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Festa a balta verde
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E-book383 pagine5 ore

Festa a balta verde

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Info su questo ebook

Bruno, giovane occidentale, corre dalla sua amata Anie, cittadina dell’est, per festeggiare l’approvazione a sposarsi concessa dalle autorità. Sogna e chiede per l’occasione di porre al centro della mensa un maiale perfetto, allevato secondo la tradizione locale. Il momento di crisi di quel settore non lo spaventa e con Manele, l’uomo libero del paese, va alla ricerca dell’animale.
Dalla storia della ricerca di un maiale perfetto per festeggiare le nozze tra Anie e Bruno alla festa di paese di grandi proporzioni si dipana il carico emozionale di partecipazione che trascina ciascun paesano a spalancare la coscienza e a chiudere torti e ragioni passati. I tanti episodi positivi e negativi convergono nella stretta della comprensione reciproca fino al sopravvento del buonsenso collettivo.
Tra comicità e drammaticità, l’autore racconta con uno stile inconfondibile un posto e la sua gente. Il dipinto che ne affiora è ricco di particolari, di personaggi umani e di un paesaggio, quello intorno alle rive del Danubio, protagonista insieme agli uomini.

Marcello Silvano Marchesan ha studiato filosofia e lingue, ha seguito corsi di specializzazione in psicologia del lavoro e della comunicazione.
È stato iscritto alla Siae dal 1972 al 2003 come paroliere e compositore.
Ha lavorato come dirigente nel settore alberghiero e ha sempre svolto un ruolo attivo per promuovere iniziative culturali.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2020
ISBN9788861851597
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    Anteprima del libro

    Festa a balta verde - Marcello Silvano Marchesan

    Marcello Silvano Marchesan

    Festa a balta verde

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-6185-159-7

    I edizione elettronica agosto 2020

    a mia moglie

    Ringrazio

    la popolazione di Balta Verde per avere permesso di porre sui loro nomi racconti di ridondante immaginazione. La scelta è dipesa da una fissazione secondo cui episodi possibili in realtà diverse solo se applicati alle condizioni mentali e ambientali di quel posto avrebbero ottenuto gli aspetti descritti nel romanzo.

    Prima Parte

    Arrivo a Balta Verde

    Capitolo primo

    Gli ultimi chilometri

    Era il 1976 quando Bruno, giovanotto occidentale proveniente dall’Alta Baviera, si avviò con l’automobile a sud-ovest della Romania verso la parte bassa della regione di Mehedinţi. La destinazione all’interno del Comune di Gogoşu corrispondeva a Balta Verde, dove il Danubio aveva ampia la tenuta, regnava sovrano dilatando sul territorio le acque superflue.

    Superata la città capoluogo, Drobeta, si tenne vicino al fiume e lo tentava con la curiosità e la devozione di essergli amico, partecipe dell’instancabile velocità. Lo salutò con l’emozione derivante dall’apertura maggiore all’inizio della boscaglia che lo coronava disordinatamente e accompagnava a svoltare a destra lontano ormai dal fastidio delle rocce fino a destinarlo a incontrare successivamente la natura sullo stesso tavolo: un’immagine preclusa dai militari a chi non aveva la residenza in quel tratto.

    L’altura Starmina, titolare anche di quella boscaglia, prendeva posizione di alto percorso per alcuni chilometri, poi scendeva libera e formava una zona collinare di grande effetto visivo per i lunghi e blandi saliscendi e per i colori vivaci delle molteplici colture. Le distese dei campi caratterizzavano un movimento di armonia sconfinata legato da identica fortuna. Gli avvicinamenti altalenanti del terreno verso il cielo concedevano lo spettacolo di un’immensità ravvicinata e di una conquistabile inafferrabilità con i segreti della lontananza rapportati alla visibilità del momento chiara, avida, ingenua e creativa.

    Il mese di luglio coincideva con lo stupore delle colture, la cui esuberanza quell’anno animava sguardi e attenzioni ad accomodarsi all’interno di un privilegio. La semplice visione riempiva granai e dispense, e il buonsenso del raccolto e della spartizione permetteva fosse stornellata la frase ‘anche quest’anno c’è cibo per tutti’.

    Predominava da una parte il giallo vivo del grano e il verde chiuso dell’erba pronta per il terzo taglio, interrotti in alcune aree dal perlato delle foglie delle macchie; dall’altra i variopinti frutteti risplendenti nei frutti di rosso, di oro, di bronzo stagnato e di rame secondo la maturazione e il prodotto (mele, pere, albicocche od ortaggi a frutto o fiori di piante a tubero) alternati da zone boschive. Mentre la prima a levante si faceva orizzonte con la propria estensione crescendo e confondendosi con l’alto, a ponente accompagnava sé stessa a consumarsi lentamente verso la riva lontana del fiume. Sembrava un quadro di passione con i panorami visibili carichi di luce e di maestosità diverse, esposti il tanto da rendere la meraviglia promotrice di attitudini poetiche e di suggestioni sofferenti per non sapere trattenere i contorni a sipario personale d’incanto.

    Al momento del passaggio c’era un’intensità di serenità da respirare.

    La strada si presentava asfaltata. I centri abitati, accalcati ai lati lungo il tracciato per alcune centinaia di metri, arrivavano distaccati giusti per allentare la tenaglia del fervore che il cuore riversava sul panorama provvisorio.

    Il giovane conosceva la zona. Gli andava a piacevole sorpresa a ogni arrivo. Sebbene lo sguardo propendesse curioso verso il grande fiume per gridare come in un gioco ‘ti ho visto, cucù!’, egli manteneva la curiosità verso l’altro versante, dove il terreno nel farsi rilievo abbondava di ricami di vegetazione coltivata. Il lembo tra terra e cielo pareva un’orlatura preziosa, una cerniera dorata, ben consolidata a sostenere e trattenere le diversità tra loro.

    Bruno si era invaghito di una ragazza del posto, incontrata a suo tempo in una visita di studio sui resti del castro romano di Drobeta. La conoscenza della stessa lingua, la reciproca semplicità dei comportamenti, il continuo guardarsi e ricercarsi, con la fantasia che all’interno di ciascuno ci fosse da recuperare qualcosa di proprio, animarono frettolosamente la simpatia, l’attrazione e l’affiatamento. Non frapposero deviazioni d’interessi né sconforti o ripensamenti: si piacquero e si giovarono a meritarsi. Il tempo successivo nutrì ed esaltò la scelta fino a classificarla in un destino da compiere assieme. Si fidanzarono ben presto e attesero l’esito delle pratiche.

    La data per la definizione ufficiale, dopo alcuni rifiuti e ricorsi, fu fissata per sabato ventiquattro luglio nel capoluogo ed era il movente per il quale Bruno correva dall’amata con l’entusiasmo che sopravanzava stanchezza e ostacoli scorgendo il bello ovunque.

    Anie, la fidanzata, appena ricevuta la comunicazione, lasciò la città dove lavorava e si recò al paese di origine, Balta Verde, con la stessa animazione interna e con il bisogno di un segnale di affetto immediato da parte della madre e dei parenti. Lì avrebbe atteso il fidanzato. La madre si complimentò con lei. Esternava continue tenerezze con un ritorno d’incontenibile benessere, che mascherava più volte fingendo lavori da svolgere in più punti della casa. I parenti aggiunsero allegria e parte di quel dispiacere che costumavano provare ogniqualvolta una persona cara si allontanava per parecchio tempo da casa.

    Lei avvertì sulla pelle un disagio di colpa e di vergogna nel doversi staccare da una terra semplice e schietta, pulita e di poche pretese. Era figlia di quella gente le cui passioni, vicende e credi da sempre avevano un ricovero attento nella sua sensibilità. Promise a sé, pur accettando che la vita seguisse il corso, che mai avrebbe dimenticato o rinnegato quella realtà. Con questo spirito si prestava ad accogliere il futuro sposo.

    Bruno aveva viaggiato l’intera notte e atteso con pazienza i controlli delle dogane: tre ore in una, quattro in un’altra, altre ore nelle successive dispensando ora un pacchetto di sigarette ora un chilo di caffè, una camicia, una cassetta di musica, e cedendo nei cambi valutari due o tre marchi su dieci. L’animo batteva una buona imperterrita musica e le lungaggini non scompigliarono le sensazioni, anzi gli spigrirono la concezione del bello e dell’utile, lo istigarono a scartocciare meglio i lati poetici e provvidenziali presenti negli animi adulti.

    Che cosa avrà mai il cuore umano in condizioni di amore da giustificare e assoggettare le esteriorità fino a renderle alimento, cornice e spazio dell’ambizione e dell’agio propri? Cos’era mai il cielo, quel giovedì di primo del mese, da meritarsi il chiarore più splendente e uniforme, con il niente di un soffio sull’acqua capace di istituire il processo per un decoro di nuvola, e il tanto di apparizione della vegetazione da mostrarsi così viva nei colori e benessere? La vitalità della natura gareggiava con l’animo, ne era la proiezione e richiamava il pensiero a interpretarla da artista

    Nel tratto finale del percorso entrò, veramente entrò, dentro a una recita dove testo, scena e comparse erano talmente conosciuti e desiderati da non richiedere alcun sforzo mentale. La stanchezza, alquanto avvertita, stava sul suo volto come un trucco incipriante, cara ai grandi attori. Con la grazia di tale patina cominciò a incitare i culmi di frumento, a scuotere la pannocchia affinché brillassero autonome le spighette; motteggiare i rosolacci ormai buffi per aver perso qualche petalo, strizzare l’occhio alla maestosità del girasole, votar sospiri di gioia nell’individuazione dei fiordalisi e delle margheritine selvatiche. Questo quando girava il capo verso oriente, mentre con lo sguardo rivolto a ponente canticchiava seguendo le note spassose espresse dalle migliaia di mele e pere appese in un chilometrico pentagramma ricavato dai filari degli alberi corrispondenti.

    C’erano tratti in cui andavano in scena le macchie. Lui richiamava le robinie, i pioppi, gli ontani, i salici, le acacie a essere benevoli verso gli arbusti, quindi la fusaggine, il corniolo, il sambuco, il biancospino, cui augurava il continuo rigoglio per essere terreno di patria alle volpi, ai conigli, fagiani, quaglie, tartarughe.

    Interrogava i pozzi, quelli posti ai margini dei campi, se fossero ancora custodi di segreti come da certe storie sentite. A uno di questi, proprio l’ultimo, si fermò. Appoggiò la schiena al muretto, contrasse i muscoli del corpo e si addormentò. Quante persone passeggiarono nella sua fantasia: chi gridava, chi rideva, chi si rincorreva. C’erano baci, amori, tocchi di campane, colpi di arma, di fionde, di forche e fuochi; baruffe attorno ai perché, mani alzate per una gallina, piedi e petti feriti mossi verso le ambulanze, cavalieri violenti dai mantelli neri e dalle facce paffute; una donna che si acquietava in un anfratto del fiume; una corda imbrogliata tra i gradini interni di uno scavo similare e tanti libri di scuola laggiù tenuti a galleggiare da una maestra che intimava gli scolari a sfogliare al buio il sussidiario e a caricarsi di cultura.

    Nel miscuglio delle immagini egli si intravide con i lineamenti di sua madre tra le briglie dorate dei raggi del sole aggrovigliato dall’amata Anie.

    Riprese il viaggio e con esso la recita. All’improvviso distinse poco distante dall’asfalto gli anemoni. Non bastò declamarli quali fiori del vento né esaltarne la strategia di volgere i petali da tutti i lati per rubare maggiori attenzioni che fu assalito dall’emotività dell’ultimo istante, quella dopo la quale c’era solo la realtà della meta. Equivalse a un sussulto sbarazzino e aggressivo, carico di interrogativi: chi sei, cosa fai, dove vai, chi è Anie, sarà lei la giusta scelta, come è stato possibile tutto ciò?

    Si vestì dei panni di un cronista, esterno a sé stesso e a quel momento, e cercò in gran fretta di legittimare l’ambizione a quanto andava incontro.

    Bruno amava sé stesso, i lineamenti di giovane in distensione di sorriso. Viziava le labbra a rimanere leggermente dischiuse per rallentare il respiro e prestare un’immagine riflessiva, agile e accorta che esprimesse compiacimento. Gradiva toccarsi con una sola mano le guance per aggiungere alla sensibilità l’aspetto del cuoio e poi frizionarsi il mento: azioni che aggiunte all’innalzamento dei sopraccigli consentiva al volto l’armonia di un aspetto più lungo e slegato dalle attenzioni materne. Era un suo equilibrio di presenza cui aggiungeva lo sforzo al collo per ergerlo staccato dalle spalle con il risultato d’infliggere compostezza virile al dorso e al petto. Le mani giravano spesso sui capelli corti e lasciavano le dita agire da sregolatrici e adulatrici. L’età gli favoriva la muscolatura e l’elasticità dei movimenti che sapeva coordinare con grazia. Gli occhi si muovevano rintanati ristretti dalla pelle con un carico di luminosità penetrante. Egli indovinava in quali condizioni di comportamento sarebbe stato lodato e in quali avrebbe suscitato disinteresse o critiche. In pubblico si applicava a far apparire di sé la parte fortunata e gradevole. Fuori dalla mischia, fuori dalla visibilità positiva per forza s’inquietava e confondeva i momenti di tranquillità con l’insicurezza. L’ottimismo si adagiava sulla timidezza sbagliando spesso la scelta dei pensieri e dei sogni. Bastava tuttavia che fosse in presenza di qualcuno per riprendere lo stato del tipo bello e giudizioso. Con gli amici riusciva divertente e docile, attivo nella conversazione, dotato di umorismo, quanto insoddisfatto e indolente nella solitudine: così nel carattere, così nel lavoro, in famiglia, nel vestirsi e nell’igiene. Sua madre era l’unica a sapere giusto di lui e aveva diritto di definirlo ‘un gran signore tra la gente, un poco di buono in privato’, e lo sollecitava a cercarsi una compagna dal temperamento senza sbavature o pause volitive e capricciose.

    Anie corrispondeva all’augurio. All’interno dell’aspetto mite, gentile e sereno agiva un carattere preciso attento e controllato. Affrontava il da farsi con serietà e posatezza. Le virgole, la cadenza e i toni funzionavano appropriati, perché così lei li trasmetteva agli altri evitando le insinuazioni delle doppie intenzioni. Sarebbe parso ingenuità a volte, però apportavano correttezza, buon uso del linguaggio e rispetto della lealtà dei concetti, ché se c’era da parlar puntiglioso lo faceva direttamente con l’interessato senza alzar la voce o gongolare sulle parole o premesse. Poco furba né ci teneva esserlo, per la schiettezza dei modi e del dire si meritava la diffusione dell’espressione ‘se lo dice o vuole lei, c’è da crederci o da farlo’ e in correlazione anche ‘se lei è triste in viso avrà il cuore in lacrime’. Sul volto si distingueva in bella fattezza l’intera struttura come se i particolari degli occhi, guance, mento e orecchie fossero ricavati da uno scultore con l’intenzione mirata di trasmettere amabilità. Emergeva un insieme di simpatia pronto a cancellare la pretesa di lodare un tratto e trasmetteva la coerenza della visione. Proferire belle le ciglia o la fronte vanificava il disegno completo. Anie piaceva e basta. Se un desiderio fosse sorto di sognarla con gli occhi più chiari dei castani o i capelli più lunghi di come li portava a giusta copertura del capo sarebbe corrisposto a pretendere in lei particolari di moda che non le si confacevano; lo stesso nel vestire mai carico di accessori o di colori. Chi le diceva ‘sei bella’, era perché seguiva il suo corpo snello, proporzionato e ben portato; chi dichiarava ‘è piacevole restare con te’, era perché si lasciava sedurre dalla luce che trapelava dalla pelle e le consentiva di espandere nella mitezza del comportamento un equilibrio di serenità irrinunciabile a chi ama la vita e lo stare in compagnia. Bruno le ripeteva questo e quello e la invidiava per la bravura di mantenere la presenza intonata al momento che stava trascorrendo.

    Il giovane la conobbe in un congresso di studio su ‘dai Geti ai Romani’. Nel salone della conferenza una mattina l’aveva notata seduta una fila davanti spostata di tre sedie rispetto all’asse tra lui e l’oratore. La posizione consentì di ammirarne di continuo parte del viso e seguirne i movimenti di partecipazione. Furono questi due particolari, i lineamenti del volto e la partecipazione attenta e mai sedotta, ad attrarlo e a goderne come siparietto dell’occasione. Le piacquero i capelli limitati al capo e il collo libero definendo quanto vedeva presenza pura. A volte si spingeva in avanti per valorizzare nuovi segni di attrazione da qualche trucco o pomata. La curiosità solleticava gli occhi e ciò che vedeva si limitava a una pelle liscia, pulita, asciutta immune da sostanze estranee. In un momento che lei gli rivolse lo sguardo pieno seppe cogliere le proprietà della cortesia, della maestria e del dominio, e vi riversò un immediato sogno di partecipazione qualificando la donna matura e meritevole. Bruno si ritrovò piccolo, avido e se ne fece un problema di pretesa. Approfittò degli applausi conclusivi dell’assemblea per invitarla al bar, e il semplice ‘va bene’ lo imbarazzò a tal punto da non reggere la scena quando si sedettero per consumare una tisana. Fu lei a dirigerlo nei ragionamenti e nelle domande fino ai saluti. Se solo egli avesse mostrato più spigliata e partecipativa la conversazione, lei sarebbe stata disposta anche a rivederlo.

    L’imbarazzo si ripresentò due giorni dopo in un incontro fortuito sul viale Trajan. A perdere la voce capitò al giovanotto. Il giorno successivo si ritrovarono nelle sale del museo e rimasero affiancati per l’intero periodo. Al suono della campanella di chiusura si nascosero nel parco tra i resti del castro romano e si parlarono come avessero alle spalle mesi di frequentazione. Si salutarono su quelle rovine. Lei si lasciò baciare seguendo e memorizzando con gli occhi le manovre e l’intensità, e corrispose con la partecipazione, non con l’emozione. Quel giovane le apparve fragile e vuoto. Si promise di costruirselo a proprio gradimento, poiché ritenne un segnale di grande amore la sua insistenza nonostante lo stato di timidezza e inquietudine. Bruno s’irrobustì della mitezza di Anie e assurse il compito d’impavido difensore. Per la prima volta sentì il coraggio di essere maschio. Confidò di volerle bene e la pregò di non trascurarlo. Si erano sedotti intensamente, si desiderarono sebbene con esternazioni differenti: lui passionale e irrazionale, lei raccolta e guida affidabile.

    Ciò che non bastò in quella circostanza crebbe e si consolidò tramite la visione delle fotografie, che si fecero, e tramite la corrispondenza. Gli incontri avvenuti nei viaggi che seguirono si avvantaggiarono delle conseguenze delle attese. Sembravano destinati uno all’altra in ogni situazione si ritrovassero. Bruno partiva dalla Foresta Nera. Il tragitto restava sempre e comunque mai percorso sufficientemente, perché le visite crescevano l’innamoramento e la consapevolezza. Mai si comportarono da vacanzieri o da persone che avessero qualcosa da divertire o provocare invidia. C’era una lealtà di comportamento esemplare, riservata, posta in mezzo alla vita della gente di tutti i giorni. Visti insieme alimentava il buon parlare come stessero dentro a una vita già consolidata. Si completavano ed era lei l’agente principale, la parola d’inizio e di continuazione. Ora il sistema di facciata permetteva di unire anche i giacigli.

    Missione compiuta: il fremito, quel sussulto sbarazzino con gli interrogativi della vigliaccheria che spuntò in contrasto con quei piccoli fragili fiori divenne materia di plauso. Il telo della recita poteva scendere.

    Apparve il cartello della località. Per niente leggibile, ma bastava essere transitati una volta per ricordare lo scritto ormai corroso dalla stessa lamiera e mal sopportato dai pali sbilenchi.

    Con il superamento delle prime case esplosero prepotenti i sentimenti legati all’emozione delle novità cui sarebbe andato incontro e che già addomesticava mentalmente adattandoli ai cancelli. Si domandava se quella famiglia stesse bene, se la signora delle dieci caprette avesse trovato il farmaco giusto per la sua patologia, se Autelia soffrisse ancora per il figlio scappato di casa. Vasile sarà ancora il barista del paese e Gigel il responsabile del magazzino della cooperativa? Il barbiere Costel avrà rinnovato la dotazione delle lame da radere? Miuza avrà miele sufficiente da vendere e Manele sarà il solito pacifico incosciente amato vagabondo?

    La meta era ormai raggiunta. La macchina cambiò rumore, odore; procedeva lenta, rispettosa delle irregolarità dell’asfalto. A Bruno sembrò di trovarsi in groppa a un cavallo, di patteggiarne la cattività e di gridare ai passanti che lo riconoscevano e salutavano ‘ci sono anch’io nel vostro mondo’: giocare nella loro libertà, grande quanto praticata nelle stravaganze delle terre dell’America, esposta quanto rincorsa nei pericoli dell’Africa, difficile quanto tentato nelle terre di ghiaccio di nessuno e reale come conseguito nella tradizione dell’Europa. Da tali caratteristiche e voglie avvertì l’ambizione di calarsi a cittadino di quel posto con pari comportamenti, mentalità e dignità.

    Si aspettava che il cancello di casa non avesse cambiato colore e si aprisse senza pretendere fatiche. Per prima cosa si sarebbe tolto le scarpe, poi avrebbe abbracciato la madre, quindi, sfilata la camicia, sarebbe entrato nella stanza di Anie. Sperava di non confondere l’odore della lana dei tappeti stesi sul pavimento con la fragranza delicata, imperdibile della sua pelle amorosa.

    A mano a mano che considerava gli atteggiamenti e le frasi, s’inebetiva a conseguirli uguali. Alla terza strada a destra del percorso principale si addentrò nell’alveare delle vie interne, larghe quanto un carro pieno di fieno e marginate da recinzioni di tavole. Bisognava andare piano perché era l’ora del rientro degli animali. Oche, anatre, vacche, agnelli e capretti in ordine progressivo di ritorno dal pascolo occupavano i passaggi. Ciascun animale una volta immesso seguiva e indovinava l’entrata con discrezione e pazienza. I cani dall’interno dei recinti contribuivano con l’abbaiare ad avvisare sia i proprietari ad aprire il portone sia gli animali a riconoscere la familiarità del richiamo e del sito.

    La gente sbandierava i saluti in modo sincero e a voce chiara senza invidia e soggezione.

    La madre di Anie, la signora Magda, insisteva attenta a custodire spalancato il cancello. Bruno giunse, e lei si prestò ad aprirgli la porta della vettura e lo abbracciò. Gli trattenne la stretta fino a dischiudere asciutti gli occhi. Poi, lasciò che il mezzo avanzasse nel cortile, chiuse dietro di sé le ante del cancello accompagnandole con lo scrupolo del servitore e si adagiò paga sulla panchina posta all’esterno della proprietà. Da saggia sentinella accettò a buona ricompensa per la posizione la commozione successiva quando udì che egli fu chiamato con esuberanza a entrare in casa.

    Capitolo secondo

    A casa di Anie e il paese

    Bruno tra le braccia di Anie consumò la dispersione e gli entusiasmi delle fantasie e si fissò nella dolcezza della sua presenza. La conosceva bene per non perdersi frettolosamente in lei e la considerava tanto che la sola vicinanza confermava il risultato perfetto. Lei era materia di scena, di conquista e regolava con il semplice respiro la cessione dell’affetto. Concedeva ora il viso in suggestione ora l’affettuosità garbata ora l’estro di parole accattivanti. Il traffico dei movimenti nello spostare e svuotare le valigie dimostrava quanto si fossero attesi e quanto mature le emozioni. Era tutto un iniziare e non finire nelle parole, negli sguardi e atteggiamenti, un sistemarsi e non accomodarsi, un rovistare mai sufficiente, un intendersi in continuazione senza giungere a una convergenza di fine, che quando arrivò, tacquero.

    Più tardi s’interessarono degli altri. Bruno fu informato che il padre di Anie, signor Adrian, sarebbe arrivato il fine settimana successivo, trattenuto dai turni di lavoro in una località del nord del paese. Seppe che i vicini di casa stavano bene, a eccezione di Terenzia in difficoltà di deambulazione.

    «La zia Estela si difende bene con i farmaci dalle complicazioni del diabete e come lei una decina di persone nel quartiere. Ah, il diabete da noi com’è invadente!»

    Le notizie furono recitate in un susseguirsi necessario e indulgente. Toccò ai casi negativi a essere menzionati per primi. La signora Pia doveva riguardarsi dall’esporre al sole gli occhi perché affetta da un glaucoma, la signora Anca accusava disturbi cardiaci, Tisa camminava gobba per porre un contraltare ai dolori alla schiena. Il signor Valer si fratturò la spalla in un incidente con la moto e Simo era alle prese con un brutto male allo stomaco. A Leo cascò addosso il carro di fieno e a Ruben saltò un dito fuori dalla mano per aver usato maldestramente un coltello. La campana della chiesa aveva battuto a morto ventotto volte dall’inizio dell’anno, mentre con la melodia del buon annuncio risuonò in sedici occasioni. Le famiglie Nimic, Coshin, Dinca e Loeb, formate da soli anziani, tiravano su i nipoti, affidati loro dalla sezione dei minori, essendosi i genitori separati. Le famiglie Griu e Jucos si erano spostate nella capitale, la signorina Cehia si era ammogliata a Iancu, il direttore generale delle Segherie di Strehaia; Marinica aveva ottenuto il lasciapassare per l’America e raggiunto lo zio Bolescu fuggito negli anni della guerra. In paese si contavano un nuovo bar, un negozio di generi alimentari, e il consorzio agrario aveva inaugurato il terzo capannone.

    «Il resto è come da te conosciuto l’ultima volta».

    Bruno seguì con interesse le novità del posto e mostrò soprattutto nei casi di sofferenza una sensibilità di legame straordinaria che non provava in patria. Un giorno aveva manifestato alla signora Magda questa difformità di partecipazione ai guai degli altri. La motivò raccontando un fatto. Si era trovato incolonnato con la vettura e notava nelle persone presenti un’irritazione per l’attesa. Con il passaparola apprese che una donna e suo figlio nell’attraversare la strada furono investiti da un’auto. L’impazienza viaggiava talmente padrona che ciascuno dettava a chi gli stava davanti come uscire dall’ingorgo. Non fu fantasia se quasi tutti indicassero la soluzione nello spostare gli offesi sul marciapiede: ‘fategli una foto e spostateli a lato’, ‘oh insomma! date loro quatto soldi e sbrighiamoci liberi’.

    Magda temeva questi discorsi, impallidiva e rimproverava Bruno di non conservarli a proprio repertorio. Bruno si scusò e ammise di aver esagerato.

    Il giorno successivo Bruno si recò di buon mattino alla fontana della Piazzetta Bassa e scelse volutamente il tragitto lungo. Camminò come un abitudinario del luogo, ne aveva avvertito il richiamo e il bisogno. Non essere paragonato o giudicato per il passo e per lo sguardo gli infondeva una sensazione di disimpegno rilassante. Godeva nell’essere alla pari di chi incontrava, e i saluti rivolti e riscossi ubbidivano semplicemente al piacere d’esserci.

    Il modo migliore e corrispondente alla realtà per capire la gente consisteva nel lato pratico del buonsenso, su cui poggiavano tradizioni, regole e fiducie, con l’apporto di un’amica fantasia a farlo rientrare qualora ci fossero delle deviazioni. Si riscontrava uno stare bene generale, che comprendeva gli assetti familiari e la morale, e chi come Bruno si avvicinava di tanto in tanto cedeva facilmente ai propositi dei vari suoi sani aspetti. Valeva quanto un gioco disintossicante o una comodità onesta adattarsi alla situazione. Tuttavia il nuovo che si mostrava nei grossi centri distanziava e penalizzava la loro quotidianità. Gli abitanti lo riscontravano e qualcuno cadeva lusingato, ignorando che la cosiddetta modernità si strutturava in un fatto di meccanizzazione non di mentalità. A frequentare bene i paesani, ci si rendeva conto che le menti vantavano un’apertura morale e sociale più progredita e tollerante rispetto a chi viveva negli effetti dell’industrializzazione. Stupiva la naturalezza di esercizio di parità dei diritti tra le persone, con ciascuno autorizzato ad accedere a uffici, teatri, zone termali e chiese con i vestiti e i discorsi correnti ed essere entità di rispetto. Nella semplicità di conduzione della vita primeggiava la sicurezza di non cadere mai nella povertà dell’abbandono e della sopraffazione. I rapporti giravano schietti. Le unioni, le separazioni, i contrasti, quanto si muoveva nella società in pienezza di attribuzioni erano affrontati con il senso del destino migliore o, nel caso peggiore, con la soluzione della rassegnazione senza pervenire mai al riscatto con l’atto estremo, con la vendetta ultima né con il culto che lo alimentasse. Non approvavano l’umiliazione a vita, il processo oltre la decenza umana: in un modo o nell’altro ci s’intendeva o incaricavano gli anni ad aggiustare.

    Così si viveva a Balta Verde. Forse per questo la natura mostrava vivaci i colori. I fiori lungo le strade e in tutti i giardini vibravano gradazioni molto accese, vivide ed emanavano profumi intensi, veri. I bambini prima di coricarsi imitavano le nonne: dalla piccola indispensabile aiuola di casa annusavano qualche fiore aperto evitando di essere disturbati da fantasmi e ansie di abbandono durante la notte. Si destavano al mattino allegri e soddisfatti. Forse per questo la povertà dei mezzi non costituiva un’insufficienza. Si pensò che fosse sano e soddisfacente all’animo umano vivere anche così all’interno di un proprio vero odore.

    A Balta Verde il benessere odorava di sabbia, di corteccia degli alberi e dei legni stagionati che marcavano le proprietà, di acqua delle sei fontane sparse sul territorio, di erbe coltivate e spontanee, di paglia, terra e rami forti approntati con perizia a formare le pareti delle case. Il benessere sapeva di pelle sudata di cavallo, di lana arruffata di agnello, di piume dei tanti animali da cortile e dei caldi fumi che uscivano dai camini. A combinare di tutti un odore completo e patriottico concorrevano i rigogliosi stagni (da qui il nome del paese) e i derivanti dal grande fiume. L’aria li confondeva con i versi degli uccelli, e i residenti ricavavano dall’esercizio della respirazione sensazioni benefiche e allegre. Il respiro così composto univa gli appetiti e le situazioni per soddisfarli. I paesani apparivano in uno stato di grazia che in altre parti il progresso dei macchinari aveva allontanato senza compensarlo con uno di pari dignità.

    Capitolo terzo

    Il piano della festa

    Magda e Anie a casa discutevano di una festa da organizzare. Bisognava rendere pubblica la notizia delle nozze imminenti e naturalmente non privarsi di un banchetto bene imbandito. Concordarono per la data il ritorno del padre Adrian, ma divergevano su quali e quante persone invitare. Per Anie bastava la presenza dei parenti più stretti, mentre la madre insisteva per una cerchia più ampia che comprendesse i vicini di casa e gli amici.

    «C’è un passato fatto di gente da onorare – spiegava Magda – Ti sposerai in città fra una ventina di giorni e partirai a fine cerimonia verso la nuova destinazione. Quale consolazione dai a chi ti conosce e vuole bene?»

    Anie alzò leggermente le spalle non per indifferenza al quesito posto ma per il sospetto che troppa allegria nelle ultime settimane l’avrebbe caricata di sensazioni forti e reso difficile il distacco.

    «Non c’è alcun paesano che per quanto poco ti abbia visto – continuò la madre – si ritenga così estraneo da non sentire il bisogno di esprimere un augurio, perché, se non si è conosciuti direttamente, lo si è sempre tramite gli altri e tramite gli eventi».

    Osservò inoltre che i vicini di casa rappresentavano tutto in una vita ristretta di paese. Da loro scaturivano le migliori coccole per i bambini e i giusti incitamenti e correzioni per i ragazzi: allungavano di tanto in tanto un pane in segno di amicizia, elargivano regali e cedevano il superfluo. Solo nelle loro proprietà c’era il vanto per i piccoli di correre dietro le galline e succhiare il latte dalle mammelle delle capre. Nei momenti di sconforto e malattia a rimanere presenti capitava soprattutto a loro. Meritavano un segno di apprezzamento e il permesso di stringere il petto dei festeggiati per far sentire da dove sarebbero usciti i migliori auguri.

    La figlia provò emozione, abbracciò la madre, le diede ragione e la ringraziò. Lei non intendeva trascurare nessuno e allo stesso tempo nemmeno disturbare o costringere le persone a privarsi di qualcosa per un fatto privato. Sapeva che i compaesani in certe occasioni erano molto generosi e per le nozze mettevano a disposizione ciò che avevano di meglio in casa.

    «Non si priveranno di niente – persisté la madre – Tu sai bene quanto grande sia il ritorno di una gioia collettiva. Non facciamola mancare. Nessuno di noi è un fatto privato: forse in città, qui no. Siamo uno per l’altro, e il motivo della tua letizia, che tu lo voglia o no, appartiene a tutti. Quando frequentavi le

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