L’opinione pubblica tra filosofia e social network
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L’idea che l’opinione possa essere comune a molti, di per sé un controsenso, è sorta con il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa, la stampa in primis; dal Settecento, ha preso così forma uno spazio ideale nel quale agisce chi intende partecipare alla “cosa pubblica”, anche solo per essere informato. È in questo spazio che per due secoli hanno agito i diversi canali d’informazione che la tecnica ha realizzato, fino alla creazione del WEB. Ma la digitalizzazione dell’informazione ha trasformato “il mondo”, inteso naturalmente in senso umano: le ragioni per cui oggi “si scrive” o “si comunica” sono speculari alla trasformazione stessa dei concetti di spazio e di tempo, e i social networks ne rappresentano l’aspetto più eclatante.
Qui non si vuole descrivere il fenomeno o criticarlo, ma riflettere sul suo senso profondo, sulle implicazioni esistenziali che esso comporta. Il tema è gigantesco e non può essere racchiuso in uno spazio tanto piccolo; questo “saggio che non è un saggio” non intende dare delle risposte ma, come dovrebbe fare una buona filosofia, pone delle domande. Ciascuna di esse apre a una nuova riflessione, a un mondo di significati che va esplorato, perché ci sta succedendo qualcosa che nessuno, da solo, può ancora davvero comprendere.
Professore di storia e filosofia in pensione, Maurizio Chatel esercita l’attività di consulente filosofico – in privato e per le istituzioni pubbliche – e pubblicista. Ha diretto una casa editrice digitale di testi scolastici, BBN-Giunti scuola e pubblicato saggi di storia e filosofia per le scuole superiori. Negli anni Ottanta e Novanta ha collaborato col Ministero della pubblica istruzione nel campo della formazione docenti, con stage e pubblicazioni. Scrive per Gazzetta filosofica e SoloTablet.
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Anteprima del libro
L’opinione pubblica tra filosofia e social network - Maurizio Chatel
SoloTablet.
Prefazione
Occorre fare chiarezza sul modo di intendere le cose, perché è solo nella chiarezza delle definizioni che il linguaggio esplica la sua funzione di verità, cioè di universalità_. La lingua costruisce il mondo e il mondo è ciò che noi diciamo, nient’altro. È così che la rete è diventata uno spazio nel quale ci incontriamo, comunichiamo, ci scambiamo cose
e ci esibiamo non solo sul palcoscenico degli sguardi ma in quello più oscuro e ambiguo delle emozioni.
Il Digitale come evento tecnico e culturale è oggetto ormai di studi innumerevoli, la maggioranza dei quali intesi a descriverlo, illustrarlo, divulgarlo, mentre molti altri ne sondano gli aspetti distopici e inquietanti, in-umani. Digitando la parola-chiave internet
sul catalogo unificato OPAC delle biblioteche italiane, un circuito quindi abbastanza ristretto rispetto alla circolazione reale dei testi, saltano fuori più di 14.000 titoli, un panorama ingestibile da chiunque. In questo contesto, che senso ha un altro libro sull’argomento?
Innanzitutto, non intendo descrivere e non intendo criticare. Le trasformazioni tecniche e culturali che mi circondano hanno trasformato anche me, ed è su questa trasformazione che intendo riflettere, nel presupposto che essa rifletta quanto sta avvenendo in molti altri come me.
La Doxa: una questione di classe
?
La storia del pensiero occidentale, o Filosofia, sorge dalla contrapposizione tra Logos e Doxa, ovvero tra scienza e opinione. Questo, almeno, è quanto ci suggerisce la tradizione storiografica, dai cui binari è difficile deviare. Da Eraclito a Parmenide, passando per il Socrate platonico¹ e Platone stesso, l’impostazione fondamentale del nostro modo di pensare ruota attorno a questa dicotomia, che rappresenta quel bisogno di certezza o di verità che ci caratterizza come uomini dell’Occidente.
[Già la scelta del termine uomini
ci costringe a prendere coscienza di quanto sia problematico oggi tenere il filo del discorso su un piano di neutralità, di come sia diventato pressante per chi espone il proprio pensiero non farsi coinvolgere nell’arena delle opinioni, in quell’illusorio spazio aperto
che è diventata la comunicazione. Oggi, dire uomo
senza aggiungere e donna
è assai rischioso per la propria immagine
(altro concetto correlato alla Doxa), e questo ci dice quanto la filosofia abbia ancora molto lavoro da fare per diventare uno strumento utile per tutti.]
I Padri fondatori
ImmagineDei fondatori del Logos poco ci è noto, se non in forma di frammento, di sentenze oracolari che lo stesso Aristotele, dopo soli due secoli, degnava di poca attenzione. Eccone due esempi:
È necessario dire e pensare che l’essere è. L’essere infatti è,
mentre nulla non è: che è quanto ti ho costretto ad ammettere.
Da questa prima via di ricerca infatti ti allontano,
eppoi inoltre da quella per la quale mortali che nulla sanno
vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l’incapacità che nel loro
petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati
insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi,
da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici
e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino
Parmenide, Sulla natura, fr. 6
Di tutti coloro di cui ho ascoltato i discorsi nessuno è arrivato al punto da riconoscere che ciò che è saggio è separato da tutti.
Eraclito
Senza entrare nel merito del senso filosofico di questi frammenti, ciò che colpisce in entrambi, ma di Eraclito se ne potrebbero citare a decine, è un’aura che oggi potremmo definire classista
, forse esagerando ma non sbagliando. Questa connotazione ha il valore che hanno, oggi, le accuse di razzismo
nei confronti di molte celebrità del passato che nulla sapevano del razzismo
ma che semplicemente parlavano come si parlava, in un comune sentire che non aveva necessariamente intenzioni offensive. Saper leggere e scrivere in forma speculativa, e non semplicemente per far di conto, nel VII sec. a.C. non era certamente cosa alla portata di tutti; potersi dedicare al ragionamento senz’altro scopo che quello di ragionare tanto meno, in una società in cui l’essere liberi dal lavoro era certamente uno status di classe. Dunque, la distinzione tra coloro che sanno e coloro che non sanno era anche
una distinzione classista, ma in un orizzonte sociale in cui la divisione in classi era ritenuta inevitabile, immutabile, inerente alla natura umana e non ribaltabile. Il difetto stava forse nel ritenere che essere liberi e ricchi volesse dire essere i migliori (aristoi).
Al di là dei distinguo, comunque, rimane il dato di fatto di un fondamento speculativo che vede nella distinzione tra sapere (avere consapevolezza) e non sapere (essere inconsapevoli) il suo nucleo generatore; sapere è sapere ciò che è certo, valido per tutti, unico, mentre il suo contrario equivale a vagare tra le contraddizioni, le apparenze, le opinioni, appunto. Da qui non si esce, ed è così che ha preso forma il nostro pensiero.
L’apice di questa concezione speculativa è ovviamente la filosofia platonica, con la sua gerarchia dei saperi (il riferimento è al celebre mito platonico della Caverna) che dal gradino più basso, quello delle opinioni e delle apparenze sensibili, conduce gli amanti della sapienza (i filosofi) all’apice della verità, che è pura contemplazione delle Idee; passando necessariamente dalla matematica, che di tutti i saperi è quello che più si avvicina alla perfezione. Un tassello di enorme rilevanza nella storia del pensiero occidentale, questo della ricerca di una scienza universale (mathesis universalis) capace di unificare tutte le nostre rappresentazioni in un unico processo razionale, o metodo, valido necessariamente per tutti. Attenzione però a non commettere il classico errore di prospettiva: non era Platone ad essere moderno, ma è l’Occidente che è