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Sud: L'ultima spedizione di Shackleton (1914-1917)
Sud: L'ultima spedizione di Shackleton (1914-1917)
Sud: L'ultima spedizione di Shackleton (1914-1917)
E-book517 pagine8 ore

Sud: L'ultima spedizione di Shackleton (1914-1917)

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Info su questo ebook

Sarebbe dovuto essere questo lo scopo della spedizione, intrapresa nel 1914, che Sir Ernest Shackleton coltivava da anni. Ma il 20 maggio 1916 tre figure emaciate comparvero sulla banchina della stazione di Stromness, nella Georgia del Sud, da dove due anni prima erano partiti a bordo della Endurance.

Di loro si era persa ogni traccia. La nave, ritrovandosi incagliata nel pack, aveva costretto l'equipaggio a rimanere in balia dei movimenti del ghiaccio per dieci lunghi mesi e poi era andata distrutta.

Da lì l'incredibile epopea della sopravvivenza: un’epopea che viene narrata in un diario di viaggio, capace di conquistare intere generazioni di lettori.

LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2019
ISBN9788869345890
Sud: L'ultima spedizione di Shackleton (1914-1917)
Autore

Ernest Shackleton

Ernest Shackleton è stato un esploratore britannico di origine irlandese. Al ritorno dalla prima spedizione antartica di cui ebbe il comando, la Nimrod, fu nominato cavaliere e gli furono conferiti i titoli di commendatore dell'Ordine Vittoriano e ufficiale dell'Ordine dell’Impero Britannico. La fama gli giunse però in seguito alla seconda spedizione, nel corso della quale, nonostante il mancato attraversamento del continente antartico, lo schiacciamento della nave Endurance per opera del pack e successivo inabissamento, riuscì a portare in salvo i membri dell’equipaggio.

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    Anteprima del libro

    Sud - Ernest Shackleton

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, ottobre 2019

    e-Isbn 9788869345890

    Isbn 9788869345883

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Progetto grafico e disegno di copertina:

    Brozzolo Riccardo per Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    Ernest Shackleton

    Ernest Shackleton (15/02/1874-05/01/1922) è stato un esploratore britannico di origine irlandese.

    Al ritorno dalla prima spedizione antartica di cui ebbe il comando, la Nimrod (British Antarctic Expedition, 1907-1909), fu nominato cavaliere (Sir) e gli furono conferiti i titoli di commendatore dell’Ordine Vittoriano e ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico.

    La fama gli giunse però in seguito alla seconda spedizione (Imperial Trans-Antarctic Expedition, 1914-1916), nel corso della quale, nonostante il mancato attraversamento del continente antartico, lo schiacciamento della nave Endurance per opera del pack e successivo inabissamento, riuscì avventurosamente a portare in salvo tutti i membri dell’equipaggio.

    Un libro di culto dell’esplorazione, una delle più grandi storie di sopravvivenza e di eroismo di tutti i tempi, scritta da una delle principali figure del periodo pionieristico delle esplorazioni antartiche.

    Ai miei compagni

    caduti nella guerra bianca del Sud

    e sui campi di battaglia

    della Francia e delle Fiandre

    Nel Mare di Weddell

    Decisi di lasciare la Georgia del Sud intorno al 5 di dicembre e, nelle pause tra un preparativo e l’altro, diedi ancora un’occhiata ai piani di viaggio verso i quartieri d’inverno. Che tipo di accoglienza ci avrebbe riservato il Mare di Weddell? I capitani delle baleniere nella Georgia del Sud furono tanto gentili da condividere con me le loro conoscenze relative a quelle stesse acque in cui operavano e, oltre a confermare quanto già sapevo circa l’inclemenza delle condizioni del ghiaccio, mi diedero anche dei consigli su cui riflettere.

    È opportuno riportare qui brevemente alcune circostanze che fui costretto a considerare, tanto allora quanto nelle settimane che seguirono. Sapevo già che durante quella stagione il ghiaccio si era spinto molto verso nord e, dopo aver ascoltato i suggerimenti dei capitani delle baleniere, avevo deciso di dirigermi verso le isole Sandwich Meridionali, per poi procedere verso est, fino al quindicesimo meridiano longitudine ovest e, infine, verso sud. I balenieri avevano sottolineato le difficoltà di attraversare il ghiaccio nelle vicinanze di queste isole. Mi dissero di aver visto spesso dei banchi di ghiaccio venire a galla in estate e che, secondo loro, per poter raggiungere il Mare di Weddell, la spedizione avrebbe dovuto aprirsi un varco tra pesanti pack. Probabilmente il momento migliore per addentrarci in quel mare sarebbe stato alla fine di febbraio o all’inizio di marzo. Avendo circumnavigato quelle isole, i balenieri ne conoscevano le condizioni e le loro previsioni mi convinsero ad imbarcare in coperta del carbone in più perché, qualora fosse stato necessario farci strada fino alla Terra di Coats, avremmo avuto bisogno di ogni singola tonnellata di combustibile che la nave era in grado di portare.

    La mia speranza era che, dirigendoci prima verso est fino al quindicesimo meridiano ovest, in seguito saremmo stati in grado di spingerci verso sud attraverso del ghiaccio meno compatto, per poi arrivare alla Terra di Coats e, infine, alla baia di Vahsel, dove Filchner tentò di sbarcare nel 1912.

    Due erano gli aspetti che mi impensierivano: come prima cosa, l’idea di far trascorrere all’Endurance l’inverno nel Mare di Weddell mi preoccupava per più di un motivo, ma trovare un attracco sicuro poteva rivelarsi molto difficile. Qualora non ne avessimo trovato neanche uno, la nave avrebbe dovuto svernare nella Georgia del Sud. In quel momento l’idea di fare un viaggio attraverso il continente durante la prima estate mi sembrò impossibile, visto che la stagione era già avanzata e le condizioni del ghiaccio probabilmente si sarebbero rivelate sfavorevoli. In vista della possibilità di trascorrere l’inverno tra i ghiacci portammo con noi dei vestiti in più dai magazzini delle varie stazioni della Georgia del Sud.

    L’altro fattore che mi preoccupava era il numero di uomini che componevano la squadra di terra. Se la nave avesse dovuto spostarsi durante l’inverno, oppure se si fosse allontanata dai quartieri invernali, una volta realizzato il rifugio e scaricate le scorte sarebbe stato meglio avere a terra soltanto un gruppo ristretto di uomini scelti con cura. Questi ultimi avrebbero poi potuto sistemare i depositi manualmente e fare dei brevi viaggi con i cani, allenandoli per la lunga marcia che li attendeva nel corso della primavera seguente. La maggior parte dei membri della squadra scientifica, invece, avrebbe vissuto a bordo della nave, da dove avrebbe potuto svolgere le proprie attività in condizioni più favorevoli. Se necessario, avrebbe anche potuto intraprendere brevi viaggi utilizzando l’Endurance come base.

    Tutti questi progetti avevano come presupposto il fatto che, probabilmente, trovare un luogo adatto dove stabilire i quartieri d’inverno sarebbe stato difficile. Se fosse stato possibile fissare una base davvero sicura sul continente, mi sarei attenuto al programma originario che prevedeva di mandare una squadra verso sud, una verso la Terra di Graham, attorno all’imbocco del Mare di Weddell, e una in direzione est, verso la Terra di Enderby.

    Avevamo elaborato i piani relativi alle distanze da percorrere, alla rotta, alle provviste necessarie e così via. Grazie all’esperienza e a uno studio approfondito, la quantità di razioni previste per il viaggio con le slitte era praticamente perfetta. In seguito all’addestramento, i cani sembravano promettere di poter percorrere dai ventiquattro ai trentadue chilometri al giorno trascinandosi dietro delle slitte cariche. A quella velocità, la squadra transcontinentale avrebbe portato a termine il suo viaggio in centoventi giorni, a meno che non fosse sopraggiunto qualche ostacolo imprevisto. Eravamo davvero impazienti di iniziare la marcia – l’ultima grande avventura nella storia delle esplorazioni antartiche. Gli ostacoli che ci separavano dalla partenza, però, agivano da freno contro la nostra irrequietezza. Tutto dipendeva dall’approdo: raggiungendo la stazione di Filchner, non c’era motivo di pensare che una squadra di uomini esperti non avrebbe potuto trascorrere lì l’inverno in tutta sicurezza. Ma il Mare di Weddell era famoso per la sua inospitabilità e sapevamo già che ci avrebbe riservato il suo lato più duro. Dal punto di vista di un navigatore, l’insieme delle condizioni che caratterizzano il Mare di Weddell è da considerarsi sfavorevole: i venti sono relativamente deboli e, di conseguenza, si può arrivare alla formazione di ghiaccio anche in estate. Inoltre, l’assenza di venti forti fa sì che il ghiaccio si accumuli, indisturbato, in massi. Da est, poi, vengono trascinate lungo la costa abbondanti quantità di ghiaccio che, mentre si dirigono verso nord, formando un semicerchio, riempiono la grande insenatura del Mare di Weddell. Senza considerare che, nelle cattive stagioni, parte di questo ghiaccio può arrivare addirittura fino alle isole Sandwich Meridionali. Le correnti, che con la loro forza spingono i blocchi di ghiaccio contro le coste, creano qui una pressione maggiore che in qualsiasi altra parte dell’Antartide; una pressione che deve essere intensa almeno quanto quella nel bacino congestionato del Polo Nord, ma sono propenso a credere che un confronto di questo tipo fra i due poli andrebbe a vantaggio dell’Artico. Ovviamente tutte queste considerazioni erano legate ai problemi che ci saremmo trovati ad affrontare: la penetrazione del pack e l’individuazione di un porto sicuro sulla costa continentale.

    Alla fine, il giorno della partenza arrivò. Alle otto e quarantacinque del 5 dicembre 1914, infatti, diedi ordine di levare l’ancora. Ci pensò il suono metallico del verricello a spezzare per noi l’ultimo legame con la civilizzazione. La mattinata era uggiosa e il cielo interessato da nevischio e occasionali turbini di neve. A bordo dell’Endurance, però, gli animi erano sereni. I lunghi giorni di preparazione erano ormai alle spalle: ora ci attendeva l’avventura vera e propria.

    Avevamo sperato che da nord qualche piroscafo ci portasse notizie della guerra e magari lettere da casa prima della partenza. In effetti, una nave arrivò la sera del 4, ma senza lettere o informazioni utili. Il capitano e l’equipaggio erano tutti pro Germania e le ‘notizie’ che ci diedero assunsero quindi la forma di deludenti resoconti delle disfatte britanniche e francesi. Non ci sarebbe dispiaciuto ricevere gli ultimi aggiornamenti da una fonte più amichevole. Un anno e mezzo dopo scoprimmo che l’Harpoon, il piroscafo che serve la stazione di Grytviken, era arrivato con della posta per noi non più di due ore dopo che l’Endurance si era messa in viaggio.

    La prua dell’Endurance fu rivolta a sud e la nave si immerse nel moto ondoso da sud-ovest. Durante il mattino cadde una pioggerellina sottile, ma più tardi il tempo migliorò tanto che, mentre ci muovevamo a vela e a vapore in direzione sud-est, la vista della costa della Georgia del Sud era buona. La rotta era stata studiata in modo tale da condurci al largo dell’isola e poi a sud delle Thule Meridionali, che compongono l’arcipelago delle Sandwich. Durante il giorno il vento aumentò, quindi tutte le vele quadre furono issate e la vela di trinchetto terzarolata, al fine di consentire una buona visibilità davanti a noi; questo perché non volevamo rischiare di imbatterci in un growler(1) uno di quei pericolosi frammenti di ghiaccio che galleggiano in superficie.

    La nave procedeva in modo molto stabile nel mare di tre quarti, ma di certo l’aspetto non era quello chiaro e pulito di quando, quattro mesi prima, aveva lasciato le coste inglesi. A Grytviken avevamo fatto il pieno di carbone e il combustibile in più venne conservato sul ponte, dove però intralciava non di poco il passo. Il carpentiere aveva costruito un falso ponte, che si estendeva dal cassero di poppa alla sala nautica. Con noi, a bordo, avevamo anche una tonnellata di carne di balena per i cani. I pezzi grandi erano appesi tra il sartiame, fuori dalla portata ma comunque non dalla vista degli animali, e così, mentre l’Endurance rollava e beccheggiava, loro – gli occhi avidi – rimanevano in attesa di un colpo di fortuna.

    Ero particolarmente soddisfatto dei cani, alloggiati nei punti più confortevoli della nave che avevamo potuto trovare per loro. Erano in ottime condizioni e sentivo che la spedizione disponeva della giusta energia di traino. Si trattava di animali grandi e robusti, scelti per la loro forza e resistenza; se fossero stati entusiasti di trainare le slitte tanto quanto lo erano ora di lottare l’uno contro l’altro, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Gli uomini che se ne occupavano svolgevano il loro lavoro con entusiasmo, e l’impazienza che mostravano nel volerne studiare l’indole e le abitudini faceva pensare che gli animali sarebbero stati trattati e avrebbero lavorato bene.

    Il 6 dicembre l’Endurance viaggiò senza problemi in direzione sud-est. Durante la notte il vento da nord si era fatto più forte, portando con sé il mare grosso. Il tempo era nebbioso, passammo due iceberg, diversi growler e numerosi banchi di ghiaccio. I membri dell’equipaggio si stavano abituando alla routine dei lavori di bordo. In giro c’erano tanti uccelli; in particolare, tra le varie specie, nelle vicinanze della nave notammo procellarie del capo, sterne, ossifraghe, berte grigie e albatri erratici. La rotta prevedeva il passaggio tra l’isola di Saunders e il vulcano delle isole Candlemas.

    Il 7 dicembre, però, ci trovammo ad affrontare il primo ostacolo: alle sei di mattina il mare, che era stato di un colore verdastro per tutto il giorno precedente, improvvisamente diventò di un indaco intenso. La nave si stava comportando bene tra quelle acque agitate e alcuni membri dello staff scientifico si diedero da fare per trasferire, nell’apposita stiva, il carbone che avevamo collocato sul ponte. Nel primo pomeriggio avvistammo sia l’isola di Saunders che le Candlemas e alle diciotto l’Endurance vi passò in mezzo.

    Le osservazioni fatte da Worsley indicavano che l’isola di Saunders si trovava a più o meno cinque chilometri a est e otto a nord rispetto alla posizione tracciata sulla carta. A ovest delle isole c’erano numerosi iceberg, per lo più di forma tabulare; come potemmo notare, molti di questi erano gialli, ricoperti qua e là da diatomee. Un iceberg in particolare presentava ai lati delle larghe chiazze di terra di un marrone-rossiccio. La presenza di così tanti iceberg non era di buon auspicio e subito dopo essere passati tra le isole ci imbattemmo in un fiume di ghiaccio. Le vele furono tutte ammainate e procedemmo lentamente a vapore. Due ore più tardi, ventiquattro chilometri a nord-est dell’isola di Saunders, l’Endurance si trovò di fronte a una cintura di pack larga ottocento metri, che si estendeva tanto a nord quanto a sud. Al di là del pack l’acqua era limpida, ma il forte moto ondoso da sud-ovest lo rese impenetrabile nel punto in cui ci trovavamo. La situazione era sconcertante. A mezzogiorno ci eravamo trovati ad una latitudine di 57° 26´ Sud e non mi sarei mai aspettato di trovare una banchisa così tanto a nord, sebbene i balenieri avessero parlato di ghiaccio fino alle isole Thule Meridionali. Quella notte la situazione si fece pericolosa. Con la nave ci spingemmo tra il pack nella speranza di raggiungere le acque libere, salvo poi ritrovarci a notte fonda in un bacino che andava restringendosi. Nella violenza del moto ondoso il ghiaccio intorno all’Endurance si andava frantumando e, preoccupato, rimasi in attesa di un qualche segnale che indicasse un cambiamento del vento a est – un vento che ci avrebbe guidati verso la terra. Io e Worsley rimanemmo sul ponte per tutta la notte, intenti a schivare il pack. Alle tre di mattina ci dirigemmo verso sud, sfruttando alcune aperture che ci si erano presentate davanti, ma ci imbattemmo in una grossa banchisa, chiaramente di vecchia formazione, di cui una parte era stata vittima di una forte pressione. Proseguimmo a vapore verso nord-ovest, ma poi avvistammo acque libere a nord-est. Allora puntai la prua in direzione di quell’apertura nei ghiacci e, procedendo a tutta velocità, ci allontanammo. Poi ci spingemmo verso est, nella speranza di trovare ghiaccio migliore e cinque ore più tardi, dopo qualche deviazione, ci lasciammo il pack alle spalle e fummo in grado di continuare a navigare a vela. A tratti, quello scontro iniziale con il pack si era rivelato eccitante: pezzi di ghiaccio e di iceberg di tutte le dimensioni che, nel pesante moto ondoso da sud-ovest, si urtavano e si spingevano l’uno contro l’altro. Nonostante tutta la nostra attenzione, l’Endurance non riuscì comunque ad evitare l’urto contro grossi banchi di ghiaccio, anche se le macchine furono arrestate in tempo e non registrammo danni. Il panorama e i suoni di quel giorno furono eccezionali: il moto ondoso che urtava contro i fianchi di iceberg enormi, balzando direttamente in cima alle loro pareti di ghiaccio; poi, verso sud, c’era l’isola di Saunders, con i suoi pendii che riuscivano a sbucare tra il vortice di quella nebbia che li avvolgeva per la maggior parte del tempo; c’era anche il rumore del mare che andava a morire nelle caverne di ghiaccio, o l’infrangersi del moto ondoso contro un pack non compatto; infine, l’elegante movimento del pack interno per effetto dello stesso moto ondoso, il cui slancio veniva qui smorzato dalle masse di ghiaccio sopravvento.

    Costeggiammo l’estremità nord del pack accompagnati da una buona visibilità, una leggera brezza da sud-ovest e cielo coperto. Di iceberg ce n’erano tanti. Nel corso della mattinata del 9 dicembre una brezza da est portò con sé nebbia e neve, e alle sedici e trenta ci imbattemmo nell’estremità di una banchisa alla latitudine di 58° 27´ Sud e longitudine di 22° 08´ Ovest. Si trattava di ghiaccio vecchio un anno, esteso da ovest-sud-ovest a est-nord-est e misto a un pack ancora più vecchio, il tutto ricoperto da uno strato abbondante di neve. Penetrammo il pack alle diciassette ma, non riuscendo ad andare avanti, alle diciannove e quaranta ci allontanammo di nuovo. Poi ci dirigemmo verso est-nord-est, trascorrendo il resto della notte costeggiandolo. Durante il giorno avevamo visto dei pinguini di Adelia e dei pinguini antartici, oltre a diverse megattere e balenottere comuni. Una grande massa di ghiaccio verso ovest stava ad indicare la presenza di pack. Dopo averlo costeggiato, ci dirigemmo a sud, in direzione 40° Est, e a mezzogiorno del 10 avevamo raggiunto i 58° 28´ Sud e i 20° 28´ Ovest. I rilevamenti mostravano chiaramente una declinazione della bussola: un grado e mezzo in meno rispetto al valore indicato sulla carta. Mantenni l’Endurance sulla rotta fino a mezzanotte, quando entrammo nel ghiaccio non compatto a poco meno di centocinquanta chilometri a sud-est dalla nostra posizione a mezzogiorno. I margini del pack erano delimitati dai ghiacci e la nostra avanzata si fece lenta. Il moto ondoso da est era lungo e da nord soffiava una leggera brezza. Il tempo era buono, come pure la visibilità. Oltre il pack, gli iceberg erano numerosi.

    L’Endurance proseguì tra il ghiaccio non compatto fino alle otto di mattina del giorno 11, quando penetrammo il pack a 59° 46´ Sud e 18° 22´ Ovest. Ci saremmo potuti spingere ancora più a est, ma in quella direzione il pack si estendeva in lontananza e tentare di girargli attorno avrebbe potuto voler dire spingersi molto a nord, cosa che volevo evitare per non perdere il vantaggio iniziale ottenuto navigando verso sud. Quella distanza in più non avrebbe fatto la differenza per una nave capace di trasportare più carbone rispetto all’Endurance, ma noi non potevamo permetterci di sprecare chilometri inutilmente. Il pack non era compatto ma, così com’era, non presentava grandi difficoltà. Per sfruttare la brezza da nord fu alzata la vela di trinchetto. Di tanto in tanto la nave si scontrò con il ghiaccio, che le inflisse dei bei colpi. Una o due volte, poi, andò dritta contro i blocchi di ghiaccio, senza però riportare danni.

    La principale preoccupazione, comunque, era quella di proteggere l’elica e il timone. Quando non era possibile evitare una collisione, l’ufficiale responsabile ordinava alle macchine di procedere adagio, oppure a mezza forza, governando l’imbarcazione in modo tale da colpire il banco solo di striscio. A quel punto la barra veniva puntata verso il ghiaccio per evitare che venisse colpita l’elica; così facendo, la nave era poi in grado di proseguire nuovamente a tutta velocità. Mentre eravamo impegnati a farci strada tra il pack, io, Worsley, Wild e tre ufficiali ci alternammo in tre turni di guardia, in modo da avere costantemente due ufficiali sul ponte. Al fine di consentire all’ufficiale di rotta di comunicare ai marinai o agli scienziati alla guida la direzione e la portata del cambio di rotta, sul ponte il carpentiere aveva predisposto un sistema di segnalazione in legno alto circa un metro e ottanta, che ci consentì di risparmiare tempo, ma anche lo sforzo di dover urlare. Ci facemmo strada attraverso il pack per tutto il giorno e il panorama dalla coffa non prometteva niente di buono. Sui banchi di ghiaccio notammo una foca di Weddell e una cancrivora, ma decidemmo di non fermarci per fare scorta di carne fresca. Era importante continuare a procedere verso il nostro obiettivo quanto più velocemente possibile: la paura, infatti, era che se le condizioni del ghiaccio si fossero fatte sempre più difficili, nei giorni a venire avremmo avuto tutto il tempo libero del mondo.

    La mattina del 12 dicembre ci stavamo ancora facendo largo tra un pack non compatto che, però, in seguito si fece più denso in alcuni punti. Il cielo era coperto e cadeva una leggera neve. Alle sette avevo fatto alzare tutte le vele quadre per sfruttare la brezza da nord, ma cinque ore più tardi, quando il vento girò ad ovest, dovetti farle ammainare di nuovo. A mezzogiorno ci trovavamo a una latitudine di 60° 26´ Sud e una longitudine di 17° 58´ Ovest. Nel corso delle precedenti ventiquattro ore avevamo percorso soltanto cinquantatré chilometri. Il ghiaccio era ancora fortemente congestionato e ci stavamo facendo largo tra stretti canali liberi e sporadiche aperture, accarezzando spesso i banchi su entrambi i lati. Intorno a noi c’erano uccelli delle tempeste, procellarie delle nevi, procellarie antartiche, sterne dal codrione bianco e anche pinguini di Adelia. Questi ultimi sembravano particolarmente agitati dalla vista della nave, cosa che ci fece divertire molto. Una delle battute più frequenti era che tutti i pinguini di Adelia sui banchi di ghiaccio conoscessero Clark, visto che quando era lui al timone rincorrevano la nave a tutta velocità urlando Clark! Clark!, a quanto pare piuttosto irritati dal fatto che lui non li aspettasse mai e neppure gli rispondesse.

    La sera trovammo diversi canali liberi verso sud e continuammo a farci largo in quella direzione per tutta la notte e il giorno seguente. Nonostante la presenza di quei canali, però, il pack si estendeva in ogni direzione, almeno fin dove riuscivamo a vedere. L’osservazione di mezzogiorno mostrò come la distanza percorsa durante le precedenti ventiquattro ore fosse stata di ottantasette chilometri – un risultato soddisfacente viste le condizioni. Wild sparò a una giovane foca di Ross sul banco di ghiaccio. Dopo aver accostato, Hudson saltò giù, la legò con una corda ed entrambi furono tirati a bordo. L’animale era lungo quasi un metro e mezzo e pesava circa quaranta chili. Si trattava di un giovane esemplare maschio, squisito da mangiare, anche se, una volta pulito e tolto il grasso, se ne ricavò poco più che un pasto abbondante per i nostri ventotto uomini, con qualche avanzo per la colazione e il tè. Il suo stomaco, poi, conteneva soltanto anfipodi di circa due centimetri e mezzo, simili a quelli ritrovati nelle balene di Grytviken.

    Il 14 dicembre le condizioni si fecero più difficili. C’era foschia e di tanto in tanto nevicava. Nei paraggi, poi, si trovavano alcuni iceberg. Rispetto al giorno prima il pack era più compatto e il ghiaccio vecchio, misto a quello giovane, ci costrinse a procedere con maggiore lentezza. Di prima mattina l’elica fu vittima di diversi colpi, senza però riportare danni. Sotto all’asta di fiocco fu montata una piattaforma per permettere a Hurley di fare delle foto mentre la nave si apriva un varco tra il ghiaccio. L’Endurance riuscì a farsi strada con la forza e non ebbe problemi con il ghiaccio giovane, ma i banchi di ghiaccio vecchio si dimostrarono ostacoli più temibili e governare la nave richiese molta attenzione. Di tanto in tanto, però, persino la navigazione più cauta del mondo non riuscì ad impedire all’Endurance di colpire quel ghiaccio, troppo spesso per essere rotto o spinto ai lati.

    Durante il pomeriggio la brezza da sud si trasformò in un vento moderatamente forte da sud-ovest e alle venti ci fermammo, la prua contro un banco: sarebbe stato impossibile procedere senza rischiare seriamente di danneggiare il timone o l’elica. Era interessante come, sebbene stessimo procedendo attraverso il pack da tre giorni, il moto ondoso da nord-ovest fosse ancora lì, con noi, pronto a sommarsi alle difficoltà date dal navigare tra i canali, visto che il ghiaccio era continuamente in movimento.

    Lasciammo l’Endurance contro il banco per le ventiquattro ore che seguirono, quando poi il vento si calmò. Il pack si estendeva in tutte le direzioni ed era interrotto da innumerevoli e stretti canali. Nelle vicinanze c’erano molti iceberg che, per effetto della corrente, sembravano spingersi attraverso i ghiacci in direzione sud-ovest. Probabilmente, poi, sotto l’azione del vento, il pack stesso stava viaggiando verso nord-est. Clark calò una rete – alla ricerca di qualche campione marino – che, raggiunta una profondità di oltre tre metri e mezzo, fu trascinata dalla corrente verso sud-ovest, finendo per urtare contro l’elica. In quell’occasione perdemmo la rete, due piombini e una cima. Nel giro di ventiquattro ore furono dieci gli iceberg che si spinsero verso sud attraverso il pack. A mezzogiorno ci trovavamo a 61° 31´ Sud e 18° 12´ Ovest. Per le otto di sera il vento si era calmato e prima di mezzanotte percorremmo otto chilometri verso sud, per poi fermarci alla fine di un lungo canale, in attesa che il tempo migliorasse. E fu durante quel breve tragitto che il capitano, che con il sistema di segnalazione aveva confermato di andare tutto a sinistra, gridò allo scienziato che si trovava alla guida: «Perché diavolo non viri a sinistra?»

    Il tono della risposta fu indignato: «Mi sto soffiando il naso.»

    Il giorno seguente l’Endurance riuscì a procedere abbastanza bene. C’erano dei lunghi canali di acque libere diretti a sud-ovest e la nave sfondò, a tutta velocità, delle zone sporadiche di ghiaccio giovane, finché non fu fermata con un rumore sordo da un banco di ghiaccio più vecchio. Mentre Wild era al comando della nave, Worsley se ne andò in cima all’asta di fiocco, dove rimase per qualche minuto per poi tornare giù con un resoconto assai animato della sua avventura. L’asta oscillava in lungo e in largo, mentre l’imponente prua si apriva un varco tra il ghiaccio, fendendolo da una parte all’altra e ammucchiando blocco su blocco per poi farli da parte. La temperatura dell’aria era di quasi 3° – un caldo piacevole – mentre quella dell’acqua era di circa – 2°. Continuammo ad avanzare attraverso lunghi e sottili canali liberi fino alle quattro di mattina del 17 dicembre, quando i ghiacci divennero nuovamente difficili da gestire. Dei blocchi molto estesi di ghiaccio vecchio sei mesi si trovavano particolarmente vicini l’uno all’altro. Alcuni di essi presentavano una superficie integra di circa un chilometro e mezzo quadrato, e tra loro c’erano pezzi di ghiaccio sottile e diversi banchi di ghiaccio vecchio. Nelle vicinanze c’erano molti iceberg e la rotta si fece tortuosa. Ad un certo punto la nave venne bloccata da un pezzo di ghiaccio cuneiforme, ma mettemmo l’ancora di traverso, lo trainammo da una parte e riuscimmo a farci strada attraverso il varco che si era venuto a creare. Governare un’imbarcazione in simili condizioni richiese muscoli e sangue freddo. Durante il pomeriggio avvertimmo un ticchettio a poppa e Hussey, che era alla guida, spiegò che «La ruota ha cominciato a girare e mi ha trascinato fin sul punto più alto!». A mezzogiorno ci trovavamo a 62° 13´ Sud e 18° 53´ Ovest. Nel corso delle ventiquattro ore precedenti avevamo percorso cinquantuno chilometri in direzione sud-ovest. Durante il giorno vedemmo tre balenottere azzurre e un pinguino imperatore, un uccello di circa venticinque chili che andò ad incrementare la nostra dispensa.

    La mattina del 18 dicembre l’Endurance si ritrovò a procedere tra grossi banchi separati da ghiaccio sottile. Di canali liberi ce n’erano pochi. C’era invece una brezza da nord, con sporadiche spruzzate di neve. Non ci facemmo scappare tre foche cancrivore, due femmine e un maschio. Quest’ultimo era un bell’esemplare di duecentosettanta chili, quasi tutto bianco e lungo all’incirca tre metri. Poco prima di mezzogiorno fummo bloccati da un grosso pack, quindi piazzammo un’ancora da ghiaccio sul banco e abbassammo i fuochi. Ero preparato ad affrontare condizioni avverse nel Mare di Weddell, ma avevo sperato che a dicembre e a gennaio, anche in assenza di acque libere, il ghiaccio fosse poco compatto. Quello che ci trovavamo di fronte, invece, era un pack piuttosto denso e particolarmente ostinato. Il pack potrebbe essere descritto come un enorme, interminabile puzzle concepito dalla natura. Quando il ghiaccio è poco compatto è come se i pezzi del puzzle si fossero leggermente separati l’uno dall’altro, sparpagliandosi; in molti punti, però, i pezzi finiscono per riattaccarsi. E mano a mano che si riavvicinano, le aree congestionate si fanno sempre più grandi, con i pezzi che continuano ad incastrarsi sempre più saldamente l’uno all’altro. Si arriva quindi al punto in cui il pack diventa compatto perché tutti i pezzi del puzzle si sono incastrati a un livello tale che, con molta attenzione e fatica, lo si può persino attraversare a piedi in lungo e in largo. Chiaramente, laddove i pezzi non aderiscono perfettamente tra di loro ci troviamo di fronte ad acque libere che gelano, non prima però di aver emanato una gran quantità di ‘fumo gelato’. Come conseguenza di simili nuove pressioni, questo ghiaccio giovane raddoppia il suo spessore, la cui consistenza è simile a quella di una caramella morbida. Contemporaneamente, i bordi dei grossi banchi si affrontano in un conflitto lento e quasi silenzioso, fino a quando intorno ad ogni pezzo del puzzle non si formano delle alte ‘siepi’. Nel punto in cui si incrociano più banchi, si formano dei cumuli, ammassati tra di loro in modo caotico: a volte si tratta di cumuli alti un metro e mezzo o due, formati da banchi dalla forma regolare, messi lì in modo così preciso che sembra impossibile siano opera della natura. Altre volte, invece, può succedere di attraversare un passaggio tortuoso tra mura di ghiaccio alte due, tre metri circa. In altri casi, infine, si può arrivare alla formazione di una sorta di cupola che, a causa della pressione, potrebbe esplodere verso l’alto, proprio come fosse un vulcano.

    Durante tutto l’inverno il ghiaccio alla deriva si trasforma, aumentando di volume per effetto del congelamento, diventando più spesso ed increspandosi a causa della pressione. Se poi, nel corso del suo viaggio, questo ghiaccio finisce per imbattersi in una costa, come quella ovest del Mare di Weddell, si viene a creare una pressione molto forte che dà vita a un inferno fatto di banchi, dorsali e siepi che possono estendersi fino a trecento chilometri dalla costa stessa. A questo punto, questi stessi banchi potrebbero andare alla deriva per poi fondersi con del ghiaccio di recente formazione.

    Ho spiegato brevemente queste cose affinché il lettore capisca la natura del ghiaccio attraverso cui ci siamo fatti strada per centinaia di chilometri. Un altro punto che varrebbe la pena di spiegare è il ritardo causato dal vento mentre eravamo nel pack. In presenza di una forte brezza o di un vento violento, la nave non poteva procedere sicura se non tra il ghiaccio giovane, ovvero quello il cui spessore supera di poco il mezzo metro. Dal momento che un ghiaccio del genere non si estende mai per più di un chilometro e mezzo, ne consegue che in presenza di forti venti fossimo obbligati a navigare sempre alla cappa(2). La nave era appoppata di circa un metro, cosa che, se da un lato era molto utile per proteggere elica e timone, dall’altro la rese praticamente ingovernabile di fronte al pack compatto quando il vento contrario raggiungeva una forza di dieci chilometri all’ora. Questo perché le correnti d’aria potevano agire su una superficie molto ampia, com’era quella della nave. La pressione del vento sulla prua e sui pennoni dell’albero di trinchetto avrebbe portato a un innalzamento della ruota di prua. In simili condizioni la nave non poteva essere governata tra i canali stretti attraverso cui dovevamo invece farci strada. Un simile innalzamento, inoltre, avrebbe potuto riportare la poppa nel ghiaccio, costringendoci a fermare le macchine per salvare l’elica. Quindi la nave sarebbe diventata ingovernabile e si sarebbe allontanata, con la possibilità di indietreggiare troppo, a discapito del timone o dell’elica stessa — il tallone di Achille di una nave di fronte a una banchisa.

    Mentre eravamo in attesa che il tempo migliorasse e il ghiaccio si aprisse, feci montare sopra l’apertura per l’asse del timone il dispositivo Lucas per lo scandaglio meccanico, rilevando una profondità di cinquemilacentoquaranta metri. Il campione del fondo, però, andò perso per il distacco degli ultimi centodieci metri. Durante il pomeriggio tre pinguini di Adelia si avvicinarono alla nave attraverso il banco di ghiaccio, mentre Hussey stava suonando una dolce melodia al banjo. I piccoli uccelli, dall’aspetto solenne, sembrarono apprezzare It’s a long way to Tipperary, ma si diedero alla fuga inorriditi quando Hussey passò alla musica scozzese. Gli scoppi di risa provenienti dalla nave, poi, non fecero che aumentare lo sgomento di quei poveri animali, che se la svignarono tanto più velocemente possibile.

    Alle diciotto e un quarto il pack si aprì leggermente, consentendoci di proseguire attraverso i canali per tre ore, prima di essere costretti ad ancorarci a un banco di ghiaccio per la notte. Quello stesso giorno avevamo lanciato un arpione Hjort, il numero 171, contro una balenottera azzurra. Il 19 dicembre le condizioni non migliorarono. Una brezza da nord, che andava dal teso al forte, portò con sé foschia e neve e, dopo aver proseguito per due ore, l’Endurance fu nuovamente costretta a fermarsi per la presenza di grossi banchi. Manovrare la nave nel ghiaccio, infatti, era impossibile a causa del forte vento che teneva i blocchi in movimento e faceva sì che i canali si aprissero e chiudessero con una rapidità pericolosa. L’osservazione di mezzogiorno mostrò come nelle ventiquattro ore precedenti avessimo percorso poco meno di dieci chilometri in direzione sud-est. Durante il giorno fummo tutti impegnati a pulire le patate, che stavano germogliando. Rimanemmo ormeggiati a un banco per tutto il giorno seguente, con il vento che non si era calmato e che, anzi, nel pomeriggio aveva lasciato il passo a venti di tempesta. I membri dell’equipaggio, quindi, approfittarono della pausa per dilettarsi in una partita di calcio molto combattuta, disputata sulla superficie piana del banco di ghiaccio, accanto alla nave. In quel momento nei paraggi si trovavano dodici iceberg. La posizione a mezzogiorno era stata di 62° 42´ Sud e 17° 54´ Ovest, il che indicava come fossimo andati alla deriva per circa dieci chilometri in direzione nord-est.

    Lunedì 21 dicembre fu un giorno bellissimo, con una brezza leggera da ovest-nord-ovest. Partimmo alle tre di mattina, spingendoci attraverso il pack in direzione sud-ovest. A mezzogiorno avevamo percorso undici chilometri, quasi tutti verso est, con il pack che continuava a spingere verso nord mentre la nave sembrava muoversi verso sud. C’erano procellarie di diversi tipi, pinguini e foche, e avvistammo anche quattro piccole balenottere azzurre. A mezzogiorno entrammo in un lungo canale che portava a sud e passammo sia intorno che attraverso nove splendidi iceberg. Uno di questi, grande, aveva la forma della rocca di Gibilterra, ma con pareti più ripide, mentre un altro formava un bacino naturale che avrebbe potuto contenere l’Aquitania e il cui ingresso era chiuso da un pezzo di ghiaccio. Al fine di assicurarsi un ricordo di quegli iceberg, Hurley tirò fuori la macchina da presa cinematografica.

    Durante il pomeriggio ci imbattemmo in lunghi e sottili canali che si estendevano tra gli iceberg in direzione est e sud-est, ma a mezzanotte l’avanzare della nave fu bloccato da banchi piccoli ma pesanti, pressati contro una pianura di ghiaccio intatto.

    La vista dalla testa d’albero non era incoraggiante: quella pianura era lunga almeno venticinque chilometri e larga oltre quindici. Nel punto di maggiore estensione non era neppure possibile intravederne i confini, e l’area che occupava non doveva essere inferiore ai duecentocinquanta chilometri quadrati. Il banco sembrava formato da ghiaccio vecchio un anno, non molto spesso e con pochissime gibbosità o creste. Pensammo si fosse formato nel mare in presenza di un tempo molto calmo, per poi venire trascinato dalla corrente da sud-est. Non mi era mai successo nel Mare di Ross di vedere un’area così vasta di ghiaccio integro. Aspettammo con le stufe rincalzate che la forte brezza da est si calmasse o che si aprisse il pack. Alle diciotto e trenta del 22 dicembre si aprirono alcuni canali e fummo in grado di spostarci nuovamente verso sud. La mattina seguente ci facemmo strada lentamente tra il pack e l’osservazione di mezzogiorno rilevò un incremento di trenta chilometri verso sud in direzione 41° Ovest per le diciassette ore e mezza in cui avevamo viaggiato a vapore.

    Avvistammo molti pinguini di Adelia di circa un anno di età, tre foche cancrivore, sei foche leopardo, una di Weddell e due balenottere azzurre. La temperatura dell’aria, che il 21 dicembre aveva toccato i – 4°, era salita a un grado. Nel pomeriggio, mentre ci dirigevamo verso sud sfruttando dei canali liberi, contammo quindici iceberg, tre dei quali erano di forma piatta, mentre uno era alto circa venti metri e lungo otto chilometri. Evidentemente si era staccato dall’estremità di una barriera. Il ghiaccio si fece più pesante, ma leggermente più aperto. Trascorremmo una notte tranquilla grazie alla presenza di canali lunghi e agevoli. L’acqua era così calma che sui canali si stava formando del ghiaccio nuovo.

    A mezzogiorno del 24 dicembre la strada al nostro attivo era di centotredici chilometri, avendo raggiunto i 64° 32´ Sud e i 17° 17´ Ovest. A tutti i cani, tranne otto, era stato dato un nome. Sinceramente non so a chi si dovessero alcuni dei nomi, che sembravano soddisfare i gusti più disparati: Rugby, Upton Bristol, Millhill, Songster, Sandy, Mack, Mercury, Wolf, Amundsen, Hercules, Hackenschmidt, Samson, Sammy, Skipper, Caruso, Sub, Ulysses, Spotty, Bosun, Slobbers, Sadie, Sue, Sally, Jasper, Tim, Sweep, Martin, Splitlip, Luke, Saint, Satan, Chips, Stumps, Snapper, Painful, Bob, Snowball, Jerry, Judge, Sooty, Rufus, Sidelights, Simeon, Swanker, Chirgwin, Steamer, Peter, Fluffy, Steward, Slippery, Elliott, Roy, Noel, Shakespeare, Jamie, Bummer, Smuts, Lupoid, Spider e Sailor. Come si può notare, alcuni di questi nomi rispondono a un criterio descrittivo.

    Il 25 dicembre, il giorno di Natale, dei grossi pezzi di ghiaccio bloccarono la nave da mezzanotte fino alle sei di mattina, salvo poi aprirsi leggermente, cosa che ci consentì di avanzare fino alle undici e trenta, quando i canali si chiusero di nuovo. Durante la prima parte della notte ci eravamo imbattuti in canali a noi favorevoli e in ghiaccio non troppo resistente, tanto che l’osservazione di mezzogiorno mostrò come la distanza percorsa durante le ventiquattro ore precedenti fosse stata la più grande da quando eravamo entrati nel pack, due settimane prima: avevamo raggiunto i centoquindici chilometri sud in direzione 4° Ovest. Poi il ghiaccio ci bloccò la strada fino a sera, quando riuscimmo a seguire alcuni canali liberi per un paio d’ore, prima che degli altri banchi, stipati l’uno sull’altro, e l’aumento del vento ci costringessero nuovamente a fermarci. Tuttavia, non ci dimenticammo di celebrare il Natale: a mezzanotte sul ponte fu servito del grog per tutti, come anche a colazione, ma solo per quelli che a mezzanotte erano rimasti nelle cuccette. Lees si servì di alcune bandiere per decorare il quadrato degli ufficiali e aveva un piccolo regalo di Natale per ognuno di noi. Alcuni, poi, avevano anche dei regali da casa da poter aprire. Più tardi la cena fu davvero splendida, con zuppa di tartaruga, bianchetti, lepre in salmì, budino di Natale, delle torte ripiene, datteri, fichi e frutta candita; da bere rum e birra scura. La sera, poi, prendemmo tutti parte ad un ‘concerto tra amici’. Hussey aveva costruito un violino a una corda sul quale, a detta di Worsley, dissertava in modo quasi indolore. Il vento stava rinforzando e non fu possibile avanzare; per questo potemmo goderci la serata.

    Il tempo fu brutto anche il 26 e il 27 dicembre e l’Endurance rimase ancorata a un banco di ghiaccio. La posizione a mezzogiorno del 26 era a 65° 43´ Sud e 17° 36´ Ovest. Quello stesso giorno effettuammo uno scandaglio con il Lucas, rilevando che il fondale era a cinquemilacentocinquantotto metri e riportando in superficie un deposito glaciale di fango blu terrigeno con alcuni radiolari(3). Tutti si alternarono al sollevamento, lavorando a coppie in turni di dieci minuti.

    Quella di domenica 27 dicembre fu una giornata tranquilla. Il forte vento da sud sollevava la neve dal banco di ghiaccio sotto forma di nuvole e la temperatura scese a – 5°. I cani non se la stavano passando bene nei loro alloggi sul ponte. Per la mattina seguente il vento si era calmato, ma era comunque burrascoso, con delle spruzzate di neve. Per questo il mio ordine di ripartire non arrivò prima delle ventitré, quando il pack, pur sempre compatto, si dimostrò comunque più soffice e più facile da rompere. Durante la pausa il carpentiere aveva montato una piccola piattaforma sulla poppa, dove venne fatto appostare un uomo per poter osservare l’elica ed evitare così che il ghiaccio la colpisse. La sistemazione si dimostrò alquanto utile, visto che salvò timone ed elica da molti colpi.

    La sera del 29 dicembre i forti venti che avevano regnato per quattro giorni e mezzo lasciarono il passo a una leggera brezza da sud. A causa della scarsa velocità di deriva, ci trovavamo a soli diciotto chilometri più a nord di quanto non fossimo stati il 25 dicembre. Il 30, però, con il bel tempo, riuscimmo ad avanzare piuttosto bene. Durante il pomeriggio la nave seguì un lungo canale in direzione sud-est e la sera, alle undici, attraversammo il circolo polare.

    Uno sguardo all’orizzonte rivelò la presenza di ampie fratture nel vasto cerchio della banchisa, intervallate da iceberg di dimensioni varie. Di canali ce n’erano in più direzioni, ma la ricerca di un segnale che indicasse la presenza di acque libere fu vana. Il sole quella notte non tramontò e, siccome era nascosto dietro un banco di nubi, vedemmo un bagliore color oro e rosso cremisi in direzione sud, con delicati riflessi di un verde chiaro nelle acque di sud-est.

    La mattina del 31 la nave ebbe un duro faccia a faccia con il ghiaccio: dapprima fummo bloccati da dei banchi che si stavano stringendo attorno a noi e poi, verso mezzogiorno, l’Endurance rimase incastrata tra due blocchi che si muovevano in direzione est-nord-est. La pressione la fece sbandare di sei gradi, proprio mentre stavamo calando un’ancora sul banco in modo da poter indietreggiare e aiutare le macchine, che si muovevano a tutta velocità. Lo sforzo diede i suoi frutti. Subito dopo, nel punto in cui l’Endurance era stata tenuta ferma, delle lastre di ghiaccio di quindici metri per cinque e spesse poco più di un metro si ammassarono fino a raggiungere un’altezza di tre metri e mezzo circa sul banco, posto sottovento a un angolo di 45°. La pressione era forte e di certo non ci dispiaceva che la nave fosse fuori dalla sua portata. La posizione a mezzogiorno era a 66° 47´ Sud e 15° 52´ Ovest. La distanza percorsa durante le ventiquattro ore precedenti era stata di ottantadue chilometri Sud in direzione 29° Est.

    Da mezzogiorno le condizioni del pack sono migliorate scrisse Worsley. Sebbene i canali non siano lunghi, se sapremo scegliere con cura e giudizio il punto giusto in cui agire non sarà difficile rompere i banchi. Molte volte, infatti, ci troviamo di fronte a grandi lastre di ghiaccio giovane, attraverso le quali l’Endurance riesce a spingersi per tre chilometri di fila. Ora sono io ad avere il comando della nave e la sto manovrando dalla coffa, che ritengo il posto migliore, perché da lì si può vedere bene in avanti e pianificare la rotta in anticipo, oltre a sorvegliare timone ed elica, le parti più vulnerabili di una nave nel ghiaccio. A mezzanotte, mentre ero seduto nella ‘vasca’ ho sentito un forte rumore provenire dal ponte: era Capodanno.

    Una volta sceso giù, Worsley vide me, Wild e Hudson sul ponte: ci stringemmo le mani e ci augurammo l’un l’altro un anno felice e fortunato. Da quando eravamo entrati nel pack il giorno 11, avevamo percorso circa settecentosettanta chilometri tra ghiacci più o meno compatti. Eravamo riusciti a farci largo con la nostra piccola imbarcazione, che aveva retto bene alla prova, anche se l’elica aveva urtato con forza contro del ghiaccio duro e la nave stessa era stata spinta contro il banco fino a salirci abbastanza sopra, salvo poi scivolare all’indietro rollando a più non posso. Il rollio si verificava soprattutto quando l’Endurance , facendo forza contro del ghiaccio giovane e piuttosto spesso, riusciva a creare una crepa dall’andamento sinuoso. Nel tentativo di seguirla, poi, urtava prima un lato poi l’altro della carena, cosa che la faceva rollare per sei o sette gradi. I nostri progressi attraverso il pack erano stati verso sud con una direzione di 10° Est; calcolai che la distanza totale percorsa a vapore aveva superato i mille e centoventi chilometri, di cui i primi centosessanta tra un pack non compatto. L’ostacolo più grande, però, erano state tre burrasche da sud-ovest, due delle quali erano durate tre giorni ognuna, e una quattro e mezzo. Gli ultimi quattrocento chilometri, invece, erano stati percorsi tra un pack compatto che si alternava a canali lunghi e sottili e distese di acque libere.

    Durante le settimane che trascorremmo facendo manovre verso sud, attraverso i sinuosi labirinti del pack, fu spesso necessario spezzare i banchi spingendoci contro la nave. Una simile forma di attacco si dimostrò efficace contro il ghiaccio spesso massimo un metro – un’operazione questa sufficientemente interessante da meritare di essere descritta, seppure in breve. Quando la rotta veniva ostacolata da un banco di

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