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Le avventure di Amerigo Asnicar
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E-book103 pagine1 ora

Le avventure di Amerigo Asnicar

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Prima uscita sulla ribalta per Amerigo Asnicar, autore televisivo e giornalista di Milano coinvolto in storie di delitto e intrigo classiche, ma non troppo, fatte di comparse frammiste a personaggi reali, se reali sono le celebrità del piccolo schermo. 
La sua storia prende avvio con la morte del truccatore Rosario Russo: un fatto di cronaca dal sapore per nulla cinematografico e vicino alla vita vera, eppure colorato (truccato, è il caso di dire) dalle consuetudini della stampa locale che il nostro protagonista conosce bene. Ma ecco che sulla scena del delitto Amerigo nota un particolare…
In sei racconti deliziosi, Asnicar si muove nel proprio mondo come testimone non distaccato di quelli che nella didascalia della guida Tv sarebbero etichettati con la parola «giallo».
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2021
ISBN9788893721240
Le avventure di Amerigo Asnicar

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    Anteprima del libro

    Le avventure di Amerigo Asnicar - Aldo Dalla Vecchia

    tutti

    Benvenuto, AA!

    Quelle che state per leggere sono le avventure di Amerigo Asnicar, protagonista (e/o testimone) di gialli ambientati nel mondo dello spettacolo, perlopiù milanese.

    AA è autore televisivo e giornalista, proprio come me, e i casi nei quali si trova coinvolto sono tutti plausibili, probabili, possibili: nessuna sospensione dell’incredulità, alla quale sono contrario con tutte le mie forze, da lettore e da spettatore di film e telefilm non soltanto gialli. Oltre a fare la conoscenza di Amerigo, incontrerete tanti personaggi reali della televisione e dello spettacolo, che conosco e frequento per lavoro e per diletto da qualcosa come sei lustri. Sullo sfondo, l’amatissima città di Milano dove abito da più di metà vita, e nella quale Amerigo Asnicar sta per muovere i suoi primi, felpatissimi passi. Buona lettura e buon divertimento.

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    Omicidio col trucco

    Premessa

    Mi chiamo Amerigo Asnicar, ho superato da qualche anno i quaranta però non ne ho ancora cinquanta, sono di origini venete e abito a Milano, dove, da più di un quarto di secolo, sono giornalista e autore televisivo.

    Il cosiddetto mondo dello spettacolo lo conosco come le mie tasche, soprattutto la televisione, una passione nata con me che sono riuscito a trasformare in lavoro, intervistando molti dei personaggi che da piccolo vedevo dall’altra parte dello schermo, e diventando amico di molti di loro.

    Un altro mio amore della vita sono i gialli e la cronaca nera: da bambino, ero affascinato in maniera quasi ipnotica dai primi film di Dario Argento (Profondo rosso su tutti) e dai telefilm con protagonisti il tenente Colombo, Ellery Queen, Pepper Anderson Agente Speciale; da adulto, sono diventato lettore insaziabile delle inchieste di Maigret (e di molti altri commissari, investigatori, poliziotti, detective, avvocati, magistrati… Lui però è e sarà sempre il migliore), e compulsatore seriale di quotidiani nazionali e locali, alla ricerca delle ultime novità su delitti efferati, misteri irrisolti, casi insoluti.

    Questa volta, però, nella cronaca nera ci era entrato, da protagonista, un mio caro amico, e la sensazione era del tutto diversa dal solito, «i brividi fin dentro le ossa» che mi scuotevano non erano più solo un modo di dire letto in qualche racconto giallo…

    Domenica 17 novembre 2013

    Ero appena uscito dallo spettacolo pomeridiano al cinema, erano le sei di sera, quando ho trovato una quantità di chiamate sul cellulare. Era Paolo Mosca, un mio amico e collega del Corriere della Sera che si occupa di cronaca nera. L’ho richiamato, mi ha gridato dentro le orecchie senza nemmeno salutarmi: «Corri subito, hanno ammazzato Rosario!».

    Per qualche istante, assurdamente, ho pensato «Rosario chi?», anche se di Rosario ne ho sempre conosciuto uno soltanto: Rosario Russo, sessantacinque anni ufficiali (in realtà almeno una decina di più), ribattezzato dalla stampa popolare «la fata turchina» per il ciuffo azzurro e perfettamente laccato irto sopra la sua testa a sfidare il buco nell’ozono, e famoso in tutta Italia prima, negli anni Settanta e Ottanta, come truccatore delle celebrità («il visagista dei Vip» era la qualifica che compariva immancabilmente nelle didascalie che accompagnavano le sue foto sui giornali), e in seguito come cantautore, con un repertorio di canzoni fortemente erotiche e allusive (molte portate al successo da Pamela Prati) che ne aveva fatto una star da superclassifica, e l’idolo della comunità gay, grazie soprattutto a un’edizione entrata nella storia dell’Isola dei famosi: durante un litigio definito poi dalla conduttrice «furibondo ed epocale», aveva strappato le extension in diretta a Lory Del Santo, rea di avere insinuato che lui si fingesse omosessuale per convenienza.

    Rosario l’avevo conosciuto tanti anni prima per un’intervista, quando lavoravo a Canale 5 al mio primo programma televisivo come autore. Mentre gli operatori, con telecamere e luci, allestivano il set dell’intervista su una delle più belle terrazze romane, Rosario si preoccupava di una cosa soltanto: «Fatemi una pelle da bebè, voglio sembrare una diva del muto, come la Garbo o la Dietrich!» (che lui pronunciava bizzarramente Ditrič, come Nina Morič).

    Dopo di allora avevo iniziato a frequentarlo, col tempo eravamo diventati buoni amici, e avevo imparato a conoscerlo e a volergli bene, soprattutto quando avevo scoperto che, al di là dei comportamenti eccentrici e della cresta azzurrata, c’era una persona profondamente buona e sensibile.

    Rosario, anche se nessuno lo sapeva, donava molti dei suoi guadagni in beneficenza, e manteneva le tre sorelle e i genitori anzianissimi che erano rimasti nel paese di origine, Carini, vicino Palermo, famoso per il celebre caso della baronessa assassinata cui negli anni Settanta la Rai aveva dedicato un romanzo sceneggiato, come si diceva allora, che quando ero piccolo avevo visto con la nonna, rimanendone terrorizzato.

    «Dove?», fu l’unica parola che mi sentii dire, come in apnea, in risposta a quello che mi aveva appena gridato Paolo Mosca, dentro il telefonino, lasciandomi come tramortito. «A casa sua! Corri! È appena successo!».

    Rosario viveva (anche se il verbo a questo punto era non più pertinente) al primo piano di una casa di ringhiera dalle parti di Porta Venezia, a due passi dal centro di Milano. Se l’era comprata con i guadagni dei tanti look («fa-vo-lo-si», come diceva lui) che aveva creato per le cantanti e le attrici più celebri della seconda metà del Novecento. A casa sua c’ero stato tante volte, e ci arrivai a piedi in pochi minuti anche quella sera d’autunno limpida e tiepida, con una sensazione strana e indefinibile che non era semplice dispiacere, non era ancora dolore, ma aveva già i contorni nebulosi, il sapore acre, l’odore pungente della tragedia. Davanti all’ingresso del condominio c’erano due pantere della polizia con i lampeggianti che illuminavano un piccolo capannello di persone. Entrai, salii la rampa di scale a tre gradini alla volta, e fui subito davanti alla porta. C’erano il mio amico Paolo, un’altra collega de la Repubblica, e un operatore che faceva riprese con la telecamera, probabilmente per qualche telegiornale.

    Erano tutti e tre radunati sul pianerottolo; oltre non era possibile andare perché l’ingresso era già stato transennato.

    Il mio primo pensiero fu incongruo rispetto all’enormità di quanto era appena accaduto: abituato ai telefilm americani e alle scene del crimine sigillate con metri di nastro giallo, non sapevo che in Italia, in questi casi, il nastro della polizia è a strisce bianche e blu.

    Da dentro proveniva un gran frastuono, si vedevano gli agenti della volante che andavano e venivano freneticamente da un ambiente all’altro, misuravano, perlustravano, telefonavano concitati. Quando Paolo Mosca cominciò a raccontarmi i fatti, non sentivo le parole; ero concentrato a guardar dentro, niente altro contava, mi sentivo come un pesce isolato dentro una boccia d’acqua.

    La struttura della casa di Rosario era semplice e lineare, una volta l’avevo anche fatta fotografare per un famoso giornale di spettacolo con cui collaboravo: un corridoio centrale molto stretto che dall’ingresso portava fino alla camera da letto in fondo e, sulla sinistra, prima un piccolo bagno, poi la cucina-sala da pranzo. Sul lato destro, di fronte alla cucina, c’era il salotto, dove troneggiava una collezione di novantanove cappellini con veletta dalle forme più eccentriche e insolite (uno era appartenuto a Camilla di Cornovaglia). Non mi era mai capitato di vedere quella casa così piena di estranei e così sottosopra, e mai nella vita avrei pensato di ritornarci in una circostanza simile.

    Ancor prima di osservare, per quel che si poteva vedere da fuori, ogni stanza, ebbi una consapevolezza strana e indefinibile, come di un dettaglio reale e concreto ma che ancora non ero in grado di mettere a fuoco. Eppure era lì. Forse però il mio era solo un banale retaggio dei tanti libri polizieschi letti e dei tanti telefilm gialli visti, e la celebre scena di Profondo rosso in cui

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