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Novelle gaie
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E-book277 pagine3 ore

Novelle gaie

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Info su questo ebook

Tredici sono le novelle contenute in questa suggestiva raccolta. Le esperienze quotidiane e le condizioni dei modesti protagonisti si intrecciano con le profonde riflessioni dell'autrice. Dalle passioni sbocciate sui banchi di un corso di tedesco, passando per la storia di un povero indigente adottato da una nobile zia, fino ad arrivare alle vicende dell'inetto Gregorio: in ognuno di questi racconti si cela un piccolo scorcio di una società che si prepara alle travolgenti rivoluzioni del XX secolo.-
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2021
ISBN9788726991260
Novelle gaie

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    Anteprima del libro

    Novelle gaie - Anna Zuccari

    Novelle gaie

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1879, 2021 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788726991260

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    UNA LEZIONE DI LINGUA TEDESCA.

    Et je fis deux heureux à la fois!

    Béranger.

    Raccontate — io dissi — ed egli incominciò: «Compivo a Bergamo l’ultimo anno di liceo quando, stimolato da un amico, mi posi in capo di studiare il tedesco, e lo stesso amico s’incaricò di scegliere il professore — un professorone coi fiocchi certamente, un Anderbuchen o un Vlandisbachen colla barba, cogli occhiali e con tutto lo scibile umano nel cervello.

    — Vieni — mi disse un giorno l’amico prendendomi sottobraccio — voglio presentarti alla fonte eccelsa dove noi beveremo a ondate, a fiotti, a torrenti la tedesca sapienza.

    Prendemmo la salita di città — e su e su lungo i Torni che serpeggiano a guisa di spira sul cocuzzolo della montagna.

    — Dove diavolo mi conduci?

    — Il genio abita sempre in alto, le vette o il quinto piano. Il primo piano e le valli sono per la gente da poco, per gli infelici banchieri carichi di reumatismi, per i milionari idioti, razza plebea che non comprende la voluttà dell’aria libera, del cielo spazzato.

    — E di quindici lire al mese per il fitto.

    Eravamo giunti. L’amico bussò a una casetta piccina e bianca che dominava da un letto di verdura tutta la valle del Brembo; aveva davanti un giardinetto pieno di rose e a tergo i picchi di granito vestiti di muschio. Vi si respirava l’idillio — ma io me lo guastai anticipatamente pensando alla barba del professore — caso morale e pratico per dimostrare che a guastarsi le idee si è sempre a tempo! Comparve una giovine signora bionda, grassotella, con un nastro ceruleo intorno alla vita.

    L’idillio era completo.

    Guten Tag! — diss’ella inchinandosi con una mossa franca e leggiadra.

    — Madamigella — rispose il mio amico — noi siamo totalmente stranieri alla lingua di Goethe e voglia permetterci di salutarla in italiano.

    Ella biascicò qualche parola italiana facendosi rossa — e per mio conto capii più il rossore che le parole.

    — Vittorio — dissi piano al mio amico — costei è la figlia del professore?

    — Stupisci e impara. È il professore stesso.

    Stupii sùbito — l’insegnamento venne dopo...

    Un professore in gonnella! che larga prospettiva di istruzione volontaria e di scienza applicata, per due studenti!

    In quell’istante avrei pagato dieci lire un frammento di specchio, e le avrei pagate tanto più volontieri perchè ciò implicava la supposizione che le dovessi avere.

    L’amabile maestrina ci chiese se volevamo incominciare sùbito la lezione. Vittorio mi consultò collo sguardo — a dir vero ci aspettava il ripetitore di fisica con un tema preparato sull’attrazione dei corpi celesti — ma qual corpo potevasi imaginare più celeste di quella ventenne giovinetta, fresca come il mattino e raggiante come un sorriso?

    Attrazione per attrazione, Vittorio ed io non stemmo in forse. Cinque minuti dopo si sedeva tutti e tre attorno a un tavolino lungo un metro e largo sessanta centimetri.

    Ella era la maggiore, noi toccavamo appena i diciotto anni — e vi domando cosa si fa, con cinquantasei anni in tre, attorno a un tavolino!

    Credo che per quel giorno non abbiamo veduto altro che il cartone della grammatica — ma in compenso avevo osservato i bellissimi denti e la manina morbida di madamigella Wilhelmine.

    Nei giorni che seguirono fu una gara tra Vittorio e me per arrivare i primi alla lezione; accadeva di correre trafelati ambidue per strade opposte e di batterci il naso sulla porta della casetta solitaria. — Allora si prendeva un’aria seria:

    — Come hai anticipato!

    — Anzi tu!

    — Ti aspettavo.

    — Ti cercai dovunque.

    Sulle prime ella ci accoglieva gentilmente senza parzialità, ma mi parve notare che i suoi occhi diventavano oltremodo teneri quando correggeva sul mio foglio il verbo Lieben.

    Eravamo giunti alle piccole frasi e Wilhelmine accentava con sentimentale languore: Mein Herz seufzt nach ein unbekantes Wohl: il mio cuore sospira un bene ignoto.

    Anche il mio cuore incominciava a sospirare un bene... non troppo ignoto a dir vero — tuttavia nemmeno notissimo; non vorrei mi pigliaste per uno scapestrato.

    Io ero allora in quel periodo fortunoso della prima giovinezza che bene si può rassomigliare all’alba — il sole non è sorto ancora, ma non è più notte.

    Sentivo una dolce commozione quando la bella Tedesca mi guardava, o quando, sotto al piccolo tavolo, accadeva uno scontro più o meno involontario di ginocchi.

    Il focherello prendeva a poco a poco le proporzioni d’una fiamma.

    Un giorno, fatto ardito dalla circostanza che Vittorio raccoglieva per terra alcune penne cadute e quindi non poteva vedermi, mi impadronii della mano di Wilhelmine e la strinsi con tutto l’ardore d’una dichiarazione appassionata. Ella ritirò la mano, ma pochi momenti dopo scriveva sul mio quaderno: Eure Augen gefalien mir: e siccome avevo il dizionario davanti, tradussi senza fatica: mi piacciono i vostri occhi.

    Che poteva desiderare di più? Gli occhi sono la via del cuore e se alla bella prima madamigella Wilhelmine imbroccava la via giusta, io dovevo considerarmi senz’altro il più felice dei mortali — frase consacrata per l’uso speciale degli innamorati in estrema cottura.

    Alla lezione seguente, madamigella ci significò che i nostri progressi erano troppo ineguali per continuare a istruirci insieme. Si rimase d’accordo che io sarei andato alla mattina e Vittorio dopo mezzogiorno.

    La mia vanità fu oltremodo solleticata per questo ritrovato ingegnoso e il mio amore seppe approfittarne. Wilhelmine era una di quelle donne dolci, sentimentali e vaporose sulle quali si arresta quasi sempre la fantasia inesperta di un giovanetto in cerca del suo primo amore.

    Il primo amore, si sa, è indispensabile come il primo veglione — e torna poi comodissimo a quarant’anni, quando si sente il bisogno di rifare il cuore e di tessere un po’ di poesia retrospettiva.

    Wilhelmine dunque era sentimentale. Amava il raggio di luna, le stelle nuotanti in una striscia di latte, leggeva Werther, sfogliava le margherite e mostrava un delicato orrore per tutto ciò che sapeva di materia.

    Io l’adoravo. Avrei voluto avere ali d’angelo per sfiorare, accarezzandoli, i suoi biondi capelli. Invidiavo le zanzare e le mosche che si posavano sul suo bianco collo. Invidiavo il suo canerino che le baciava le labbra per carpirle una mandorla.

    Tenera e appassionata, non mi nascondeva l’affetto che le ispiravo, ma sapeva avvolgerlo in nubi così eteree che io stavo sempre sospeso fra il cielo e la terra.

    — Ella è pura come un cherubino — pensai — non somiglia alla Margherita di Goethe, ma piuttosto all’Ofelia di Shakespeare.

    Presi in conseguenza delle pose d’Amleto; mi vestivo di nero, passeggiavo di notte nel camposanto e le recava ai mattino una viola colta sul sepolcro d’una vergine.

    Un incidente semplicissimo accrebbe il romanticismo dei nostri amori.

    In una bella domenica sulla fine di aprile ella mi pregò di accompagnarla a pranzo da una sua amica, ed io mi feci un dovere di andare a riprenderla verso sera. La strada era lunga e noi senza fretta. Quando si giunse in cima ai Torni cadeva oscurissima la notte e il cielo senza luna copriva come un ampio padiglione azzurro la sottoposta valle del Brembo.

    — Mio angelo, le diceva, vedi tu quella stella che ci guarda soavemente? È l’astro del nostro amore.

    (NB. Robaudi non aveva ancora scritto la Stella confidente, senza di che potete essere persuasi che in un momento così patetico io non l’avrei dimenticata — anche a costo di stuonare.)

    — Mia vita — ella rispose — finché splenderà quell’astro in cielo il cuore di Wilhelmine splenderà del tuo amore.

    — Anima mia!

    — Mio sospiro!

    A questo punto ci trovammo davanti alla porta di casa sua e Wilhelmine sciogliendosi dal mio braccio cercò nel taschino dell’abito la chiave.

    — Quanto mi duole lasciarti! — mormorò ella improvvisamente. — Ho paura di morire stanotte e di non vederti più!

    Le donne hanno di queste idee funebri nelle ore più liete. Risposi:

    — Se vuoi, mi coricherò sotto alla tua finestra, sul muschio profumato e sognerò di te.

    — Vieni! — ella disse prendendomi gentilmente per la mano; — voglio mostrarti il mio piccolo giardino; intanto passerà la prima parte della notte e non avrò più paura a restar sola.

    Era buio, come nella coscienza di un ambizioso, ma ella volle ad ogni costo farmi vedere un boschetto in fondo al giardino, ed io per creanza le dissi che era bellissimo.

    — Entriamo nel folto di queste piante; udremo cantare l’usignuolo.

    — E vi resteremo, amor mio, fino ai primi trilli dell’allodoletta.

    Passai il mio braccio intorno alla sua vita e i suoi biondi capelli profusi m’avvolsero in una aureola, e il suo timido cuore innocente palpitava sul terzo bottone del mio soprabito. Fu una notte di cielo!

    Wilhelmine mi chiese di lasciarla morire fra le mie braccia — ed aveva abbandoni così casti, ebbrezze così pudiche ch’io mi sarei prosternato a’suoi piedi come sui gradini di un altare.

    — O Wilhelmine, cherubino dai capelli d’oro, mi amerai sempre così?

    E Wilhelmine oppressa dall’emozione, pallida di anguore, col capo abbandonato sul mio petto rispondeva:

    — Chiedi al fiore se in ogni mattino sarà aperto al bacio della rugiada, chiedi al zeffiro se cesserà di accarezzare i platani frondosi, chiedi al ruscello se rallenterà il suo corso, chiedi al sole di domani se brillerà ancora sulle nostre teste!...

    — L’aria è un po’ fredda, per te, mia divina!

    — Posa la tua mano sul mio cuore e mi sentirò avvampare. Tu sei la mia vita.

    L’allodoletta cantò e noi non l’udimmo.

    L’alba che spuntava dietro le creste dei monti ci sorprese abbracciati. Wilhelmine si coperse di un incantevole rossore.

    — Addio, mio puro giglio! — esclamai ebbro di felicità.

    — Addio, mio unico pensiero!

    Lungo la strada incontrai molte fanciulle che si recavano ai lavori.

    — Donne! mormorai guardandole con disprezzo. Donne plebee e volgari, materia appena animata. O Wilhelmine, spirito etereo, tu sola esisti per me!

    Durante la settimana chiesi invano alla mia bella di concedermi una seconda conversazione al raggio delle stelle — ella resistette dolcemente, ma con fermezza.

    Le era venuto qualche scrupolo; il suo cuoricino ingenuo temeva di abbandonarsi troppo alla passione.

    Pregai, piansi, promisi, ottenni.

    Al giovedì ci trovammo ancora — splendeva la luna — ella teneva sui ginocchi Werther tradotto in italiano — ed io sdraiato a’ suoi piedi leggevo le pagine più sentimentali — (la toccante descrizione di Carlotta che spalma il burro sul pane per i suoi fratellini).

    — Domenica vai ancora dalla tua amica? — le chiesi al sabato a sera.

    — Sì.

    — E verrò a prenderti?...

    — No, mio bene; non sarebbe convenienza... due domeniche consecutive!

    Ammirai il suo prudente riserbo, ma non potei resistere all’idea di restare tante ore senza vederla e meditai una graziosa sorpresa.

    Sull’imbrunire i Torni sono deserti; scavalcai senza fatica la siepe bassa del suo giardino e mi nascosi nel romantico boschetto, tempio di sì graditi misteri.

    Udii sonare tutte le campane, udii i falchetti stridere rintanandosi sui greppi e l’usignuolo modulare tra i rami il suo invito all’amore; colsi tutte le rose del giardino e le sfogliai sul piccolo banco di legno dove Wilhelmine appoggiava il suo corpicino morbido; c’era nella ghiaia dei sassolini bianchi che io baciai pensando che ella li aveva sfiorati col lembo della gonna.

    Finalmente udii la sua voce; non era sola — naturale — qualche vecchio zio o qualche cugino losco le avrà fatto da cavaliere. Ma i passi si avvicinavano. La voce chiara e simpatica di Wilhelmine pronunciò queste parole:

    — Vieni! voglio mostrarti il mio piccolo giardino.

    Pare una mania in lei!

    I passi si avvicinarono sempre più ed io mi rimpiattai alla meglio dietro un cespuglio.

    Vidi due ombre. La sua, bianca e vaporosa — l’altra, nascosta da un ampio cappello.

    Proprio sul limitare del boschetto Wilhelmine esclamò con quel tuono languido che io conoscevo tanta bene:

    — Sediamo sotto gli alberi; udremo cantare l’usignuolo.

    E la voce di Vittorio rispose:

    — Mia cara, c’è rischio di prendere un raffreddore.

    · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

    No, non ridete altrimenti non avrò il coraggio di confessarvi ch’io dovetti stare non so quante ore cheto e tranquillo dietro il mio cespuglio intanto che Wilhelmine e il mio perfido amico filavano l’amor platonico.

    Udii Wilhelmine che sfoggiava il suo repertorio di frasi sentimentali, che chiamava i fiori e la rugiada a testimonio del suo amore, che semi-svenuta sull’òmero di Vittorio mormorava con un fil di voce:

    — Vorrei morire ora!

    Insomma tale e quale la parte che recitava con me — un quadretto in doppio originale — una lezione in due tempi.

    E a proposito di lezioni, potete essere persuasa che io non ne presi altre dalla innocente maestrina — nè da nessuno.

    «Ecco perchè non conosco troppo bene la lingua tedesca.»

    __________

    COME LA MIA ANIMA FU PERDUTA

    ALLA GRAZIA.

    storia un po’ lunga.

    (Chi la narra è un giovanotto sui trent’anni molto simpatico, abbastanza spiritoso, elegante quanto è necessario per piacere a una donna di buon gusto senza dispiacere a una donna di buon senso; il suo nome è Torquato Gallieri degli Omodei; il suo stile è il seguente.)

    Tal quale mi vedete, membro del turf e dello steeple-chase, socio di molti clubs, abbonato al Libero Pensiero, con un piede nell’aristocrazia e l’altro nella democrazia (il primo in onore delle belle damine che adoro, il secondo per i miei amici che rispetto), irrequieto sempre, avido di emozioni e di piaceri; un’anima dannata infine; ebbene, tal quale mi vedete, io crebbi fra due abati, una beghina e un confratello della pia associazione del Buon Pastore.

    Il Canavese, piccola provincia che si stende da Ivrea a Candia, ebbe l’onore di darmi i natali: che questo fosse proprio un onore per il Canavese me lo ripetevano continuamente servi e vassalli del mio castello paterno. La boria e l’ignoranza, tenere sorelle, sedettero per tempo alla mia culla, spargendomi negli occhi polvere d’oro.

    Non v’era parete a me d’intorno che non ricordasse o in stemmi o in ritratti le alte gesta dei Gallieri degli Omodei.

    Rimasto orfano prima di uscire dalle fasce, una zia materna venne a istallarsi presso a me, assumendo la responsabilità della mia educazione. Per diciotto lunghissimi anni io non vidi altra donna che lei; potete immaginarvi se ebbi tempo di esaminarla! Ora permettete che ve la presenti.

    La marchesa Atenaide di Vavaroux, Monte, Rocca, Picco e Torre apparteneva alla vecchia aristocrazia piemontese e non era senza un po’di degnazione che dichiaravasi parente dei Gallieri degli Omodei, quantunque rimontando l’albero genealogico della mia famiglia non vi incontrasse alcuna macchia plebea; ma credo vi fosse qualche anno di meno nell’anzianità.

    Maritata giovanissima a un gran signore russo, un boiardo che la chiuse sùbito ne’ suoi castelli sulle rive inospitali della Dwina, ella languì otto anni; nobile fiore d’Italia fra i servi della gleba (come diceva un madrigale relativo a quell’epoca). Nel Canavese tutti la credevano morta, quand’ecco invece di lei morì il boiardo e la vedovella scuotendo le ali dopo così lungo servaggio ritornò in patria cinta dall’aureola interessante del martirio. I suoi dolori, i sacrifici, le abnegazioni, le virtù incomprese o da comprendere le arrecarono una fama che nel devoto Piemonte salì quasi alla canonizzazione. Molti proseliti della beata Francesca di Chantal disertarono in favore di mia zia; ella divenne una celebrità per la provincia; un trionfo di più per il sesso, debole, s’intende; e una speranza per il calendario. Tale successo la infervorò maggiormente nella pietà, nella devozione, nel ritiro, nella continenza, nella mortificazione della carne, nella negazione d’ogni principio vitale e sociale, insomma in tutte le virtù cristiane.

    A ventisei anni, bella, libera, ricca, la marchesa Atenaide di Vavaroux, Monte, Rocca, Picco e Torre era inespugnabile; sfido io, agguerrita a quel modo! Aveva da sola più fortezze che non ne avesse a’ suoi tempi il re di Sardegna; che dico! Aveva il quadrilatero italiano. Eppure pensando adesso alle sue bianche mani che l’ozio dei Paternoster aveva perfettamente conservate, pensando alla sua taglia che appariva morbida e snella anche sotto la pelliccia di martoro; pensando a’ suoi begli occhi, a’ suoi ondeggianti capelli e a molte altre cose ancora io non mi so persuadere che l’amore abbia rispettato un terreno così favorevole a’ suoi attacchi.

    Sepolta per otto anni in Russia, nella compagnia d’un boiardo che fuma, bestemmia e adopera il knout, non ha ella sentito ondate di sangue novello scorrerle le vene quando pose il piede sui giardini d’Italia? Non ha ella subito l’influenza di questo caldo cielo, di quest'aere voluttuoso, dei molli profumi che esalano i nostri prati verdeggianti, i nostri colli e le sponde fiorite dei nostri laghi?

    · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

    La linea di puntini che qui vedete, rappresenta una conclusione che il mio ossequio di nipote non mi mette di formulare più chiaramente; ma ecco che un altro ordine di idee mi si affaccia al cervello. A che cosa tende il bigottismo, se non a svellere dalla natura tutto ciò che è umano? Il bigottismo prende un uomo di carne e d’ossa, di muscoli e di sangue; me lo muta in un ente astratto che ha occhi e non deve vedere, mani e non deve toccare, fibre e non deve sentire; me lo tuffa nel misticismo; me lo circonda di virtù negative; me lo avvia dritto dritto sulla strada di un paradiso che ogni buon cristiano desidera e spera più tardi che sia possibile.

    Dunque mia zia può essere stata una di queste creature elette, prescelte ad abbandonare l’alta missione della donna, l’amore, il sacrificio, la compassione, il lavoro, la famiglia, la maternità, per correre con un giglio in mano sugli inutili sentieri della penitenza.

    Delle due versioni il lettore prenderà quella che meglio gli aggrada.

    Io continuo la cronaca dei fatti e registro per intanto, a latere della marchesa, un certo cavaliere Guglielmo Zaccarone dei nove Chiodi, nobilissimo e illustrissimo personaggio; carattere grave, costumi illibati; una pietà di san Francesco da Paola; un fervore di san Tommaso d’Aquino; un’umiltà di san Rocco; una fermezza di sant’Antonio abate per resistere alle tentazioni; spiacemi di non poter aggiungere un’eloquenza di san Giovanni Grisostomo; la colpa non è mia.

    Il cavaliere Zaccarone dei nove Chiodi doveva rassomigliare molto a quel palo su cui il tiranno Gessler aveva collocato un cappello; c’era in lui la medesima altezza e flessibilità. Vestiva abitualmente di nero e portava all’occhiello il nastro

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