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Ego te absolvo
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E-book232 pagine3 ore

Ego te absolvo

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Info su questo ebook

Il commissario Simona Ottonello indaga su due omicidi e un prezioso cofanetto scomparso; ad aiutarla nelle indagini il suo amico giornalista Giulio Leonardi.
Due omicidi sulle alture di Pegli; un vecchio cofanetto di legno levigato che fa gola a molti, a troppi. A Camillo Ardeani, per esempio, un trafficante di oggetti antichi venuto apposta da Roma. Ma anche a Batti, lo sfaccendato “filosofo” amante della cuoca dello “Chez Maxime”, una vecchia trattoria di Borgo Incrociati da dove la vicenda si dipana. Chi ha ucciso? Che fine ha fatto il cofanetto? L’inchiesta è affidata al commissario Simona Ottonello, capo della squadra omicidi genovese. La aiuta nelle indagini il suo amico giornalista Giulio Leonardi. E con lui, in una città in cui sale la febbre per l’imminente apertura del Salone Nautico, si addentra alla scoperta di un mondo a lei sconosciuto che affonda le radici in una pagina oscura di Genova. Una pagina che tutti vorrebbero dimenticare e di cui nessuno parla volentieri. Ma è proprio lì la soluzione del mistero.
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2014
ISBN9788875639822
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    Anteprima del libro

    Ego te absolvo - A. Casazza

    Prefazione

    La prendo alla lontana ma la cosa, come si vedrà, ha un senso. Da tempo, proprio nei giorni in cui Andrea Casazza mi sottoponeva, via e-mail, il testo di questo romanzo, mi stavo chiedendo – ancora una volta – perché in Italia, ci siano ormai tanti giallisti e, ancor più, perché il giallo italiano sia circondato da tanto interesse. Poi ho finito col darmi una attendibile riposta. In effetti non v’è città, per piccola che sia (anzi, soprattutto se piccola: gli assessori delle città piccole sono spesso cupamente combattivi, quasi rabbiosi nel rivendicare spazi e nell’agitare premi e targhe con forsennata vocazione al sacrificio) la quale non rivendichi il suo concorso, la sua rassegna, la sua tavola rotonda, il suo catalogo ragionato, il suo premio, il suo giallista prediletto, il suo appuntamento specialistico.

    Per anni ho continuato a nutrire di fronte ai gialli italiani quel vago e saltuario senso di incredulità che avvertivo già da ragazzo, negli ultimi mesi di guerra. Quando, sfollato in campagna vicino a Novi Ligure, giorno per giorno mi inoltravo, grazie alla biblioteca di mio padre ed al contributo di un amico – ne ho fatto cenno esplicito in un volumetto a tre mani su Simenon, scritto con Goffredo Fofi e Gianni Da Campo e pubblicato dalla napoletana Ancora del Mediterraneo – nella giungla fascinosa del mystery d’epoca. Che era prevalentemente anglofono, (inglese o americano secondo una divaricazione da sempre netta) e, in misura molto minore, francese (appunto: ma per me quindicenne l’era simenoniana non era ancora iniziata). Naturalmente c’erano anche gli italiani. Ma nei loro confronti, diciamolo pure, provavo – e per anni fummo in tanti – una sorta di imbarazzo, di complicità ingoffita e colpevole, così istintivi che non avevamo neppur voglia di analizzarli a fondo. Mi ricordo, per fare un solo esempio, il senso di bonaria stupefazione che destarono allora in me – la brossura mondadoriana era bella e quasi elegante – Il settebello e Le scarpette rosse del provinciale ma raffinato ventimigliese Alessandro Varaldo. Con quell’investigatore baffuto, Ascanio Bonichi, che mi faceva pensare più ad Aldo Fabrizi che a Philo Vance: aveva grandi baffi, una connotazione romanesca, pittoresca ma nel fondo estranea – era perfino commendatore¸ come gli ometti buffi disegnati da Barbara sul Marc’Aurelio – mentre più accettabile e in certo modo volonteroso appariva l’ex-sergente Gino Arrighi divenuto detective privato giusto per orecchiare costumi lontani e invoglianti.

    In realtà a intrigarci erano l’uso stesso del fondale Italia, per non parlare della lingua madre, dunque non filtrata e inamidata dalla traduzione, ma autentica, primigenia, raccolta, per così dire, in prima battuta ma anche furbescamente pomposa, così come era spesso all’epoca l’italiano scritto e apparentemente estranea al tema. A imbarazzarci profondamente era, quindi, una sensazione confusa eppur recisa che pressappoco intorno a noi aleggiava nel mondo e che giusto negli anni ‘30 venne così magistralmente riassunta da un dilettante professionista di genio, musicista, pittore, scrittore, e cioè Alberto Savinio. Tolgo la citazione – peraltro la si ritrova di frequente in molte fonti che si occupano del poliziesco all’italiana – dall’ottimo Tutti i colori del giallo di Luca Crovi, dedicato appunto al giallo italiano da De Marchi a Scerbanenco a Camilleri, aggiornata fonte di consultazione perchè risale al 2002.

    Scriveva Savinio : "...il giallo italiano è assurdo per ipotesi. Prima di tutto è una imitazione e porta addosso tutte le pene di questa condizione infelicissima. Oltre a ciò manca al giallo italiano, et pour cause, il romanticismo criminalesco del giallo anglosassone. Le nostre città tutt’altro che tentacolari e rinettate dal sole ‘non fanno quadro’ al giallo né può ‘fargli ambiente’ la nostra brava borghesia. Dove sono i mostri della criminalità, dove i re del delitto?"

    Ecco qui la fondata radice di un successo inatteso. In pochi decenni le mancanze, i vuoti, gli eccessi di perbenismo e di bontà lamentati da Savinio sono stati dolorosamente colmati da una ventata criminale che ha sconvolto e sconvolge l’Italia. E che di converso ha subitamente reso attendibili i tralicci mortali di fatti e di accadimenti e quindi i delitti e gli investigatori di casa nostra. Anche senza i coroner, Scotland Yard, Harlem, il NYPD, la P.J, la Sûreté e il Quai des Orfèvres e l’immensa mitologia poliziesca anglo-americo-francese stratificata per decenni nella nostra memoria, un mondo autenticamente giallo si è di­schiuso nelle nostre città.

    Rendendo improvvisamente autentici centinaia di narratori di talento. Quel che il povero commissario De Vincenzi di Augusto De Angelis non era riuscito a fare (un altro narratore di talento, Ezio D’Errico, aveva dovuto collocare addirittura sulla Senna il commissario Richard per farlo apparire credibile) è via via balzato all’onor del mondo nelle righe di tanti e tanti cultori nostrani, divenuti via via noti se non celebri. Si pensi non solo ai geni saltuariamente giallisti (Gadda, Sciascia, eccetera) ma a Scerbanenco, Camilleri, Fruttero e Lucentini, e sulle loro orme a tanti e tanti franchi narratori specializzati, da Felisatti e Pittorru a Loriano Macchiavelli a Carlo Lucarelli, e via citando quasi all’infinito.

    Il logico corollario di questa rinascita italiana (così ferocemente legata ad indubbio peggioramento dal contesto sociologico e sociale) ha come risvolto successivo ma altrettanto creativo la connotazione regionale di tanti nuovi e meno nuovi giallisti, ovvia conseguenza in una nazione ancora largamente localistica anche se molto più integrata di un tempo. E per quel che concerne propriamente noi liguri l’alto numero di genovesi che sorgono da ogni parte. Un posto decorosissimo ricoprono di sicuro, fra questi giallisti al pesto, Casazza e Mauceri. Che son redattori al Secolo e perciò conoscono bene risvolti criminali e scadenze giornalistiche della città. Ritroviamo qui la seducente commissaria Ottonello (cognome tipicamente ligure, anche se giudiziosamente non fra i primi 10 delle statistiche per non renderla troppo grigia), le strade e i luoghi di una città che ben conosciamo ed uno sfondo principale, Borgo Incrociati, romanzesco per sua natura, nel quale è stato scaltramente introdotto un errore topografico per doverosa prudenza (lo scopra il lettore).

    Con l’andar degli anni (si ricordi che son nato nel 1929, proprio quando Mondadori pubblicava i primi 4 fondamentali gialli di una serie praticamente infinita) con i libri e con i film tendo sempre di più ad annoiarmi.

    Qui non mi è capitato quasi mai, il che rende profondamente giustificata questa prefazione. In linea di massima tutte le prefazioni sono inutili, e qualcuna spesso è dannosa.

    Se questa sarà anche minimamente utile, ne sarò più che soddisfatto.

    Claudio G. Fava

    Mercoledì

    Capitolo primo

    Un uomo solo al ristorante è uno spettacolo tutto da gustare. Se ne sta lì, seduto dietro il suo tavolo in attesa delle portate e, non avendo nessuno con cui chiacchierare per passare il tempo, cerca di darsi un contegno in armonia con il suo carattere. Così il timido cercherà, per esempio, di farsi notare il meno possibile dagli altri commensali. I suoi gesti saranno ridotti al minimo indispensabile e pure il suo viso sarà il più inespressivo possibile, con lievissimi sorrisi di circostanza quasi a voler scusarsi di essere lì. L’arrogante, al contrario, farà di tutto per porsi al centro dell’attenzione. Chiamerà il cameriere più volte del necessario, chiederà spiegazioni minuziose sul menù. E quando verrà il momento di stendersi il tovagliolo sulle gambe, prima di iniziare a pranzare, il movimento assumerà una gestualità quasi teatrale, come un toreador che agita il telo rosso davanti al muso del toro.

    Quanti ne aveva visti, Batti, di personaggi strani sedersi al tavolo numero tre di Chez Maxime, la vecchia trattoria di Borgo Incrociati. A sessantotto anni suonati aveva sempre meno voglia di correre per il mondo in cerca di quella fortuna che mai, nemmeno per un solo attimo, si era fermata a guardare la sua faccia bruciata dal sole, dal vento e traversata da centinaia di rughe che la rendevano mobile come una palla di gomma. A sessantotto anni aveva deciso che preferiva restarsene lì, su quella sedia sistemata in un angolo della cucina dello Chez Maxime, in prossimità della vecchia finestra che un tempo si affacciava direttamente sulla via. Subito dopo la guerra, un architetto in vena di speculazione edilizia, aveva aggiunto a quell’appartamento al piano terra una veranda in muratura che successivamente sarebbe diventata la sala da pranzo della trattoria. Ma quella finestra era rimasta lì, chissà perché, a dividere i due locali. Inizialmente era stata usata come passavivande. Poi l’Armando, proprietario dello Chez Maxime, aveva deciso che avrebbe contribuito a migliorare l’arredamento del locale se fosse rimasta chiusa, ornata con due tende di pizzo bianco e un vaso di gerani rossi sul davanzale. Così i camerieri, cioè l’Armando stesso e Serena, per servire in tavola ora passavano dalla porta, stando bene attenti ai due scalini che sembravano essere stati messi lì apposta per inciamparsi.

    Batti passava ore e ore seduto a quella finestra. Ormai era diventato il suo posto. Lì, specie nei lunghi pomeriggi d’inverno, poteva chiacchierare con Teresa, detta la Terre, moglie dell’Armando e cuoca della trattoria. E da lì, nascosto dietro la tenda di pizzo, poteva sbirciare, non visto, verso la sala da pranzo. In particolare verso il tavolo numero tre, un piccolo tavolino in grado di ospitare un solo coperto. Due al massimo nei giorni di piena. E cioè mai, visto che da anni la vecchia trattoria raccattava solo uno sparuto drappello di clienti al giorno, il minimo indispensabile per non fallire.

    Eppure lo Chez Maxime aveva conosciuto momenti migliori. Era stato nei primi anni Sessanta, nel periodo del cosiddetto boom economico, quando la frenesia del benessere (o forse solo l’illusione?) aveva pervaso anche Genova e i suoi quartieri più antichi. A quel tempo Armando Torrazza (la sua famiglia era originaria proprio di Borgo Incrociati) era rimpatriato dalla Francia dove i suoi genitori avevano avuto il buon senso di emigrare al primo colpo di cannone che aveva segnato l’inizio della guerra. Armando tornò con tre cose: una borsa piena di franchi fatti non si seppe mai come; un’amante parigina, Francine Guivarche, «raccattata certo in qualche bordello», sentenziarono i più maligni; e un nome altisonante, Armand Torassà, che sulle prime trasse in inganno tutti.

    Con i franchi Armando acquistò il vecchio appartamento del borgo che era stato dei suoi nonni. Fece aggiungere la veranda e, con una gran festa alla quale partecipò anche la banda del quartiere, inaugurò lo Chez Maxime. Qualcuno gli fece pure notare che la dizione esatta sarebbe stata Maxim e non Maxime. Ma lui aveva già fatto fare l’insegna, gli inviti, i cartoncini col menù. «Voi non capite niente.», aveva così improvvisato una spiegazione «In francese, è vero, si dice Maxim, ma nel dialetto parigino la dizione giusta è Maxime». Era, ovviamente, una balla colossale che però gli fu perdonata quando offrì una bicchierata gratis a tutto il borgo.

    Gli affari andarono bene per qualche anno. La trattoria ospitava a mezzogiorno operai, impiegati, commesse. E la sera, complici forse le belle cosce di Francine generosamente scoperte da una serie di minigonne colorate ante-litteram, una buona fetta di quella Genova bene che riscopriva il gusto della vita notturna. Trippe alla moda di Caen, Ragout all’alsaziana, Escargot, recitava pomposamente la carta vergata su un foglio di pergamena da un anziano professore di calligrafia che abitava nel portone a fianco del ristorante e che aveva barattato la sua opera con una serie di pasti gratis. Poco male se poi le trippe erano normalissime trippe accomodate, se il ragout era spezzatino e le escargot erano lumache cotte come a Genova si cuocevano da almeno trecento anni. Il menù offriva anche il gazpacho andaluso. Con la cucina francese non ci azzeccava proprio niente, d’accordo. Ma faceva così esotico!

    La fortuna cominciò a girare nel giro di un paio di anni. Come tutte le mode, anche quella di andare a cena da Chez Maxime nel vecchio borgo, tramontò quasi di colpo. E il grande salone della trattoria, sera dopo sera, appariva sempre più tristemente deserto. Per contro i commensali del mezzogiorno, interessati più a un pasto frugale da consumare nella pausa di lavoro, cominciarono a stufarsi delle escargot, del ragout e di Caen. L’elegante foglio di pergamena venne ben presto dimenticato in un cassetto e le trippe accomodate tornarono ad essere trippe accomodate, così come lo spezzatino tornò ad essere spezzatino. Nel menù comparvero anche gli spaghetti e le trenette al pesto. L’apertura delle prime tavole calde, sul fare degli anni Settanta, e delle prime paninoteche diedero il colpo di grazia al locale. La bella Francine, stufa di mostrare le cosce (fra le altre cose ormai anche un po’ cellulitiche) decise di abbandonare la barca che stava malamente naufragando e fuggì insieme a un camionista suo connazionale. Fu allora che don Filippo, il vecchio parroco del borgo, spulciando negli archivi della chiesa cancellò anche l’ultimo tocco di esotismo dallo Chez Maxime: «Armand? Ma che Armand e Armand! Quello è l’Armando, il figlio dei Torrazza che emigrò in Francia con i genitori quando non aveva ancora dieci anni».

    Furono momenti difficili per la vecchia trattoria del borgo. Ma Armando non mollò. Strinse i denti e andò per la sua strada. Con qualche cambiamento, è ovvio. Il più evidente fu la Terre al posto di Francine. La Terre, genovese doc, non aveva le gambe di Francine, pesava ottanta chili, ma non aveva grilli per la testa e soprattutto sapeva cucinare: poche cose, ma bene. Assunta come cuoca e pagata a percentuale, finì col prendere in mano le redini della situazione. Fu lei a convincere Armando ad accettare la convenzione con una vicina ditta che produceva giocattoli: quei diciotto commensali ogni mezzogiorno garantivano un buon guadagno. Fu lei a spargere la voce nel quartiere che sarebbe stato applicato uno sconto del dieci per cento a tutti i dipendenti della vicina stazione ferroviaria di Genova Brignole che avessero deciso di tradire l’asfittica mensa aziendale con lo Chez Maxime. E fu ancora lei che decise di assumere una giovane cameriera, Serena, una mano in più per servire in tavola ma anche per lavare i piatti, pulire i pavimenti, fare la spesa e tutti gli altri lavori necessari per mandare avanti la trattoria.

    Il passo successivo fu quello di mettere Armando davanti all’evidenza dei fatti: «Non fosse per me», gli ripeteva almeno dieci volte al giorno «saresti già fallito da un pezzo... Altro che dar retta alle fisime che ti ha messo in testa quella francese, quella Francine». E pronunciato da lei, con quelle labbra grosse, carnose che le riempivano mezza faccia, il nome Francine sembrava una bestemmia. Fu un lavoro lento, metodico, la tessitura della tela da parte di un ragno arguto, furbo, che sapeva perfettamente tirare il filo giusto al momento giusto. Fatto sta che Armando un bel giorno capitolò e finì per sposarsela, la Terre.

    Il rito fu celebrato da don Filippo in una chiesa gremita soprattutto di curiosi. Testimone per l’Armando, fu Serena che si presentò in un abito blu, a dire la verità un po’ stinto dagli anni. Testimone per Teresa, fu Batti. «Un carissimo amico di famiglia», lo presentò la sposa «È come se fosse mio zio». E invece era l’amante ufficiale della Terre, donna sì di ottanta chili che le conferivano un aspetto esteriore pacioso, ma capace di una sessualità vulcanica che non riusciva a sopirsi né col passare degli anni né con la nuova condizione di donna accasata.

    Il ménage a due divenne ménage a tre con buona pace dell’Armando che si rassegnò al fatto che Batti trascorresse quasi tutte le giornate allo Chez Maxime. C’è da dire che nel suo piccolo dava anche una mano. Teneva compagnia alla Terre, ne subiva in prima linea gli scatti di rabbia quando qualcosa non andava per il verso giusto, facendo da parafulmine all’Armando che per questo aveva imparato a essergli grato. Era diventato l’assaggiatore ufficiale di vini e liquori (e di questo l’Armando gli era meno grato). E poi amava dare consigli praticamente su tutto. Un’attività, quest’ultima, che gli veniva dalla supposta saggezza che, asseriva lui, aveva accumulato durante un’intera, grama vita passata a inventarsi giorno dopo giorno il modo con cui sbarcare il lunario. «Sapessi tutte le avventure che ho avuto!», amava ripetere Batti accompagnando la frase con la mano destra alzata verso il cielo e facendo vagare lo sguardo furbo verso l’infinito. Ma se qualcuno gli chiedeva cosa avesse fatto in vita sua, quale fosse stato il suo mestiere, lui candidamente rispondeva: «Io? Non ho mai fatto nulla. Non ho mai lavorato. Lavorare? Sono buoni tutti. Provatevi un po’ voi ad arrivare a sessantotto anni senza aver mai lavorato, senza aver mai chiesto l’elemosina e senza essere diventato un barbone. Questo sì, che è difficile. Il giorno in cui morirò sulla mia tomba voglio una lapide: Qui riposa Batti, deve esserci scritto che in vita sua ha sempre riposato».

    I consigli di Batti avevano la capacità di mandare in bestia l’Armando. Perché non

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