accanto al nonno, sul divano del grande salotto nella nostra casa di Beirut.

    Sei partito per il Brasile quando avevo solo cinque anni. Non ricordo niente di quel che è successo allora. Cosa è stato raccontato a me e alle mie sorelle?

    E noi, cosa siamo state in grado di chiedere?

    C’era un tale viavai di gente nella nostra grande casa, nonni, zii, cugini, personale di servizio, non stavamo mai soli, non c’era mai silenzio.

    Ma c’era una grande omertà tra gli adulti. Il tuo nome non veniva mai pronunciato, come se tu non fossi nemmeno esistito.

    Quando ne sono stata in grado, sono stata autorizzata a scriverti.

    Scrivevo per raccontarti di me, della scuola, della mamma.

    Curavo particolarmente la busta per assicurarmi che il tuo indirizzo fosse ben chiaro: scrivevo

    san paolo – brazil

    in stampatello,

    brazil

    con la

    z

    .

    Tu mi rispondevi con lettere dolcissime scritte con una splendida calligrafia, su speciale carta velina. Ti firmavi "ton père qui t’aime". Ho ritrovato l’ultima lettera, quella che hai scritto sei mesi prima di morire per infarto. Avevi quarantasette anni.

    Io avevo appena compiuto tredici anni e non ti avevo più rivisto.

    Anni fa ho recuperato dal mare dell’oblio una piccola fototessera tua in bianco e nero. L’ho fatta ingrandire e oggi fa bella mostra di sé nel mio soggiorno.

    Eri molto ‘macho’, capelli neri, lineamenti marcati da uomo orientale, labbra carnose e sensuali, sguardo assassino. Chi ti ha conosciuto dice che piacevi molto alle donne e che loro piacevano a te, troppo. Ti eri sposato a ventiquattro anni senza per questo lasciare la tua amante. Spogliavi le donne con lo sguardo e quando entravi in una stanza loro ti sentivano, alcune con eccitazione, altre con imbarazzo.

    Ti immagino, bello ed elegante nei tuoi impeccabili abiti in stoffa inglese, camicie su misura con le tue iniziali, un leggero odore di tabacco misto al profumo di muschio selvatico del tuo dopobarba.

    Ti ho cercato in tutti gli uomini che ho incontrato: mi bastava un accenno, una pelle olivastra, un tono di voce basso, una mano curata e dalla stretta energica, uno sguardo audace. A causa tua sono sempre stata attratta dai figli di puttana.

    Tu non sei stato un bravo marito.

    Tradivi la mamma per lussuria o per vendetta, fissavi spudoratamente negli occhi le altre donne e spendevi tutti i soldi che ti dava il nonno.

    Il vostro era stato un matrimonio combinato tra più colte e facoltose famiglie della comunità ebraica di Aleppo.

    Ah, che cosa era Halab, Aleppo, negli anni Quaranta! Ma soprattutto che cosa era quell’élite ebraica, colta e poliglotta, di cui facevano parte le vostre famiglie. Desidero tanto potervi pensare così come eravate, nella vostra piccola comunità, con le vostre credenze, le vostre abitudini, le vostre paure. Come era il mondo fuori? La convivenza con gli arabi musulmani? I pregiudizi dai quali dovevate difendervi in quanto Yahud, ebrei?

    Oggi, Aleppo è un cumulo di macerie, completamente distrutta da anni di bombardamenti e guerre. Il popolo siriano è in fuga, schiacciato tra le truppe del loro presidente Assad e quelle del presidente turco Erdogan. I bambini muoiono di fame e di freddo, nell’indifferenza di un pianeta impazzito, alle prese con una terrificante pandemia da coronavirus che non conosce frontiere.

    Non c’è più nessuna traccia dei luoghi che avete amato, delle bellezze di cui avete goduto. Che tristezza, che enorme perdita per tutti noi! Pensare che Halab ha avuto un grande passato: ha fatto parte dell’impero romano, poi di quello bizantino e infine di quello ottomano per ben quattro secoli, fino al crollo di quest’ultimo.

    Nel 1920 è diventata siriana sotto l’occupazione francese.

    Voi ebrei di Siria avevate accolto i francesi come liberatori, perché eravate in buona parte persone cosmopolite, aperte alla modernità e all’innovazione.

    Al contrario, la maggioranza musulmana li percepiva come una forza occidentale estranea e ostile al mondo islamico.

    La loro presenza era tollerata più o meno di buon grado, così come la vostra.

    Eravate considerati diversi, inferiori perché ‘infedeli’.

    Un cliente arabo di mio nonno gli chiese una volta ma lei che è una persona così perbene, onesta, generosa, non è un peccato che voglia continuare ad essere ebreo?. La vostra convivenza fu comunque pacifica almeno fino al 1947, quando stava per nascere lo stato di Israele.

    Nessun paragone per fortuna con quello che stavano subendo gli ebrei in Europa; voi eravate in una condizione di relativa pace e serenità.

    Ho saputo che gli ebrei poveri, praticamente la maggioranza, abitavano Haret el Yahud, il quartiere ebraico, situato nella Bahsita, la zona più popolare della città. Non era un vero e proprio ghetto, però la sera un grande portone si richiudeva sui suoi abitanti, separandoli dal resto della città. Pare che l’ufficio del nonno fosse nella Bahsita, commerciava allora in tessuti pregiati con il Giappone. Spesso

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