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Amicizia e Professione.: Contributi al dibattito sul sociale
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E-book244 pagine2 ore

Amicizia e Professione.: Contributi al dibattito sul sociale

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Nella fase attuale della modernità, ripensare l’amicizia professionale aiuta a riconsiderare la pregnanza del concetto di bene comune. Ciò, innanzitutto, per il fatto che comune appare il destino di salvezza, di prosperità o, al contrario, il declino della civiltà umana. Ben oltre, quindi, l’utilità immediata o la strumentalità economica. Nell’era della globalizzazione l’unicità della famiglia umana e l’unicità della terra sono il presupposto di qualsivoglia ragionamento attorno agli interessi che superano l’individuo. Più che a interessi collettivi o a singoli interessi nazionali, del resto, il destino degli individui è legato a una profonda riscoperta e cura del bene comune.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2013
ISBN9788865379776
Amicizia e Professione.: Contributi al dibattito sul sociale

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    Anteprima del libro

    Amicizia e Professione. - Andrea De Dominicis

    viaggi

    Presentazione: Le professioni sociali e il mondo dell’umano

    di Consuelo Corradi1

    Entrare in un nuovo secolo provoca sempre un senso di smarrito entusiasmo. Sappiamo che stiamo entrando nel nuovo anche se non comprendiamo ancora quale e come sarà. Il passaggio è chiaro nel calendario, ma i reali elementi di novità sono ancora oscuri ai nostri occhi.

    La lettura di questo libro sull’amicizia professionale curato da Andrea De Dominicis chiarisce, a mio modo di vedere, alcuni aspetti delle novità che gli anni Duemila hanno portato con sé; analizza, in particolare, i mutamenti che si sono verificati negli ambienti professionali e organizzativi, il cambio di clima nell’organizzazione e nell’etica del lavoro. Ma, come cercherò di spiegare più avanti, chiarisce anche qualcosa di più.

    Mentre, all’inizio del Novecento, gli interpreti della modernità insistevano sulla razionalizzazione e sulla burocratizzazione della realtà sociale, oggi questi aspetti non sono soltanto deprivati di valore, bensì vengono considerati francamente inadeguati a rispondere alle questioni che dovrebbero risolvere. Nel passaggio dalla dimensione fredda (forse, glaciale) del lavoro intellettuale, alla dimensione calda e intessuta di soggettività dell’amicizia nel lavoro professionale troviamo tutta la distanza che la modernità europea ha saputo porre tra i due secoli.

    Il più celebre interprete della prima dimensione è sicuramente Max Weber; ricordarne in modo sintetico alcune idee mi sembra utile, perché ci permette di cogliere meglio la strada fatta e il discorso originale che formulano i saggi di cui è composto questo volume. Weber ricerca lobiettività nel lavoro intellettuale libero da pregiudizi e presupposti di valore, critica aspramente i profeti della cattedra, che mescolano opinioni politiche e ideologie con il servizio alla cosa, cioè con il rigore intellettuale che deve concentrarsi sulla logica, sui fatti, sull’adeguatezza dei mezzi. Poiché partendo dall’esperienza del mondo si giunge al politeismo, egli mira al conseguimento della verità razionalmente dimostrabile e si tiene ben lontano da una discussione dei fini. La razionalità della mente umana si esprime nei criteri di calcolabilità, prevedibilità, generalizzabilità dei mezzi rispetto al fine. È di questi criteri, non dei fini, che si occupa la scienza, sono questi gli elementi della burocrazia, cioè dell’apparato efficiente di cui si è dotato il potere legale incarnato dallo Stato liberale. La burocrazia è portatrice storica della razionalità e costituisce uno dei fattori qualificanti della cultura occidentale. Senza una gestione amministrativo-razionale della condotta di vita non sarebbe nato lo Stato moderno, né il capitalismo. La professione, per Weber, è una vocazione ascetica.

    D’altra parte, com’è noto, Weber ipotizza un esito mortale del processo di razionalizzazione del mondo. La sua immagine della gabbia d’acciaio è più eloquente di molte parole: esprime il timore della progressiva estinzione della politica, ridotta a monopolio della forza fisica, e dell’ingegno, ridotto a calcolo. Se, da un lato, dobbiamo presupporre che il mondo manca di senso, d’altro lato faticheremmo a vivere in una realtà disumanizzata. Weber, più di ogni altro autore del primo Novecento, resta impigliato nelle stesse contraddizioni che coglie nella modernità occidentale ed esprime il senso tragico di una ricerca della verità scientifica purissima, ma priva di istanze trasformative sulla società e sul mondo.

    Messe a confronto queste brevissime riflessioni con le pagine che seguono, il contrasto non potrebbe essere maggiore. L’originalità dell’impostazione del presente volume sta in questo: in trasparenza, viene elaborata tutta la distanza che ci separa dal primo Novecento e fatta emergere la diversa concezione delle relazioni professionali e della vita delle organizzazioni attraverso la chiave di lettura dell’amicizia. Come afferma il saggio in apertura, il gelo impedisce l’innovazione e blocca la vita: sono le persone che fanno la differenza. L’amicizia professionale è quel rapporto fondato su affinità che permette di lavorare in équipe per un fine comune.

    Come scrive un’autrice, il social welfare pone in relazione speranza, solidarietà e sofferenza. La lettura dei diversi saggi mette in evidenza il lavorio intorno ai valori, invece che alle tecniche: il bene, il bene comune, la fraternità verso il prossimo lontano – cioè il soggetto della globalizzazione – e altri ancora. La dimensione fredda della professionalità viene ripensata e trasformata dalla dimensione calda dell’amicizia; è spontaneo il legame ai valori, che tanto aveva tormentato Max Weber. L’amicizia viene presentata come una virtù da perseguire laicamente, che si appoggia sulla fiducia e ne è un moltiplicatore; permette di riumanizzare le relazioni, evitando le manifestazioni egoistiche che possono celarsi nella divisione del lavoro e nella competizione; è il luogo dell’incontro con l’altro al quale ci connette una responsabilità più forte e durevole di quella che può legarci a una massa anonima; esprime simmetria, la posizione di coloro che stanno fianco a fianco, invece che uno di fronte all’altro, come è nell’amore.

    Con particolare evidenza, il passaggio, da una concezione di professione come ruolo in un apparato formale a una concezione individualizzata e attenta alle relazioni interpersonali, è palese quando si esamini il diverso rapporto tra pubblico e privato nell’ambito dell’amministrazione. Come viene notato nel saggio così intitolato, si cerca oggi la felice propensione ad andare d’accordo piuttosto che la contrapposizione o lo scontro. La semantica della scienza dell’amministrazione parla, negli ultimi decenni, di liberalizzazione, semplificazione, autonomia, capacitazione, trasferendo sul piano delle identità individuali le responsabilità e l’esercizio di funzioni che erano prerogativa di un potere burocratico e centralizzato. Sullo sfondo, troviamo un altro cambiamento della nostra modernità: nel lungo cammino del Secolo breve la società, da corpo solido che facilmente collide con altri corpi ugualmente resistenti, ha assunto una forma reticolare perdendo la gerarchia interna e valorizzando le dimensioni dello scambio e della reciprocità. Ecco un altro motivo per sottolineare l’amicizia professionale nelle organizzazioni.

    Tutti i saggi di questo volume si interrogano sulle caratteristiche del lavoro professionale nell’ambito del sociale, sia esso il campo ampio dell’economia civile o il contesto più ristretto di un singolo servizio alla persona. C’è da chiedersi se sia proprio tale ambito di intervento a facilitare la prospettiva degli autori, visto che – come leggiamo nel volume – "il servizio sociale deve spingersi oltre".

    Il servizio alla persona è connaturato da una dimensione calda e valoriale estranea ad altri contesti professionali (l’oltre, appunto, cui si fa riferimento), oppure è, in senso lato, il nostro tempo (quelle novità di cui ho parlato all’inizio) che rimette in discussione l’idea weberiana di professione come vocazione ascetica? Personalmente, propendo per questa seconda risposta. Oggi sappiamo che, come singoli, siamo costruttori del benessere della comunità nella quale viviamo, obiettivo che non può essere trasferito nelle mani di un potere senza volto. Non sono gli aspetti formali della democrazia a promuovere l’ugualianza e il benessere degli individui, è invece la vivacità della società civile, la forza generatrice di chi è capace di auto-organizzarsi. La democrazia è lo strumento che si è dato una società che cresce dal basso e le associazioni politiche sono generative di società quando rappresentano un frammento dell’immenso panorama delle associazioni.

    Questa consapevolezza, che ritroviamo ovunque nella vita pubblica, rende anche meno acute le contraddizioni di Weber. La supposta neutralità della scienza pura e della burocrazia ci appare oggi un mito sfatato, forse anche una concezione perniciosa sotto la quale è talvolta passato molto danno. La scienza e la professione non sono neutre, ma sempre orientate al cambiamento, sempre rivolte a un fine; proprio per questo, dei fini è bene discutere, condividendo, e insieme rimettendo in gioco costantemente i fatti e il quadro valoriale di riferimento. Come abbiamo visto, il tessuto connettivo dell’amicizia agevola questo lavorio e il lavoro sociale lo illustra chiaramente. Ma il punto vero di distacco, che ha permesso di superare l’ascetismo professionale, è il riconoscimento del potere trasformativo dell’azione umana, da cui deriva la necessità di interrogarci costantemente intorno ai punti di vista, ai valori, ai fini ultimi. In un contesto segnato dal pluralismo culturale, il mondo dell’umano è oggi quel luogo in cui dobbiamo ricercare e sostenere con buoni argomenti le nostre scelte valoriali. Non come avrebbe voluto Weber, in modo dimostrativo, cioè mediante prove logiche inconfutabili, bensì in forma argomentativa: confrontandoci con la diversità dei punti di vista e cercando, nel dialogo e nella simmetria, quello che ci accomuna in quanto esseri umani.

    1 è professore ordinario di sociologia e Direttrice del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Lumsa (Roma).

    Amicizia professionale e lavoro di prossimità

    di Maria Anna Bovolini

    Premessa

    Sono circa venti anni che lavoro nell’ambito dei Servizi Sociali e sono sempre più convinta che, al di là di tutte le migliori organizzazioni o protocolli operativi o procedure, ciò che fa la differenza nei diversi ambienti lavorativi sono le persone.

    Siamo noi che possiamo intervenire nel cambiamento. Siamo noi a dare un volto ai nostri servizi, a intessere le relazioni, a contribuire a rendere più umane le nostre interazioni quotidiane.

    Il tema dell’amicizia professionale mi ha toccato nel profondo e mi ha dato modo di riflettere su quanto accade intorno a noi.

    Penso che dovremmo interrogarci più spesso sulla cura che richiede la costruzione e la conservazioni di relazioni autentiche e significative nei nostri mondi vitali.

    Con il presente contributo desidero porre alcuni spunti basati su riflessioni personali e su realtà di vita vissute nei contesti professionali che ho avuto modo di conoscere.

    Molti potrebbero ritrovarsi in alcuni aspetti e sviluppare ulteriori stimoli per la propria esperienza.

    La passione che mi lega all’essere assistente sociale mi spinge a ricercare una condivisione di alcuni aspetti che ritengo fondamentali per poter vivere serenamente la nostra professione e dare spazio alla creatività e all’innovazione nei nostri Servizi.

    Superare l’Inferno

    Spesso si rischia di essere visti come anacronistici al parlare di valori.

    Appena il dialogo si sposta su argomenti più profondi, si percepisce un distacco, una impermeabilità al confronto, un senso di pesante critica a un moralismo ritenuto scomodo o ingenuo. Eppure, il vero incontro con l’altro è lì, nel profondo.

    Se pensiamo ai nostri incontri, vediamo che è solo sfiorando alcuni temi più interiori che abbiamo modo di conoscerci e di incontrarci.

    Nella società attuale, dove emerge l’apparire, la superficialità, la velocità, è sempre più difficile immergersi sotto questo substrato e riuscire a vivere relazioni autentiche.

    In realtà, abbiamo sempre più bisogno di sperimentare comunicazioni sincere. Se questo è vero nella vita quotidiana, è ancora più evidente nell’ambiente di lavoro.

    Penso a quanto sia importante il contesto lavorativo nell’attività di servizio sociale.

    Svolgere lavori di prossimità ci porta costantemente a confronto con la sofferenza, la precarietà, il disagio e, non ultimo, con la limitatezza delle nostre risorse. Ne può derivare un senso di solitudine, di amarezza e di impotenza che, in alcuni casi, ci può gelare. Un gelo che ci può avvolgere, che può entrare dentro di noi e può diffondersi accanto a noi come un pesante alone invisibile.

    Nei lavori di prossimità, il gelo blocca, frena l’innovazione e impedisce alla vita di generare.

    Troppo spesso i nostri servizi sono impregnati di questo gelo.

    Gli sguardi, i volti, il clima trasmettono freddezza; il dialogo e le relazioni sono avvolti da una barriera di lontananza che frena una reale comunicazione.

    È in questa condizione che a volte ci si trova a vivere la propria professionalità: nella solitudine.

    Se da un lato la professione ci chiama a essere guide relazionali e attivatori di relazioni costruttive, dall’altro il nostro contesto di vita lavorativa ci fa sperimentare la sconfitta della comunicazione.

    Senza avere la pretesa di analizzare i motivi reconditi di questa realtà, ritengo che molto dipenda dall’approccio individualista del nostro modello di vita, dalla competitività che porta all’emergere del singolo a scapito del gruppo.

    Il rischio è quello di far prevalere una logica di predominanza e di scarsa propensione alla collaborazione e alla condivisione. Nel primo quaderno di OasiLab, Martino Rebonato richiamava il concetto di degrado entropico che scava la linfa vitale della nostra società2. La conseguenza è quella di avere servizi disuniti che non riescono a valorizzare le energie presenti e le capacità di ogni singolo operatore nella sinergia dell’unità.

    L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio (Italo Calvino, Le città invisibili Einaudi 1972).

    Guardiamoci attorno. Come sono i nostri ambienti di lavoro? Non è difficile scorgere invidia, maldicenze, disimpegno, sfiducia, falsità, egoismo, desiderio di apparire, incapacità di condividere. Forse è troppo duro parlare di inferno, è certo però che non è così semplice trovare nei nostri servizi spazi di condivisione vera, disponibilità a un autentico scambio professionale e alla costruzione di qualcosa di nuovo.

    È qui che, guardandoti attorno, puoi rischiare di sprofondare nella solitudine, puoi incontrare la sofferenza, puoi scegliere consapevolmente o inconsapevolmente il distacco o la contaminazione al gelo oppure puoi decidere di cercare.

    Non sembra sia difficile riconoscere quella vibrazione positiva. L’importante è provare a mettersi sulla stessa frequenza. Come cercare la musica giusta alla radio: quando senti le note che ti fanno vibrare il cuore, ti fermi, ascolti e ti lasci coinvolgere.

    Così è nelle relazioni significative: poche parole, scambiate anche per caso, risvegliano dentro qualcosa, una consonanza interiore… e ci fanno tornare.

    Cercare… non fermarsi. Sono tante le occasioni di incontro che possiamo vivere nel nostro lavoro. Dovremmo dare più spazio agli incontri, al confronto, immergendoci sotto la superficialità. Si tratta di vivere nella disponibilità all’incontro; non è soltanto un avvenimento, ma un atteggiamento, una disposizione abituale. Chi si abitua a vedere gli altri affina la capacità di intuizione, un momento particolare del conoscere che ne stimola la profondità.

    Saper riconoscere… serve attenzione e apprendimento

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