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L'ascesa di Veneranda
L'ascesa di Veneranda
L'ascesa di Veneranda
E-book259 pagine3 ore

L'ascesa di Veneranda

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Info su questo ebook

Veneranda nasce in una famiglia precaria e disunita, senza certezze e senza prospettive. Cresce affidata alle cure ed alla protezione della nonna materna come un meraviglioso fiore nel deserto, in una povera e misera provincia del Sud, appena raggiunta dai venti della modernità e convertita alle mode propinate dai nuovi mezzi di comunicazione. È presto consapevole della sua bellezza e delle sue doti attrattive per le attenzioni e i cupidi appetiti che suscita nell’ambiente scolastico e nel piccolo paese. Il primo a cercare di godere delle sue grazie è quello che lei riteneva fosse suo padre, ma Veneranda riesce a sottrarsi al tentativo di violenza per la provvidenziale entrata in scena di un compagno di scuola che nella sua vita avrà un ruolo determinante e risolutivo. La verità sulla sua origine illegittima, appresa dalla nonna, la immiserisce e l’abbatte; sente di non avere radici e nessi affettivi e attraversa un periodo di profonda crisi esistenziale dal quale, alla fine, emerge con la tenace volontà di emanciparsi dalla sua condizione, lanciandosi alla conquista della ricchezza, delle posizioni sociali e della notorietà con l’unica grande dote che la natura le ha abbondantemente fornito, la sua bellezza, e con il talento della sua abile mendacità.
LinguaItaliano
Data di uscita7 dic 2010
ISBN9788895031828
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    L'ascesa di Veneranda - Vincenzo Musarella

    Lena

    Una turpe storia

    tra Scilla e Cariddi

    romanzo

    Vincenzo Musarella

    Copyright © 2010 by Giuseppe Meligrana Editore

    ISBN 9788895031811

    www.meligranaeditore.com

    All rights riserved - Tutti i diritti riservati

    * * * * *

    I personaggi, i fatti e le località descritte in questo

    romanzo sono frutto della fantasia dell’autore.

    Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale.

    * * * * *

    Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio,

    ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di Colui al quale

    noi dobbiamo rendere conto.

    (Ebrei 4,13)

    * * * * *

    Premessa

    Una storia fatta di tante storie.

    La storia di un uomo emarginato dall’avversa parte politica, confinato nel ghetto degli esclusi, respinto dal contesto umano, privato della dignità del lavoro che, quasi mendico, trova, nel momento più squallido della sua caduta, il soccorso dell’amore, del vero amore che lo lega per tutta la vita e lo rigenera.

    La storia di una donna, di una giovane graziosa contadina che, appena sbocciata al discernimento, incontra il vero amore e lo sceglie a compagno della sua vita votandosi a lui nella buona e soprattutto nella cattiva sorte.

    La storia di un nobile che, dilapidato il suo patrimonio nell’asservimento alla sua passione per l’arte della cinematografia, finita con il fallimento totale, diviene corruttore di piacenti ragazze che sfrutta nell’ambito dell’esclusivo club per aristocratici e personaggi influenti.

    La storia di una principessa che, ereditato l’improduttivo patrimonio feudale della sua famiglia, con sapienza amministrativa e con sagace lungimiranza, riconverte ed espande, creando un dominio economico e finanziario che perderà per proteggere la compagna delle sue intime e segrete passioni.

    La storia di un giovane industriale del Nord che dirige gli stabilimenti dislocati nel profondo meridione e ritrova in un casuale incontro la donna che aveva suscitato arcane suggestioni di sublimazione sentimentale e di collimazione dell’intarsio delle loro anime.

    Le storie di tanti altri personaggi che si incrociano con la vita di Lena, povera e umile ragazza consapevole, tuttavia, di possedere la preziosità di una bellezza primitiva e selvaggia e il potere di un fascino prepotente e imperioso che userà con freddo calcolo nel tentativo di appagamento delle sue ambizioni.

    Una storia che si dispiega e si intesse nell’andirivieni tra le due sponde dello Stretto come la spola che instancabile corre da un estremo all’altro del telaio intrecciando l’ordito e formando l’armatura del tessuto. Ma quando la tela sembra ormai compiuta, si rivelano le falle abilmente occultate e, fatalmente, la trama si smaglia, si disgrega…

    L’autore

    * * * * *

    1

    Il gallo, in alto, sul trespolo, come tutte le mattine, gonfiando la vanesia vigoria del suo aitante petto, tributava con il canto il benvenuto al nuovo sole che si annunciava da dietro le colline con i fievoli riverberi dell’alba.

    Insistente e importuno, il tronfio gorgheggio irrompeva nel letargico annientamento del sonno penetrando l’indefinito diaframma tutelare dell’incoscienza, destandola dall’abissale e impalpabile abbandono e risvegliando con indolente ostilità le percezioni della sua sensorialità.

    Lena, disturbata da quello strepito ostinato, emergeva dal torpore reagendo fiaccamente ai richiami dei sensi che, a uno a uno, le ridonavano la comprensione della sua corporeità.

    Il tepore, avvolgente e amabile, delle lenzuola infondeva un languore voluttuoso alle sue belle membra suscitando il desiderio di carezze e tenerezze che si insinuassero fin nelle fibre recondite e giungessero distensive a dilatare il suo cuore contratto e irrigidito dalle apprensioni, dalle incertezze, dalle ambizioni, dall’astiosità, dalle gelosie, dai segreti inconfessabili che la facevano soffrire.

    Il primo pensiero di quel nuovo giorno la colse mentre ancora, con gli occhi chiusi, pencolava tra sogno e realtà: Troverò la strada per affrancarmi dalla miseria e dalle ristrettezze? Resteranno a lungo inappagate le ragioni del mio cuore? Incontrerò un giorno l’uomo che saprà placare le mie inquietudini? Riuscirò a realizzare le mie ambizioni?.

    L’assillo non le dava pace, si insediava nella sua mente ai primi indizi di ripresa della coscienza e, come un tarlo, non l’abbandonava per tutta la veglia giornaliera.

    Lei non demordeva, non si avviliva, anzi caricava di nuovi stimoli la sua ferrea volitività, si sosteneva nella certezza delle sue doti e della superiorità della sua classe innata.

    Anche quel mattino si confermò in quel viatico di intenti e rinsaldò la determinazione di affrontare un nuovo giorno con la fiducia di proficui eventi e di favorevoli positività che avrebbe tenacemente cercato di piegare a proprio vantaggio.

    Si stiracchiò e si contorse, poi inarcò la schiena e con uno colpo di reni sollevò il busto, scostò il copriletto mettendo a nudo le lunghe gambe; le ritrasse con naturale scioltezza e, con elegante stile, ruotando alla sua sinistra, pose i piedi in terra.

    Soltanto allora dischiuse gli occhi tumidi degli umori notturni, scostò con le affusolate dita le increspate ciocche della chioma corvina che le cadevano davanti e provò a scrutare l’oscurità della stanza.

    Quello era uno dei due locali di cui si componeva la sua casa oltre ad un piccolo vano che ospitava il water ed un lavandino e ad un ripostiglio nel quale esercitava la sua attività il padre.

    Dalle fessure degli scuri filtrava il fioco chiarore dell’alba attenuando il buio dell’ambiente che fungeva da soggiorno, cucina, pranzo e letto.

    In quel vano infatti trovavano posto una cucina a due fornelli in muratura rivestita di piastrelle in ceramica, al centro un tavolo con cinque sedie, su due lati, disposti ad elle, due lettini che, di giorno, venivano acconciati a divani e, vicino la porta che dava nell’altra camera, una credenza con in basso una specie di madia chiusa da ante e, nella parte alta, una vetrina con stoviglie, tazze e bicchieri.

    Nel secondo lettino, dormiva innocente, riversa bocconi, la sorella di alcuni anni più piccola, alla quale i genitori, rispettosi delle ataviche consuetudini, avevano dato il nome della madre materna, Lina, diminutivo di Angela, dopo che la prima figlia l’avevano chiamata Lena con il nome della madre paterna, Maddalena.

    Sprofondata nel sonno nella posizione a lei più congeniale, il viso coperto dalla lunga capigliatura che si spandeva soffice sul cuscino, Lina sembrava non respirasse.

    I primi tepori della primavera le rendevano insopportabile il peso della coltre e, a calci, la discostava scoprendosi nella quasi nudità del suo vergineo corpo appena sbocciato.

    Lena, ormai abituata alla semioscurità, si compiacque apprezzando le rotondità che avevano preso il posto delle legnose e ossute anche e dei glutei ancora spianati e amorfi appena l’inverno scorso. Sotto l’ascella già cespugliosa per la nera peluria, premuto contro il materasso debordava un seno d’un candore immacolato.

    Lena ebbe un attimo di tristezza pensando che la sua infanzia spensierata era finita ed anche per lei si proponeva inevitabile e crudele l’arduo approccio alla realtà della vita e del mondo intorno.

    Ma non sarebbe stata sola a varcare la soglia incognita, l’avrebbe accompagnata lei risparmiandole le amare delusioni e le cocenti frustrazioni che aveva sofferto lei sulla propria pelle, l’avrebbe protetta e guidata facendole attraversare indenne l’impervio e tentacolare accesso alla competizione del mondo adulto.

    Il ciarliero cinguettio degli uccelli che intessevano le loro arcane diatribe con crescente intensità la richiamò alla realtà. Era l’ora di prepararsi per tuffarsi nel vortice del nuovo giorno, nella concitazione degli interessi, degli affari, delle passioni che muovevano freneticamente il mondo.

    Si mise in piedi.

    La camicia da notte, prezioso capo del corredo di nozze materno ormai definitivamente assegnatole in dotazione, la copriva fino a metà coscia concedendo più slancio alla sua statura longilinea e atletica. A piedi nudi trasalì al contatto con il freddo del pavimento e saltellando si diresse verso il minuscolo gabinetto per dare sfogo all’urgente stimolo di urinare che i rapidi brividi avevano eccitato.

    Nel piccolo bagno non c’era bidet e tanto meno una vasca, mancava l’acqua calda corrente e, alcune volte, scarseggiava anche quella fredda. Raccolse l’acqua del rubinetto in una bacinella, l’adagiò sul bordo del water, si sedette a cavalcioni e infierì autopunendosi sul proprio sesso immergendolo e detergendolo nel gelido liquido.

    Ormai adattata al pungente effetto del freddo, risolutamente si liberò della camicia da notte e, sotto il rubinetto si lavò il viso e, accuratamente, il seno rigoglioso e sodo sussultando di delizia mentre sfiorava i capezzoli irrigiditi e gonfi.

    Dinanzi allo specchio sbrecciato e opaco osservò il suo volto incorniciato nell’aureola della imponente chioma corvina che le scendeva ondeggiante e vaporosa sulle spalle.

    I suoi lineamenti non coincidevano con i canoni classici della grazia femminile, non era il tipo di bellezza perfetta, raffinata e ideale ricercata in quegli anni ancora dominati dagli influssi dell’estetica tradizionale.

    I tratti del suo viso avevano molto in comune con quelli delle donne africane. Le labbra carnose e prominenti, il naso appena schiacciato, dalle dilatate nari che supponevano ardenti fremiti passionali, ma minuto nella proporzione degli zigomi alti e pronunciati, simili a due pomi, e gli occhi nerissimi immersi nella purezza di un oceano di latte resi misteriosi e insondabili dalle arcate pregne e dalle lunghe ciglia che addolcivano la sua esotica femminilità. Inconsueta per quel tipo di volto era la forma appuntita del mento, solcato da una procace fossetta in contrasto con la mascella che marcava decisamente la sua volitività. L’incarnato pallido porcellanato contrastava con quelle forme quasi selvagge e primitive e concedeva al suo aspetto una delicata eccentricità.

    Da piccola si era disprezzata per le sue fattezze che riteneva rozze e grossolane, diverse e dissonanti da quelle delle sue coetanee che invidiava per la loro graziosità e armonia. Ora invece si scopriva attraente e fascinosa proprio per quei connotati irregolari e atipici; soprattutto andava fiera del suo corpo slanciato, flessuoso e snello, sensuale ed eccitante che aggiungeva distinzione e unicità alla sua immagine.

    Lo specchio riflesse il candore dei suoi denti dagli incisivi spaziati mentre si concedeva un sorriso gratificante che mise in risalto il modellarsi di due minute fossette ai lati delle gote.

    Mentre con il pettine sdentato cercava di dirimere gli intrecci dei capelli ed a discriminarli udì il rumore della spranga che veniva tolta alla porta. Comprese che la madre era già desta e si accingeva a recarsi nel piccolo recinto, dove tenevano capre, galline e maiali, per mungere il latte da servire per la colazione.

    Sapeva che al suo ritorno doveva trovare il fornello acceso per la bollitura del latte.

    Accelerò le operazioni e, completamente nuda, tornò accanto al letto per abbigliarsi.

    Ritirò dalla sedia accanto al tavolo la coulotte ed il reggiseno, che aveva depositato la sera prima svestendosi e, indossandoli, pensò a quanto si sarebbe sentita in sintonia con la sua gioventù se avesse potuto concedersi una di quelle parure intime che aveva visto esposte nelle vetrine della città con quelle mutande minuscole che chiamavano slip con volant e merletti ed il reggiseno impudicamente velato ornato da pizzi e trine che aggiungevano appeal ai peculiari attributi femminili. Si rassegnò a vestire quei capi anacronistici e antiquati, indossò la sottoveste e prima di completare il rito della vestizione, si avvicinò alla cucina accese il fuoco e, agitando alacremente il ventaglio sotto il fornello, attese che la brace si ravvivasse e si espandesse.

    Con il ciabattare rimbombante degli stivali di gomma che calzava al polpaccio rientrò Rosa. Teneva dai due manici la pentola porcellanata colma di latte schiumoso appena munto dalla capretta e si diresse con andatura sollecita dritta al fornello adagiando il recipiente sul fuoco già vivo e crepitante sistemandola accanto alla napoletana che cominciava a gorgogliare.

    Dimostrava di avere quarant’anni ma ne aveva trentacinque. Si era sposata per amore giovanissima che era un vero bocciolo di rosa come il nome che portava dopo avere scoperto di essere gravida di Lena. Ora la sua bellezza era alquanto offuscata, aveva perso la luminosità carnicina del volto, il candore era divenuto bronzeo e, dove fiammeggiavano le chiazze purpuree, si era insediata una spenta ambra. Gli occhi radiosi di pagliuzze blu e oro adesso erano opachi e incupiti, purgati dalle troppe lacrime versate. I lineamenti soavi e gentili erano divenuti severi ed affilati, induriti dalla fatica ma impostati ad esibire serenità e trasmettere coraggio. Non aveva più tanta cura di sé, dedicava lo stretto necessario alla sua persona, non si ornava, non si imbellettava, i vezzi della femminilità non le appartenevano più, doveva essere pratica ed efficiente, il peso che portava sulle spalle l’aveva domato e piegato fisicamente e mentalmente ed aggiogata all’appagamento dei bisogni primari della famiglia.

    Si rassettò con un brivido sulle spalle lo scialle, sollevò con gesto anchilosato il braccio nerboruto dalla dura attività e, con la mano callosa, scostò dalla fronte i filacci di capelli sfuggiti dalla crocchia disfatta. Erano lisci e spessi per l’unto, già striati di bianco. Si accostò a Lena, che a tratti rinvigoriva la manovra per incalzare la combustione, si alzò sulle punte e, con le ruvide labbra, le depose il bacio del buongiorno sulle gote.

    Con ratto riflesso il cuore di Lena si contrasse di dolente amarezza. Penetrava l’immenso sacrificio di quella donna, le sue rinunce, l’abnegazione ed il suo sconfinato amore e sapeva che nulla avrebbe mai potuto ripagare il dono della sua vita per il loro benessere, per la dignità ed il rispetto della famiglia.

    L’avviliva vederla abbrutirsi in quelle condizioni degradanti, sconvenienti e umilianti, soffocare la sua femminilità, buttare alle ortiche il suo decoro di donna e di sposa, rompersi la schiena nel giardino che avevano dietro casa a zappare, a potare, a concimare, ad abbeverare e poi raccogliere e vendere per poche lire alle massaie del paese i frutti di tanta usurante fatica per aggiungere qualche soldo alle lesinate disponibilità familiari.

    Dentro di sé sentì farsi imperioso il proposito di affrancare da quella indigente situazione la propria famiglia e sollevare, con il raggiungimento di un’affermazione professionale, il loro tenore di vita e la loro posizione sociale.

    Doveva a tutti i costi arrivare alla laurea, con qualsiasi mezzo e per qualsiasi via, ma per intanto doveva conseguire la maturità classica.

    Era all’ultimo anno, mancava ormai qualche mese agli esami finali, si prefisse di moltiplicare il suo impegno perché quel primo traguardo non le sfuggisse e non frustrasse le aspettative dei suoi congiunti.

    - «Coraggio mamma, ancora un po’, finita la scuola, avremo tutta l’estate libera, ti aiuteremo io e Lina così potrai tirare il fiato ed alleggerire i tuoi fardelli».

    - «Grazie amore, ma non voglio che le vostre mani si sciupino, devono rimanere gentili, morbide ed affusolate così come la natura ve le ha donate. Del lavoro me ne incarico io, voi dovrete conservarvi per un destino migliore, i sacrifici li faccio per questo!».

    - «Ti voglio bene mamma! Quello che fai per noi vedrai che un giorno, spero al più presto, te lo renderemo. Con il tuo eccesso protettivo ci fai sentire ingrate ed esigenti. Almeno in casa lascia che ci occupiamo noi delle faccende, servirà a te per alleviarti dagli impegni ed a noi per sentirci utili e produttive».

    Rosa, piegando il capo dal lato della figlia e, sollevando l’omero, mimando noncuranza per la gravosità delle sue fatiche, soggiunse evasiva:

    - «Vedremo! Vedremo! Tu pensa a passare gli esami!» e, chinandosi sul fornello ed aiutandosi con due cuscinetti, tolse dal fuoco la pentola del latte e lo versò nelle tazze che Lena aveva già disposto sul tavolo, poi tornò alla cucina, versò dalla napoletana il caffè in una tazzina e invitò la giovane con un sospiro: «Vieni! Andiamo a portare il caffè a papà!».

    Entrarono nell’altra stanza rischiarata da fasci di luce che penetravano dagli scuri fessurati. Nel letto grande era disteso in tutta la sua statica imponenza Gino già desto e vigile ai fruscii ed ai brusii delle due donne.

    Appena Rosa ebbe varcata la soglia, appigliandosi con le mani, si sollevò dal cuscino e distese il braccio all’incontro della tazzina fumante che gli offriva la moglie.

    - «Buon giorno maestrina!» – si rivolse carezzevole alla figlia.

    - «Ciao papà! Non fare il cascamorto, sbrigati ad ingoiare la tua ciufeca o mi farai fare tardi!».

    - «Agli ordini maestrina, non vedo l’ora di farmi abbracciare da te!».

    - «Non ti arrendi mai tu! Falle a tua moglie le lusinghe, almeno la farai sognare!».

    Gino sorbì l’ultimo sorso e ribatté:

    - «Lei non ha bisogno di blandizie, le mie coccole sono tutte per lei!».

    Rosa non riuscì a contenere un moto di pudore, la sua riservatezza la faceva vergognare quando si accennava alla sfera dell’intimità, si imporporò in viso e, per celare l’im-barazzo, raccolse i pantaloni del marito trafficando per infilarli nelle anche paralitiche.

    Ormai, dopo avere versato nel segreto fiumi di lacrime, aveva accettato di convivere con quella sventura ed assolveva a quel compito come ad una consuetudine rituale.

    Nei primi tempi della disgrazia non riusciva a rassegnarsi alle conseguenze devastanti che l’invalidità di Gino aveva determinato nella vita dignitosa seppur modesta della famiglia. Poi, l’autenticità e la profonda consistenza dell’amore che li aveva fatto incontrare e fondersi in un unico cuore, le sostanziò la determinazione dell’abnegazione e la tenacia della dedizione.

    La loro storia aveva radici profonde nel sentimento reciproco di appartenenza e di donazione che si palesò senza equivoci fin dal momento del loro primo incontro ed ebbe come paraninfo e complice la guerra.

    * * * * *

    2

    Gino, giovane e celibe, prima della guerra aveva la testa calda, era un bell’uomo alto, bruno, vigoroso era voluto bene dagli amici e ammirato dalle donne. Andava fiero del suo aspetto e intimamente se ne gloriava attribuendosi egemonia innata nel mediocre panorama mascolino.

    Era un buon partito, faceva l’ormeggiatore delle navi delle Ferrovie. L’impiego, poco impegnativo, gli assicurava un buon stipendio, vestiva come un damerino, sembrava un principe quando passeggiava per le vie del centro con il bastoncino di bambù ed il cappello di paglia, corteggiava le più belle donne del paese ed era entrato nelle grazie di una donna sposata benestante. Ma gravitava in una cerchia di amici che avevano idee politiche opposte al regime e, per solidarietà e per darsi un tono scapigliato, spesso si trovava implicato in manifestazioni di protesta e di contestazione.

    Qualcuno, che lo aveva preso di mira e che era infastidito dalla sua condotta beffardamente irrisoria, decise di provare la sua consistenza.

    Lo fece mettere alle strette. Gli fu intimato di iscriversi al Partito Fascista a pena della perdita del posto di lavoro.

    L’avvertimento lo mise di fronte ad una scelta fondamentale e consapevole di vita. L’alternativa era tra il piegare la schiena e intrupparsi nelle legioni di leccapiedi che celebravano dogmaticamente il regime, perdendo la faccia e la dignità, ma mantenendo il privilegio della sicurezza economica e di un conveniente tenore di vita o affermare, con una risoluta rinuncia, la propria fede politica proclamando i valori sociali e umani imprescindibili e ineludibili che ostentava a costo dell’emarginazione e della perdita di tutte le agiatezze e benefici, negandosi ad una vita asservita, opportunista e spergiura e conservando la piena sovranità della sua indipendenza e libertà.

    Scelse la via della coerenza e della conseguenza esponendosi all’estromissione, alla ghettizzazione, all’isolamento ed alla vigilanza sinistra.

    Per sopravvivere tornò a frequentare l’avito mestiere del ciabattino.

    La sua famiglia esercitava quest’arte di generazione in generazione tant’è che la definizione della loro attività, scarpari, era divenuto a tutti gli effetti il loro cognome.

    Gino Scarpari si imbarcò così su una fragile navicella per attraversare un mare procelloso, ostile e insidioso.

    A poco a poco lo abbandonarono le antiche conoscenze, le frequentazioni femminili si diradarono, di colpo era divenuto il lebbroso della comunità, scansato ed eluso da quelli che, per dimostrare la loro compiacenza e dedizione ipocritamente fanatica al regime, si guardavano bene dal tributargli amicizia.

    Soltanto i compagni di partito alimentavano la sua attività e gli sfilavano sottomano, cautamente, qualche sussidio permettendogli di mettere insieme pranzo e cena.

    Precipitò così in una fonda crisi che lo demoralizzò

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