Modernità e Metafisica - Leussein Rivista di studi umanistici anno III, n. 2
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Recensioni su Modernità e Metafisica - Leussein Rivista di studi umanistici anno III, n. 2
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Anteprima del libro
Modernità e Metafisica - Leussein Rivista di studi umanistici anno III, n. 2 - Associazione Culturale «Leusso»
Anno III – n. 2 – Maggio/Agosto 2010
Quadrimetrale dell’associazione culturale «Leusso»
ISSN: 1974-5818
ISBN: 978-88-6619-000-4
Registrazione al Tribunale di Roma n. 206, del 16 -5 - 2008
Direttore Responsabile: Benedetto Coccia
Comitato di Redazione:
Gianluca Sacco, Luca Sinibaldi, Fabio Vander.
Responsabile Conunicazione: Italo Adami
Ufficio Stampa: Luca D’Orazio
Redazione: Associazione Culturale «Leusso»
Viale Regina Margherita, 1 – 00198 Roma
website: www.leusso.it – e-mail: rivista@leusso.it
Realizzazione Sito Web: Claudio Celeghin
Ideazione grafica: Edizioni Universitarie Romane
Editore: Edizioni Universitarie Romane
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λeùssein
Rivista di Studi Umanistici
In questo numero
Editoriale 5
Argomento
Metafisica e modernità
Fabio Vander
Unterwegs zur Kritik. Per la critica dei critici della secolarizzazione 9
Giorgio Mele
Essere, esistenza, liberta’ nella filosofia di Jean-Luc Nancy 39
Luca Sinibaldi
Il soggetto contemporaneo come apertura. L’orizzonte storico ed epistemologico al di là della filosofia sistematica 55
Pier Paolo Fiorini
L’implicazione del tempo nella metafisica moderna: una riflessione tra Kant e Heidegger 71
Approfondimenti
Silvia Acocella
Cosmologie novecentesche: dai buchi neri ai cieli di carta 97
Luca Bellocchio
Dissipatio Europae? Forma e forza dell’Ue nell’era della fine del sistema internazionale 107
Cinzia Giorgio
Interpretazioni del mito di Pandora 127
Giovanni Scattone
Thomas S. Kuhn: rivoluzioni scientifiche, tensione essenziale e principio di analogia 135
Andrea Villa
Una funzione dello stereotipo 145
Inediti e rari
Modernità e crisi in Ferrero e Tilgher (Fabio Vander) 155
Guglielmo Ferrero La liquefazione dell’Universo 159
Adriano Tilgher Fra due disperazioni (Lettera aperta a G. Ferrero) 164
Guglielmo Ferrero Il trionfo di Alverighi 170
L’Hobbes di Michael Oakeshott (Fabio Vander) 176
Michael Oakeshott, Thomas Hobbes 179
Michael Oakeshott, Thomas Hobbes (tr. it. di Luca Sinibaldi) 194
Critiche e recensioni
Dieter Henrich, Metafisica e modernità (di Fabio Vander) 207
Ernesto Preziosi, Fra storia e futuro (di Benedetto Coccia) 210
Carmine Di Sante, L’uomo alla presenza di Dio (di Paola Mancinelli) 212
Aristotele, Della filosofia (di Fabio Vander) 216
Jan Patočka, Che cos’è la fenomenologia? (di Riccardo Paparusso) 221
Hanno collaborato a questo numero 227
Editoriale
Affrontiamo questa volta, nella parte monografica, qualcosa d’essenziale. Potrebbe dirsi il problema dei problemi: metafisica e modernità. Proprio per la peculiarità e decisività del tema abbiamo deciso per un taglio dei contributi esclusivamente filosofico, evitando interdisciplinarità
che avrebbero solo appesantito e deviato il discorso.
Mai come in questo caso e di questi tempi il ritorno ai fondamenti pare opportuno. Dalla valutazione che si dà di certi temi e problemi dipende infatti non solo l’intelligibilità o meno della tendenza fondamentale del nostro tempo
, ma anche il modo in cui ci si dispone entro di esso, come lo si interpreta e ci si interpreta, come si vive, si lavora, si pensa, non ultimo si fa politica.
Del resto che il tema della modernità sia al centro del dibattito pubblico e anche filosofico non è dubbio. Ma certo letture invalse e impostesi negli ultimi decenni mostrano oggi tutti i loro limiti e rendono urgente un superamento che abbia però adeguato respiro e profondità teorica. Fare il punto dopo il ‘900 è una necessità indifferibile. Se finita è infatti l’epoca dello storicismo, è bene finisca presto anche quella del post-moderno e delle sue ideologie; se la secolarizzazione non può a sua volta tradursi in ideologia, anche i periodici ritorni
della fede debbono evitare i rischi del fondamentalismo.
Fare i conti con la modernità è dunque un compito di tutti. Filosofia, religione, economia, politica, sono chiamate ad aggiornare i propri statuti in modo che il senso del limite non sia vissuto come una diminutio, ma come il presupposto di una nuova stagione delle relazioni inter-umane e del vivere civile.
Il compito di una rivista come la nostra è allora offrire contributi nei quali l’approfondimento teorico non vada disgiunto da uno sguardo chiaro sul presente, sulle tendenze di fondo, sui problemi e le speranze. Appunto quanto tentato nella Parte Monografica del presente fascicolo. E comunque con l’impegno ad approfondire il tema anche nei prossimi numeri.
Fra i rari
presentiamo un breve ma intenso dialogo su un giornale dei primi anni ‘20 fra Guglielmo Ferrero e Adriano Tilgher proprio sul tema che più ci interessa: la crisi della modernità, il tramonto dell’Occidente
, i rischi per l’umanità e per la democrazia dopo la Grande Guerra
. Anche l’inedito
, che propone per la prima volta in italiano il saggio di un filosofo politico inglese su Thomas Hobbes, è occasione di riflessioni interessanti sul senso della politica, a confronto, alla metà degli anni ‘30, non solo con uno dei padri della modernità politica, ma anche con il grande pensiero politico del periodo: Carl Schmitt, Leo Strauss, Ferdinand Toennies.
Argomento del numero:
Metafisica e modernità
Fabio Vander
Unterwegs zur Kritik.
Per la critica dei critici della secolarizzazione
"Le cose non sono quali sono, se non perch’elle son tali.
Ragione preesistente o dell’esistenza o del suo modo,
ragione anteriore e indipendente dall’essere e dal modo
di essere delle cose, questa ragione non v’è"
(G. Leopardi, Zibaldone, n. 1613)
Das Sein ist absolut vermittelt
(G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito)
Per noi Modernità è mediazione. Absolut vermittelt. Assoluta mediazione, assolutamente relativa. È insieme: cultura della mediazione, politica come mediazione (regolazione del conflitto), diritto come mediazione (formalizzazione dei rapporti fra interessi e bisogni), scienza come mediazione (fra uomo e natura e degli uomini fra loro nel produrre e far circolare la conoscenza).
La dialettica è l’organon della mediazione. E perciò indisgiungibile dalla vicenda della Modernità (non a caso la crisi della Modernità, maxime nel Novecento, coincide con la crisi della dialettica). Essa è precisamente lo strumento con il quale il pensiero corrisponde alla struttura intima dell’essere (che è finitezza, contraddittorietà ed appunto mediazione). La dialettica dice l’essere in quanto contraddittorio. È la contraddizione del/nel pensiero.
La dialettica è critica, se la critica è negazione finita (cioè positiva, costruttiva, come vedremo dirà Tronti) di un esistente finito (cioè non dato una volta per tutte e dunque revocabile).
La dialettica è critica in quanto l’essere è autocritica. La dialettica dice l’essere dell’ente in quanto contraddizione. È l’unico linguaggio, légein, perfettamente corrispondente alla verità (contraddittoria) dell’essere.
Facciamo questa premessa, ma altro ovviamente specificheremo nel corso del saggio, per rendere sin da subito chiari i termini della nostra contrapposizione con gli intellettuali con i quali ci avviamo al confronto.
Ne va del senso dell’essere, del senso della critica, se si vuole del senso dell’essere in quanto critica.
Quel ch’è certo è che il confronto sarà senz’altro non accademico se è vero che a tema sono argomenti come la Modernità, la crisi di civiltà, il "ritorno del religioso", l’immanenza, la trascendenza, la possibilità della critica, da cui ne va della nostra intelligenza del presente e dunque del nostro futuro.
Filo conduttore sarà un volume di recente pubblicazione[1] che raccoglie le relazioni ad un ciclo di seminari su Sacro e secolarizzazione, tenutisi in Roma fra 2006 e 2007, presso il Centro per la Riforma dello Stato.
L’impianto del libro lo diremmo reazionario in senso proprio. Integra infatti gli estremi di un’invettiva contro la Modernità, peraltro soggetta ad una lettura riduzionista in termini di razionalismo e nichilismo, che ricalca gli stilemi più tipici dell’antimodernismo moderno
(e, oggi, post-moderno)[2].
Pasquale Serra nell’introduzione, trattando del tema quanto mai attuale del "ritorno del religioso, inizia con il considerarlo come
totalmente dipendente dalla forma della secolarizzazione" (Serra, p. 9) e precisamente dalla sua crisi. Ora che i due temi siano connessi è senz’altro vero, quello che non crediamo è che la crisi dell’una cosa richiami sic et sempliciter la fine dell’altra, cioè, per dirla chiara: il fallimento della secolarizzazione determini quello della modernità qua talis, legittimando in questo modo il ritorno del sacro
. Sarebbe come dire: la Modernità se l’è cercata. Il troppo razionalismo spiegherebbe/giustificherebbe il ritorno di irrazionalismo.
Sembrerebbe questa la tesi di Serra che, richiamando Mario Tronti, mostra di ritenere inevitabile il ritorno di quel circolo fra il sacro e il secolare, che la modernità sembrava aver risolto una volta per tutte
(Serra, p. 9).
Noi al riguardo preferiamo l’approccio di Emanuele Severino, che di fronte a fenomeni quali appunto il ritorno del sacro
e i fondamentalismi religiosi, sostiene che si tratta in verità degli ultimi colpi di coda delle ideologie (religiose, ma poi anche politiche, economiche, culturali); ritorni di fiamma contingenti e dal destino segnato, destino che è quello appunto di un’integrale secolarizzazione, che non lascia scampo a trascendenze e ‘retromondi’[3]. Il ritorno del sacro
dunque non come smentita della Modernità (e del suo preteso razionalismo), ma come para-dosso, nel senso etimologico di vana contrarietà ad un’opinione
, che conosce invece oggi la sua fase suprema.
Si può aggiungere che Severino si rincresce per questa tendenza, che definisce metafisica e in ultima istanza nichilista, ma in ogni caso la considera appunto necessaria, irreversibile.
In altre parole la Modernità può conoscere, come qualsiasi altra epoca, crisi di crescita, ma non sarà un qualche ritorno fondamentalista a revocare un processo di portata epocale.
La secolarizzazione è un destino.
Noi semmai ci distinguiamo da Severino per due riguardi affatto particolari: 1) non ci rincresciamo per questa tendenza; 2) soprattutto fondiamo l’analisi e il ragionamento a partire da presupposti differenti.
Per noi la contraddizione (e quindi la finitezza, la relatività, l’immanenza) non è errore (da scongiurare a mezzo di un principium preteso firmissimum), ma l’essenza della verità. La relatività (sulla differenza dal relativismo diremo subito) è una positiva conquista della Modernità (non richiede alcuna riparazione
, men che meno fideistica, trascendentista).
Per noi il circolo fra il sacro e il secolare
non è che ritorna
, ma non se n’è mai andato, perché è metafora proprio della verità originaria, cioè appunto della contraddizione, che da sempre e per sempre è l’essere dell’ente. Perciò difendiamo la Modernità: perché non pensiamo affatto che essa, per come l’hanno concepita i moderni (e non per come l’hanno travisata gli antimoderni), abbia negato l’un termine assolutizzando l’altro[4].
Si può apprezzare la relatività senza essere relativisti (come ha pieno diritto di cittadinanza una sensibilità religiosa intelligentemente moderna).
Tanto che i modernisti assolutisti (un esempio per tutti: i Futuristi) vanno sicuramente considerati anti-moderni.
Il modernismo anti-moderno a noi non interessa. Interessa la Modernità more moderno demonstrata.
Non a caso se si dà una rapida scorsa alla storia del Novecento i Futuristi li si ritrova presto tutti fra le braccia della reazione, del fascismo, del nazismo (anche qui bastano pochi illuminanti esempi: il dadaista Evola che diventa nazista tradizionalista, i futuristi Marinetti o Balla o Bottai che diventano fascisti, l’avanguardista Pound che finisce pure lui nazista, ecc.).
Dunque, prima di tutto: non confondere la Modernità con la sua assolutizzazione. Una confusione in cui invece cadono immancabilmente tutti gli autori della raccolta in questione.
Così se è condivisibile lo sforzo di "pensare insieme mediazione e trascendenza, dialettica e ontologia (Serra, p. 22), bisogna però poi aver chiaro che questo
insieme è precisamente la dialettica come scienza della contraddizione, dell’essere che è
insieme" non-essere. Detto altrimenti: la trascendenza se pensata davvero insieme all’immanenza è de-trascendentalizzata, non è più, a rigore, qualcosa che sta al di là, che ecceda la nostra valle di lacrime
[5]. E molti dei partecipanti al dibattito, vedremo, ne sono consapevoli (e paventano questa situazione, non a caso quelli fra loro più acutamente anti-moderni).
L’immanenza basta a se stessa[6]. Essa ospita infatti la differenza, ma una differenza fondata. Non cioè mistica irrelazione (trascendenza in senso astratto), ma differenza che ha appunto un fondamento, che poggia su una identità che è propriamente l’identità della differenza.
Si ha differenza fra trascendenza e immanenza quando l’immanenza è intesa come differenza fondata; mentre la trascendenza come differenza infondata, irrelazione pura, è aporetica.
Serra argomenta nel modo seguente: È la trascendenza, non un rigoroso pensiero dell’immanenza, che, consentendoci di spostarci da una congiuntura all’altra, può fondare una radicale teoria del divenire
(Serra, p. 22); Serra ha insomma bisogno di un agente esogeno per muovere
l’immanenza. Questo a nostro avviso capita quando si intende in modo mistico tanto l’immanenza quanto la trascendenza. Diverso è invece il caso dell’immanenza che fa da sé, che la trascendenza l’ha in sé, rappresentata dalle più proprie ragioni del proprio essere e divenire[7].
Per muovere verso la critica, bisogna aver chiara la critica che è in noi e nella cosa che intendiamo criticare.
La critica è la ragione dell’immanenza, è la trascendenza dell’immanenza. La secolarizzazione, nella misura in cui rende esplicita, svela, questa coappartenenza di fondo, svolge opera meritoria.
Immanenza e divenire idem sunt. Il problema è quello dell’autocritica dell’immanenza. Se si vuole: l’autocritica della critica. È la capacità, pensabile solo in termini dialettici, di dare da sé la ragione della differenza, dei suoi termini e appunto del divenire; in altre parole tanto della congiuntura
quanto dello spostarci da una congiuntura all’altra
.
Il Moderno non ha bisogno d’altro. Ha in sé l’altro, come ragione del suo stesso essere e divenire. La secolarizzazione ha appunto il merito di porre in evidenza (oltre ogni ideologia cioè contro ogni assoluto) proprio questa signoria
della critica.
Perciò il finito, in ragione proprio della sua finitezza, si autocritica nel senso che non potendo mai conservare il suo essere, se non come essere che non è, di conseguenza e necessità è transeunte, cioè ha bisogno d’altro per soddisfare la sua insormontabile fame
di perfezione. Ma passa ad altro perché è altro; essendo finito è indigente
, è dürftiges Sein, un essere che ha bisogno di completare la propria finitezza, donde lo streben a cercare una compiutezza che è impossibile da attingersi, ma sufficiente a far muovere il finito, a farlo infinitamente tendere. La trascendenza (a voler usare questo termine) è dunque attitudine del finito, apparato servente del suo divenire, del suo volere/dovere tendere ad un essere che è dover-essere.
La trascendenza è variabile dipendente dell’immanenza.
Che a un certo punto le filosofie del divenire (rigorosamente immanentistiche) non si muovono più
(Serra, p. 23), lasciamolo dire a Del Noce, cui il senso proprio della dialettica è sempre sfuggito e che assolutizzando il finito, trattandolo come fosse l’Infinito, cioè trattando il divenire come fosse l’Essere (della metafisica), per forza di cose trova che non si muove. Proprio come non si muove l’Essere di Parmenide. Ovvero come l’essere di qualsiasi altra possibile trascendenza, dato che ogni trascendenza, rigorosamente intesa, non può che essere eleatica[8].
Questo divenire
non è il divenire della Modernità. È l’immobile divenire dei nemici della Modernità.
Con un approccio del genere non si arriverà mai a fondare un qualche rapporto fra trascendenza e immanenza. Se si rinuncia a pensarlo fuori della prospettiva dialettica, ci si involge soltanto in quelli che altro non possono essere che autentici ossimori del tipo di "monismo dualistico" (Serra, p. 24).
L’intervento di Adele Patriarchi inizia con alcune interessanti precisazioni terminologiche. È con i padri della Chiesa che "il termine saecŭlum comincia ad assumere l’accezione di mondo in contrapposizione a ciò che è ultramondano e quindi sacro, ma presto al significato meramente denotativo se ne va ad aggiungere uno più spiccatamente polemico in senso negativo; in Agostino è infatti chiaramente
sinonimo di profánus che è l’opposto di sácer (Patriarchi, p. 28). Così intesa la secolarizzazione è il
processo attraverso cui si mondanizza il sacro, si profana il sacro".
Donde però subito la domanda: concesso che non si intende semplicemente esorcizzare la secolarizzazione (e conseguentemente il Moderno) in nome di un sacro come pura trascendenza, come però pensare il nesso fra i termini? Come pensare cioè non dialetticamente (visto che così si vuole) la mondanizzazione del sacro? È il problema di praticamente tutti gli interventi, a cui però praticamente tutti rispondono univocamente. In termini con i quali intendiamo interloquire criticamente.
Restiamo infatti convinti che per questa via non si esca dall’aporia. Dall’aporia cioè di presumere un sacro
immancabilmente "extra-temporale e
atemporale eppure
contemporaneamente disgiunto e congiunto rispetto al presente (Patriarchi, p. 31). Vero che la Patriarchi parla anche di
dialettica sacro-profano, ma se si rigorizza il termine dialettica e se ne traggono le conseguenza teoriche, non si possono poi usare termini che continuano a presupporre una trascendenza assoluta, come nel caso del sacro,
allusivo ad un mondo altro o come nel caso del cosiddetto
eccesso di senso che gli oggetti quotidiani non possono contenere
e che dunque rimanda ad una dimensione autre, ecc.
A nostro avviso non si dà eccesso di senso
. Il senso è sempre giusto; né più né meno (tutto ciò che è reale è razionale...
cioè ha il suo giusto i.e. necessario senso
). Non si dà eccesso
semantico se si intendono correttamente i termini del problema; tutto si tiene e tutto si spiega nell’inner circle della fondazione dialettica.
Lo stesso vale per le riflessioni sul concetto di tempo. Già la distinzione fra tempo sacro
e tempo profano
è impraticabile. Tempo sacro
è infatti una contradictio in adjecto (o è tempo o è sacro); mentre tempo profano
è un pleonasmo. Né c’è bisogno del sacro per giustificare quelle "interruzioni (es. festa) nella continuità del tempo ordinario che permettono di riposarsi, di riflettere, di divertirsi. Il tempo ha in sé le ragioni del proprio divenire, come delle sue pause (che poi sono solo modalità di
rallentamento" dell’attività, mai di reale azzeramento della stessa; anche il dormire è una modalità del fare, è un’attività). Il tempo temporeggia. E lo fa in quanto tempo, senza mai cessare di essere tempo, senza soluzioni di continuità (le soluzioni di continuità del tempo sono temporali) né bisogno di agenti esterni (neanche il tempo conosce eccessi di senso
, né difetti).
Del resto anche il passo di Ernesto De Martino, citato da Patriarchi, in cui si dice che il ‘sacro’ è un orizzonte istituzionale
, che serve in verità solo a rendere tollerabile all’uomo la sua grama esistenza, che serve a destorificare il negativo
(cit. a p. 34), a esorcizzare la fatica, il dolore, la morte, a noi sembra qualcosa che assomiglia troppo al marxiano oppio dei popoli
(De Martino parla proprio di "détour della religione") per essere apprezzabile in sede di critica della secolarizzazione.
La storia invece è superamento di crisi a mezzo di crisi. Di nuovo: non c’è bisogno di agenti esogeni. All’uomo cioè non serve di essere reintegrato nel profano
(Patriarchi, p. 36), perché non se ne è mai dis-integrato; non è trascendibile il piano della storia (cioè del finito, del transeunte, del critico, del contraddittorio). Se si vuole: la dinamica integrazione/dis-integrazione è la molla
(termine caro a Croce e Gentile pensatori della storia) del divenire e dunque della storia.
Quando si dice, classicamente, che la storia non facit salta, questo si vuole dire (e questo intendevamo dicendo che le soluzioni di continuità nel tempo sono temporali): l’assoluta continuità del suo statuto ontologico (ontologico-dialettico naturalmente, per contraddizioni e dunque per crisi, soluzioni di crisi, nuove crisi).
Del resto mi pare sia questo che intende Brelich (di contro a Levi-Strauss) quando parla di dialettica fra sacro e profano
, tanto che aggiunge subito che in questo modo il sacro
è infirmato, relativizzato, dunque desacralizzato. Scrive infatti Patriarchi: "In Brelich il sacro viene costantemente convalidato e, di conseguenza, si può ammettere una sua evoluzione (Patriarchi, p. 38); poi ne trae anche conseguenze rigorose:
Che un oggetto o una credenza sacra possa essere desacralizzata, resa quotidiana, è un movimento coerente con lo sviluppo della dialettica sacro-profano (p. 40). È la conferma che la
dialettica sacro-profano", rettamente intesa, porta inevitabilmente alla relativizzazione del sacro. I problemi semmai dipendono dal fatto che la Patriarchi non è disposta a sopportare il peso di questa rigorizzazione del discorso sul sacro, ritiene infatti che la corrosione
dell’assolutezza di questo, farebbe venir meno la differenza qualitativa del sacro rispetto al profano
e dunque la stessa dialettica sacro-profano
. Il punto è che non si riesce a realizzare come proprio la dialettica sacro-profano
esclude recisamente qualsiasi differenza qualitativa
fra i termini; non è un rapporto fra un assoluto e un relativo, ma fra due relativi, fra termini che hanno cioè la stessa struttura ontologica: ontologico-dialettica, finita, contraddittoria. È se il sacro viene concepito come assoluto, che la dialettica viene privata della sua contraddizione
(e quindi stravolta, de-dialettizzata), non il contrario come crede Patriarchi. È se si intrude l’assoluto nel suo circuito che si ha cattiva
dialettica.
Pietro Secchi imposta il suo intervento a partire da una ricostruzione di lungo periodo dei processi di secolarizzazione. Se la Rivoluzione francese scisse con più nettezza religione e vita civile, pure le origini della distinzione erano remote; accennato allo scisma d’Oriente del 1054, in cui la chiesa greca si era separata da quella romana, è soprattutto con la Riforma di Lutero che viene istituzionalizzata la dottrina dei due regni
. In pratica il Protestantesimo tolse alla Chiesa e al sacerdozio la loro funzione di "medium, sancì
l’inesistenza di ogni ente intermedio fra il Creatore e le creature (Secchi, p. 72), sicché trascendenza e immanenza restarono
due mondi opposti" (Secchi, p. 66), irriducibili.
Solo la nettezza della Protesta, fondando l’irrelazione assoluta fra le due dimensioni, aprì alla secolarizzazione integrale della Rivoluzione francese, dove poi il sacro poté addirittura essere subordinato (quindi non più solo contrapposto) al profano.
È dalla crisi del cristianesimo che nasce dunque la secolarizzazione. E più in generale la Modernità, come la abbiamo conosciuta in Europa e nel mondo occidentale negli ultimi due secoli.
La secolarizzazione
protestante sarà anche incompiuta
come sostiene Secchi, ma nel senso che è condizione originaria, necessaria per quanto non sufficiente, di quel processo che poi solo nella Rivoluzione francese avrebbe avuto il suo compimento moderno (cioè avrebbe raggiunto la compiuta secolarizzazione).
Ciò detto però, il Protestantesimo accoglie per primo anche tutti i limiti di fondo delle concezioni fondamentaliste della modernità. Dà luogo infatti a una cultura della differenza assoluta, della non mediazione, del conflitto incomponibile che è la ragione vera di tutto l’antipoliticismo (e quindi l’autoritarismo e anzi il totalitarismo) moderno.
Non può esistere una dottrina della politica su base protestante. Lutero infatti con la sua tesi (in sé giusta) del servo arbitrio
, cioè del fatto che la nostra libertà è sempre ‘vigilata’, sempre relativa (dato che siamo schiavi del peccato
), giunge alla conclusione che, poiché è impossibile una autentica libertà esteriore
(cioè al di là di quella intima, spirituale), è di conseguenza necessario piegarsi all’autorità politica, per quanto crudele e ingiusta possa essere
(Secchi, p. 74). La dimensione critica è totalmente estranea al pensiero civile di Lutero; la sua si riduce ad una apologia dell’esistente. La Protesta, che aveva liberato dall’autorità ecclesiale, non aveva saputo (né soprattutto voluto) liberare dall’autorità secolare
.
Quella di Lutero può anche essere definita una ontologia politica o meglio non-politica se è vero, come dice Luigi Firpo citato da Secchi, che con la dottrina politica luterana […] l’ordine vigente è raggelato in una staticità negatrice di ogni progresso
(Secchi, p. 78).
Dunque la differenza assoluta mette capo ad un’identità raggelata
, cioè senza differenza, che per quello che ci riguarda è quanto volevasi dimostrare. Questa ontologia consideriamo infatti la categoria dell’impolitico del protestantesimo, che sarà poi alla base di tutti gli esperimenti totalitari moderni.
Un tale confronto con Lutero è utile, perché ha permesso di accennare al fatto che non ogni distinzione fra sacro e profano si risolve in una soddisfacente dottrina della secolarizzazione e dunque della Modernità.
Il contributo di Gabriele Guerra si concentra sul capitale tema: Apocalittica ed escatologia. A noi ha interessato soprattutto l’ultima parte, quella in cui sono messe a confronto le prospettive teoriche di Taubes e Balthasar che, pur fra importanti differenze, convergono però sul punto cruciale della radicale alterità fra trascendenza e immanenza. Quella di Taubes è una teologia messianica della storia, che fa ricadere la redenzione al di là di questa
(Guerra, pp. 90-91); di conseguenza non è possibile un’azione storica efficace
, perché questo mondo è intrinsecamente pervaso dal male
e non ci si può aspettare aiuti esterni, perché il dio che pure dovrebbe darci gioia
è in verità un dio straniero
(Guerra, p. 92).
L’alterità assoluta, rende vana ogni cura del mondo da parte di Dio.
Detto altrimenti: se la differenza fra peccato e valore, fra bene e male è pensata in termini assoluti, non possono aversi politiche della salvezza
.
L’estremo pessimismo di Taubes, il suo piegare l’apocalittica in termini gnostici (cfr. Guerra, p. 91) presuppone appunto questa impossibilità. La specularità con Balthasar è su questo punto; anch’egli infatti presuppone una secca alterità: noi esseri intramondani possiamo solo sperare di essere "inondati di luce dall’alto" (Guerra, p. 92), da un’altra dimensione. Certo poi che solo una fede contesta di gnosticismo può pretendere una difficile convivenza con una tale alterità assoluta.
Quindi come sulla base di Taubes o di Balthasar, cioè di un coerente trascendentismo, si possa produrre politica, umana gestione e modificazione dell’esistente, rimane un mistero. Tanto che Guerra parla di spinta metafisica a produrre nella sfera pubblica – politica e culturale – una verità ulteriore che allo stato attuale risulta inaccessibile
(Guerra, p. 93).
Ora un tale modo mistico, quando non direttamente irrazionale, di porre il problema della politica, non può che avere esiti nefasti sugli statuti di questa. La trascendenza come assoluto, porta all’assolutizzazione dell’Altro e quindi in specie all’assolutizzazione del Nemico. Solo con l’annientamento di questo si potrà sperare di guadagnare l’epoca felice del Paradiso in terra. Guerra la dice così: L’individuazione del nemico politico-escatologico, se da un lato implica la sua radicale, assoluta negativizzazione, dall’altro comporta però una conseguenza politico-mondana importante: esplicita l’idea, cioè, che una volta superato o eliminato questo ostacolo, si aprirà il periodo splendente e senza tempo della felicità
(Guerra, p. 95). Il Genocidio come premessa della Felicità.
Atteso che approfondiremo la tematica schmittiana di Amico-Nemico più avanti, trova comunque conferma un nostro radicato convincimento: le dottrine più conseguenti della trascendenza e ogni pensiero della differenza assoluta, estremizzando i termini in opposizione, comportano precisamente la assoluta negativizzazione
dell’Altro, quindi il trascendimento della sfera della politica