Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale
La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale
La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale
E-book447 pagine6 ore

La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’incredibile storia vera della spedizione artica che ha sfidato i nazisti

Nell’estate del 1942 la vittoria degli alleati era tutt’altro che scontata. Così Roosevelt e Churchill organizzarono dei convogli artici, scortati dalle unità alleate, per rifornire la Russia, allo stremo. I convogli erano composti da marinai che avevano lavorato su navi mercantili, uomini inadatti al servizio militare, peraltro a bordo di vecchie imbarcazioni minacciate da iceberg, bombardieri e sottomarini.  Il 17° convoglio (PQ-17) aveva appena iniziato ad attraversare l’Atlantico del Nord, quando Hitler minacciò di schierare la temibile corazzata Tirpitz per annientarlo. Temendo la perdita di insostituibili navi da guerra, l’ammiragliato britannico ordinò alla flotta militare di disperdersi e lasciare il convoglio senza difesa. Churchill lo definì “l’episodio più triste di tutta la guerra”, ma quando i tedeschi iniziarono a dare la caccia alle navi del convoglio via mare e via cielo, quattro di esse riuscirono a salvarsi, mimetizzandosi nel ghiaccio grazie a vernice bianca e lenzuoli. Nascondendosi alla vista del nemico, proseguirono verso il porto sovietico di Arcangelo, riuscendo così a far pervenire gli indispensabili approvvigionamenti alla Russia.

L’incredibile storia del convoglio fantasma che riuscì a mimetizzarsi tra i ghiacci del nord sfuggendo così all’assalto tedesco

«In questo stupefacente libro William Geroux racconta l’affascinante storia del convoglio PQ-17, che sfidò le minacciose acque gelide del Nord per portare rifornimenti agli alleati sovietici. Questa avventura straordinaria conquisterà tutti gli appassionati di storia.» 
Publishers Weekly

«Il racconto da brivido di una strenua lotta per la sopravvivenza tra i ghiacci artici. Una lettura fondamentale per tutti gli amanti della storia militare.»
The Times

William Geroux
ha lavorato come giornalista per oltre venticinque anni, collaborando con il «New York Times», l’«Associated Press» e molti altri quotidiani locali, prima di dedicarsi alla scrittura. È nato a Washington D.C. ma attualmente vive a Virginia Beach.
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2019
ISBN9788822736659
La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale

Correlato a La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Guerre e militari per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale - William Geroux

    ES632-cover.jpg

    632

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Mappe di Jeffrey L. Ward

    Titolo originale: The Ghost Ships of Archangel

    Copyright © 2019 William Geroux

    First published in 2019 by Viking, an imprint of Penguin Random House LLC

    Traduzione dalla lingua inglese di Lucilla Rodinò

    Prima edizione ebook: settembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3665-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Manuela Carrara per Corpotre, Roma

    William Geroux

    La missione segreta

    che ha cambiato la

    seconda guerra mondiale

    Prefazione di Giovanni Giorgini

    Newton Compton editori

    A Kema, Sarah, Nick e Cody

    La morte sbarrava la via per la Russia, ma voi la attraversaste.

    John Masefield, A tutti i naviganti

    Indice

    Prologo. L’ago impazzito

    1. Il nemico del mio nemico

    2. Verde infernale

    3. La mossa del cavallo

    4. Prime vittime

    5. Fuochi d’artificio

    6. Sparpagliati

    7. In mezzo ai ghiacci

    8. Novaja Zemlja

    9. «Noi tre fantasmi siamo»

    10. Arkhangelsk

    11. Sul filo del rasoio

    12. Lo scherzo delle renne

    13. Bilanci

    Nota dell’autore

    Note sulle fonti

    Crediti delle tavole fuori testo

    Bibliografia

    Prologo

    L’ago impazzito

    Jim North non sapeva dire cosa stesse accadendo esattamente, ma qualcosa dentro di sé gli diceva che il destino del convoglio pq-17 aveva preso una piega nefasta. Tutt’intorno, nelle gelide acque artiche, i trenta mercantili del convoglio prendevano direzioni diverse, abbandonando la formazione compatta che aveva tenuto a distanza i bombardieri e gli U-Boot tedeschi da quando avevano lasciato l’Islanda una settimana prima. I fanali di segnalazione di tutte le navi lampeggiavano senza sosta. Sulla plancia del cargo di North, il Troubadour, il capitano norvegese e il primo ufficiale discutevano animatamente nella loro lingua nativa intercalando nel discorso imprecazioni. North capiva solo quelle, ma il tono delle voci era inequivocabile. Nel suo balordo viaggio verso la Russia artica, il convoglio pq-17 doveva fronteggiare una nuova crisi.

    Era il 4 luglio 1942, poco dopo le 21:30, ma dato che il sole artico in luglio non tramonta mai, per gli uomini sulle navi l’ora non aveva alcun significato. Il convoglio si trovava a meno di ottocento miglia dal Polo Nord. Qualche ora prima, le navi americane che costituivano il nucleo del convoglio avevano festeggiato il Giorno dell’indipendenza innalzando tra la nebbia e le nuvole sospinte dal vento bandiere statunitensi nuove di zecca. Poco dopo, le navi da guerra alleate che proteggevano il convoglio avevano respinto un attacco di bombardieri in picchiata. Tre navi erano state affondate ma i marinai avevano considerato quella battaglia una vittoria, il segno incoraggiante che si poteva ancora raggiungere sani e salvi l’Unione Sovietica. Alcuni si stavano ancora congratulando a vicenda quando era sopraggiunta quella nuova, e ancora indefinita, crisi.

    North stava ancora cercando di capire cosa stessero dicendo i norvegesi quando fu scosso dal suono della sirena di un’altra nave. Una piccola nave britannica di scorta si avvicinò al Troubadour e un ufficiale inglese ripeté al megafono l’incredibile messaggio che era stato inviato a tutte le navi tramite le bandiere di segnalazione. Il convoglio pq-17 doveva sciogliersi. Le potenti navi da guerra che lo proteggevano si stavano già allontanando. Il Troubadour e gli altri mercantili – tutti terribilmente lenti e carichi di tritolo e altri esplosivi – avrebbero dovuto percorrere soli e senza protezione le centinaia di miglia del lontano Mare di Barents che li separavano dalla Russia.

    Il convoglio era già circondato da U-Boot, che lo seguivano da centinaia di miglia in cerca di varchi nelle difese. Ora le difese non ci sarebbero più state. La luce dell’ininterrotto giorno artico non offriva tregua dai bombardieri tedeschi, che sicuramente attendevano rinforzi. Ma soprattutto, il convoglio pq-17 avrebbe forse dovuto fronteggiare un possibile attacco della corazzata Tirpitz, la più temibile nave da guerra del mondo. La Tirpitz possedeva cannoni in grado di scagliare proiettili a una distanza di ventidue miglia, da oltre l’orizzonte. Poteva affondare navi più piccole, come il Troubadour, ancor prima di essere avvistata. Gli uomini sulle navi alleate avevano ribattezzato la Tirpitz il lupo cattivo.

    «Mi dispiace dovervi abbandonare in questo modo», urlò il comandante di un cacciatorpediniere britannico a un amico su uno dei mercantili. «Brutta faccenda. Buona fortuna».

    Le navi abbandonate a sé stesse di fortuna ne avrebbero dovuta avere parecchia, non solo per via dei tedeschi ma anche per l’Artico. La rotta del convoglio costeggiava il limite della banchisa polare che si estendeva dal Polo Nord. Le acque erano piene di iceberg e lastroni dai bordi taglienti come rasoi. Anche se si era in piena estate, l’oceano era freddo abbastanza da uccidere una persona nel giro di pochi minuti e la temperatura scendeva spesso diversi gradi sottozero. Nuvole e nebbia potevano durare giorni, impedendo così agli ufficiali di rotta di stabilire la posizione della nave in base al sole e la vicinanza al Polo Nord magnetico rendeva inservibili le bussole.

    Il ventenne Jim North era il più giovane e inesperto marinaio del Troubadour. Non era mai stato in mare prima d’allora e dell’Unione Sovietica sapeva solo che «era un grande Paese che combatteva i tedeschi come noi». Dopo che il convoglio aveva respinto i bombardieri tedeschi, North si era sentito spavaldo e indistruttibile. Ora, osservando il convoglio che si scioglieva avrebbe scritto «me la facevo sotto dalla paura».

    A migliaia di chilometri di distanza, a Washington, Londra e Mosca, il presidente americano Franklin D. Roosevelt, il primo ministro inglese Winston Churchill e il dittatore sovietico Iosif Stalin saggiavano i limiti della loro difficile alleanza contro Adolf Hitler. L’Unione Sovietica stava lottando per la propria sopravvivenza contro la Germania nazista in una guerra dalla ferocia medievale che aveva già causato milioni di vittime: molte più di quelle che avrebbero perso America e Gran Bretagna insieme in tutto il corso della seconda guerra mondiale. America e Gran Bretagna si limitavano a osservare il massacro in disparte. Stalin era furioso. Ma Roosevelt e Churchill ritenevano che le loro truppe non fossero ancora pronte per affrontare quelle tedesche sul campo di battaglia. Per il momento, l’unico aiuto che erano disposti a fornire a Stalin era l’invio di convogli di forniture belliche attraverso l’oceano alla vacillante Armata Rossa. Forse non sarebbe stato sufficiente a mantenere Stalin dalla parte degli Alleati, ma Roosevelt e Churchill erano decisi a continuare l’invio dei convogli.

    Di solito, Roosevelt, Churchill e Stalin erano troppo impegnati per prestare attenzione ai singoli convogli, ma avrebbero avuto motivo di ricordare il pq-17.

    Nel caos della plancia del Troubadour, il capitano norvegese, Georg Salvesen, riacquistò in fretta il suo contegno imperturbabile. Aveva un piano. Salvesen riteneva che il lento Troubadour non sarebbe sopravvissuto a ottocento miglia in mare aperto con i nazisti che già gli erano addosso. Avrebbe invece condotto la nave verso nord, nella banchisa polare, dove si sarebbe nascosto finché non fossero cessati gli attacchi. Il capitano ordinò a North di dirigersi verso nord-ovest, la direzione opposta della gran parte delle altre navi in fuga. La banchisa era un luogo infido per le imbarcazioni e il capitano sperava che fosse l’ultimo posto in cui i razionali tedeschi avrebbero pensato di cercare.

    North obbedì agli ordini. Il Troubadour doveva schivare i lastroni mentre si avvicinava alla barriera di ghiaccio, un muro basso di un bianco brillante che si estendeva lungo tutto l’orizzonte settentrionale. Attorno alla nave turbinava una nebbia grigia e fredda. Un orso bianco si allontanò arrampicandosi su una cresta di pressione, creatasi tra due lastre che si erano scontrate con violenza. Il Troubadour stava per diventare una nave fantasma. Sulla plancia era caduto un silenzio inquietante. Il capitano gridò: «Alla via così», cercando di avere un tono rassicurante. Ma North si sentì tutt’altro che rassicurato quando diede un’occhiata alla bussola per annotare la direzione della nave. L’ago dell’ormai inutile bussola ruotava come impazzito.

    1

    Il nemico del mio nemico

    La sobria bellezza dell’Islanda in gran parte sfuggiva agli uomini assegnati al convoglio pq-17. Alla metà di maggio 1942 – sei settimane prima che il convoglio salpasse alla volta della Russia artica – molti di loro si trovavano già da settimane in un desolato ancoraggio della costa islandese. Il luogo si chiamava Hvalfjord, il cui nome, fiordo della balena, richiamava la lunga storia di centro baleniero. Ma ad alcuni dei marinai alleati, Hvalfjord pareva un regno maledetto uscito da una saga della mitologia nordica.

    Il guardiamarina americano Howard Carraway levò lo sguardo dalle acque gelide e vide «su entrambi i lati montagne alte e sterili, quasi terrazzate… che ci sovrastano simili a grandi spettri neri». Una massiccia rupe chiamata Botnsulur incombeva sulle altre montagne, con la vetta coronata perennemente da nuvole. Di tanto in tanto, il sole perpetuo si apriva con grande tenacia un varco nella semioscurità.

    Un vento freddo soffiava incessante sul fiordo, gemendo tra il sartiame e mutandosi spesso in un urlo. «Sono ventiquattr’ore che il vento soffia continuamente da nord a una velocità incredibile, un costante ululato che aumenta e diminuisce, freddo e feroce», scriveva Carraway. A volte, soffiava talmente forte da strappare le ancore dal fondo fangoso e far sbandare le navi per il porto. A gennaio una bufera con raffiche di vento a 150 km orari aveva scagliato l’incrociatore pesante uss Wichita, di tredicimila tonnellate, contro due altre navi per poi farlo arenare. A volte, il vento cessava di botto, lasciando un silenzio così profondo che si potevano sentire le anatre che si tuffavano sulla superficie dell’acqua a quasi un chilometro di distanza. I leoni marini saltellavano tra le navi, eseguendo ruote e torsioni. Ma i marinai avevano cominciato a detestare i giochi spensierati degli animali. A Hvalfjord di spensierato non c’era nient’altro.

    Le navi erano riunite all’estremità di un lungo e profondo fiordo a nord della capitale Reykjavik. Hvalfjord era deserto se si eccettuava la presenza di alcune fattorie sparse e delle rudimentali basi navali britanniche e americane. Le basi consistevano di serbatoi di carburante, moli e baracche Nissen – strutture prefabbricate di lamiera ondulata – che offrivano generi vari e birra scadente. All’ancoraggio si accalcavano più di cento cargo, che battevano bandiere di una dozzina di nazioni alleate. Erano arrivati in tutta fretta a Hvalfjord per salpare alla volta dell’Unione Sovietica. Si andava dalle nuove navi di classe Liberty, appena uscite dai cantieri americani, a vecchie bagnarole arrugginite che risalivano alla prima guerra mondiale. Ogni nave aveva un equipaggio di volontari civili a governarla e di militari a difenderla.

    Il viaggio di duemila miglia dagli Stati Uniti ai porti della Russia settentrionale di Murmansk e Arcangelo, che i marinai avevano soprannominato la rotta di Murmansk, era tristemente noto per l’asprezza e la varietà dei pericoli, tra cui non solo i bombardieri e gli U-Boot tedeschi, ma anche l’estremo clima artico. Il primo ministro Winston Churchill definì la rotta di Murmansk «il peggior viaggio al mondo». I naviganti di solito la evitavano a meno che non avessero ancora imparato la lezione o non avessero altra scelta. Il guardiamarina Carraway rientrava in entrambe queste categorie.

    Carraway era uno dei tanti americani a Hvalfjord per i quali il convoglio pq-17 costituiva un primo assaggio della guerra. Si definiva scherzosamente «un gran coniglio», anche se gli eventi avrebbero dimostrato il contrario. Era alto 1,74 m, aveva gli occhi azzurri e i capelli castano chiaro. Aveva la parlata strascicata della Carolina del Sud ma non un vero e proprio accento. Era cresciuto in una minuscola fattoria nelle campagne di Olanta, nella Carolina del Sud, vicino Florence, dove i genitori tiravano avanti coltivando tabacco e cotone. I soldi scarseggiavano al punto che Carraway, uno di sette figli, aveva vissuto due anni con dei parenti per far risparmiare i genitori. Carraway detestava i lavori agricoli, ma adorava i libri ed era riuscito a laurearsi in inglese alla Furman University nella primavera del 1941. Qualche mese dopo, con l’America sul punto di entrare in guerra, insieme a tre fratelli aveva deciso di arruolarsi prima di essere richiamato. Ognuno aveva scelto un diverso ramo delle forze armate. La scelta era stata assolutamente casuale visto che Carraway, la cui esperienza nautica si limitava a qualche giro in barca a remi nel laghetto della fattoria, si era arruolato nella Riserva della Marina degli Stati Uniti.

    Carraway era stato assegnato alla Navy Armed Guard, la Guardia armata della Marina, un ramo creato per manovrare le armi installate sui mercantili per difenderli da sommergibili e aerei nemici. Probabilmente non lo sapeva, ma la Guardia armata era universalmente considerata un’assegnazione sgradevole e rischiosa. A prescindere dalle capacità degli uomini, i cannoni su cargo e petroliere fornivano scarsa protezione, soprattutto dagli U-Boot, che spesso attaccavano senza avvisaglie. I mercantili erano il bersaglio principale degli U-Boot, la cui missione era tagliare le linee di rifornimento alleate. Il motto ufficiale della Guardia armata della Marina era «Consegnare è il nostro obiettivo!¹», ma quello non ufficiale era «Avvistato sottomarino, glu, glu».

    Ma se Carraway era rimasto deluso da questa assegnazione, non lo aveva manifestato, almeno fino a quando non era stato destinato al Troubadour.

    Il Troubadour era la prova galleggiante del disperato bisogno di navi da carico che aveva l’America all’inizio della guerra. Era un vecchio cargo a carbone, lungo 126 m, con spazio per seimila tonnellate di carico suddiviso in sei stive, e un discutibile passato. Costruito in Inghilterra nel 1920, aveva cambiato nome e proprietario tre volte nel 1940, quando col nome di Confidenza trasportava rottami di ferro per una società italiana. Quando l’Italia, imitando la Germania, aveva dichiarato guerra a Gran Bretagna e Francia, la nave si trovava causalmente all’ancora a Jacksonville, in Florida. Per quanto l’America allora fosse ancora uno Stato neutrale, le autorità l’avevano trattenuta in porto per evitare che venisse usata da Italia o Germania. Il Confidenza era rimasto ad arrugginire al molo per quasi un anno, poi l’equipaggio italiano aveva ricevuto un messaggio in codice e l’aveva sabotato per non farlo usare neanche agli Alleati. Gli italiani avevano danneggiato le caldaie – riscaldandole senza acqua in modo da fondere e distorcere turbine e tubi – finché la Guardia costiera statunitense non se n’era accorta e aveva preso possesso della nave. I danni erano gravi, ma il cargo sinistrato era stato consegnato alla War Shipping Administration, l’agenzia federale responsabile dei trasporti marittimi in tempo di guerra. Le caldaie erano state riparate e il bastimento era stato dotato di armi. L’agenzia aveva deciso di far battere al Troubadour bandiera panamense, in modo da evitargli le rigorose ispezioni della Guardia costiera e consentirgli l’ingaggio di marinai stranieri a una paga inferiore².

    Di conseguenza, quello del Troubadour era un equipaggio poliglotta. Il capitano trentaquattrenne, Georg J. Salvesen e tutti gli ufficiali erano norvegesi. Quando i nazisti avevano invaso la Norvegia, erano imbarcati su altre navi ed erano stati costretti a rimanere in mare o a vivere in alloggi temporanei in nazioni alleate o neutrali. Erano uomini arrabbiati e senza patria. Il terzo ufficiale, Sigurd Olsen, aveva la voce strozzata quando parlava della moglie e dei figli, che vivevano sotto il giogo tedesco nella città costiera di Bergen. Olsen aveva nostalgia di loro, dei fiordi e della scintillante aurora boreale. Giurava di vendicarsi dei tedeschi, aspettando anche, se necessario, la fine della guerra. Quando per le strade acciottolate di Bergen sarebbero tornati i turisti tedeschi, diceva a Carraway, gli avrebbe fatto pagare gli anni di esilio in mare.

    L’equipaggio del Troubadour consisteva di quarantasei uomini della Marina mercantile, tutti civili che si erano uniti alla nave solo per quest’unico viaggio in Russia. Provenivano da diciassette Paesi diversi, tra cui Stati Uniti, Inghilterra, Norvegia, Sudafrica, Uruguay, Lettonia, Estonia, Honduras, Olanda, Svezia, Polonia, Portogallo, Spagna, Belgio e Isole Cayman. Alcuni erano stati reclutati nei campi immigrati degli Stati Uniti, dove avevano avuto la possibilità di scegliere tra imbarcarsi sul Troubadour o venire deportati. Il loro livello di esperienza era molto vario, come anche la devozione alla causa alleata.

    Uno dei dieci americani sul Troubadour era James Baker North iii di Buck County, Pennsylvania. North aveva abbandonato le scuole superiori subito dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. Era «imbestialito» con i giapponesi e il suo unico timore era che la guerra terminasse prima che potesse combattere. Vent’anni, 1,78 m di altezza e 57 kg di peso, diceva di avere «pessime tonsille e una bella parlantina». Voleva fare il pilota, ma per via delle tonsille infiammate era stato scartato sia dalla Marina che dall’Aviazione. Un amico gli aveva detto che la Marina mercantile non avrebbe fatto caso alle sue tonsille e gli avrebbe offerto «guadagni facili» consentendogli al contempo di servire il Paese. Come Carraway, North non sapeva niente di navi. Si era inventato di aver lavorato su un peschereccio di gamberi e uno dei sindacati marittimi – che avevano un disperato bisogno di marinai come il governo ne aveva di navi – l’aveva accettato come marinaio semplice, il marinaio di coperta di grado inferiore. Al sindacato di Philadelphia, North aveva saputo che una nave di nome Troubadour cercava uomini per un viaggio in Russia e assegnava una gratifica di cinquecento dollari. North non aveva mai sentito parlare della rotta di Murmansk e cinquecento dollari erano più soldi di quanti avesse mai visto in vita sua. Non vedeva alcuna ragione per non correre al porto e imbarcarsi sul Troubadour.

    La speranza di guadagni facili di North si era ben presto infranta. Poco dopo essersi imbarcato, un tipo dell’equipaggio l’aveva afferrato e aveva cominciato a sbattergli la testa contro il ponte per pura cattiveria. Un altro aveva osservato per un po’ e poi aveva colpito l’aguzzino di North. I due se l’erano date di santa ragione, poi si erano stretti la mano tra loro e con North. North si era fatto i primi amici a bordo. Se ne sarebbe fatti altri nel corso del viaggio, ma da alcuni compagni si teneva alla larga. Stava soprattutto attento a due grossi fratelli dai capelli rossi originari di Liverpool che lavoravano come fuochisti, spalando carbone nelle caldaie bollenti del Troubadour per mantenere costante il vapore. A quanto pare i fratelli avevano fissato le fiamme troppo a lungo e avevano problemi agli occhi. Quando parlavano si mettevano a pochi centimetri dalla faccia dell’interlocutore. Troppo vicino per North, che temeva sempre un’aggressione.

    Ma gli unici a bordo che a North proprio non piacevano erano Carraway e gli otto uomini della Guardia armata. North li considerava sciocchi e presuntuosi. Viceversa, Carraway considerava North e gli altri marinai civili pigri, inaffidabili e assai presumibilmente sleali. «Sono trotskisti e attaccabrighe», scriveva Carraway. Quando una valvola era rimasta aperta, causando l’allagamento del deposito munizioni della Guardia armata, Carraway era convinto che l’equipaggio l’avesse fatto di proposito. North lo riteneva assurdo: quale marinaio disarmava la propria nave prima di un viaggio pericoloso?

    Sulla rotta per Hvalfjord, il Troubadour si era fermato a New York e a Glasgow, in Scozia, per caricare armi, materiale bellico e rifornimenti vari per i sovietici. Il ponte principale era carico di casse, autocarri e tre carri armati General Lee M-3 fissati tramite cavi d’acciaio a golfari sul ponte per evitare che finissero fuoribordo. In origine, il ponte aveva ospitato anche centinaia di fusti metallici pieni di etilene, ma durante una tempesta al largo del New England si erano sganciati rimbalzando per tutto il ponte e, onde evitare un disastro, il capitano aveva ordinato di gettarli in mare. Anche senza fusti, il ponte era talmente congestionato che l’equipaggio aveva dovuto costruire una passerella in legno sopra il carico per permettere agli uomini della Guardia armata di raggiungere in fretta le postazioni.

    Le armi appena installate sulla nave consistevano di quattro mitragliatrici calibro .30, che Carraway aveva il sospetto non avessero la potenza di fuoco necessaria a danneggiare né aerei né U-Boot, e un unico cannone calibro 50 da 4 pollici (100 mm), montato su una piattaforma a poppa, con una canna lunga quanto un palo del telefono. Il cannone «da 4 e 50» era eccezionale ma non poteva sollevarsi più di 45 gradi e questo ne limitava gravemente l’uso contro gli aeroplani. Nessuna delle armi aveva munizioni a sufficienza. Carraway non capiva che cosa avessero avuto in testa quelli che avevano armato il Troubadour. Ma se non altro, il cargo era armato meglio di un’altra nave del convoglio pq-17, la nave di classe Liberty Christopher Newport, il cui armamento comprendeva un vecchio cannone strappato al pensionamento in un parco pubblico di Baltimora.

    Carraway, sotto sotto un romantico con un lato cinico e ironico, sentiva di perdere in fretta l’innocenza. Questa trasformazione risulta evidente nel diario che tenne durante il viaggio, in violazione alle regole navali. Scrisse il diario sotto forma di lettera d’amore alla neosposa, Avis, una bella ragazza minuta dagli occhi verdi che aveva sposato poco prima di imbarcarsi. In ogni annotazione, si rivolge ad Avis chiamandola «angelo» e descrive gli eventi del giorno in dettaglio in modo da poter condividere con lei quell’esperienza quando fosse tornato a casa. Se mai fosse tornato a casa. Molto prima che il Troubadour raggiungesse Hvalfjord, nel diario Carraway aveva cominciato a definire la nave «un’immondizia» e «maledetta latrina galleggiante». Di un piccione che si era stabilito sulla nave, scriveva: «Deve averne passate di tutti i colori nella sua vecchia casa se è venuto a cercare rifugio su questa chiatta».

    Carraway era deciso a superare ogni ostacolo e a mantenere a galla il Troubadour abbastanza a lungo da consegnare il carico. Sapeva che i sovietici avevano un disperato bisogno di aiuto. Tuttavia, come gran parte degli americani in Islanda, era cresciuto con la convinzione che l’Unione Sovietica fosse una terribile minaccia per il mondo libero. Era strano rischiare la vita per aiutare uno Stato reticente e totalitario governato dal crudele Stalin. Carraway l’avrebbe trovato ancora più strano se avesse saputo la storia e le manovre politiche ad alto livello che riguardavano il convoglio pq-17.

    Per gran parte della sua storia l’America aveva intrattenuto con la Russia rapporti cordiali se non addirittura stretti. L’imperatrice Caterina la Grande era stato il primo capo di Stato a riconoscere gli Stati Uniti dopo la rivoluzione americana, per quanto l’avesse fatto principalmente per indebolire la Gran Bretagna, rivale marittima della Russia. Durante la guerra del 1812, la Russia si era offerta di mediare tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Mentre infuriava la guerra di secessione americana, la Russia si era dichiarata a favore dell’Unione laddove Gran Bretagna e Francia simpatizzavano per la Confederazione. Dopo la riunificazione dell’America, la Russia aveva venduto l’Alaska agli Stati Uniti per la cifra di 7,2 milioni di dollari. Stati Uniti e Russia avevano mantenuto rapporti commerciali costanti, soprattutto tramite il porto di Arcangelo sul Mar Bianco, fino alla rivoluzione bolscevica del 1917.

    I bolscevichi si erano alimentati del risentimento che circolava tra i soldati russi per le continue e cocenti sconfitte subite per opera dei tedeschi nella prima guerra mondiale e una volta giunti al potere, avevano stipulato subito la pace con la Germania, cedendo vaste aree di territorio e ritirando le truppe dai campi di battaglia. Il ritiro dei russi aveva consentito ai tedeschi di spostare centinaia di migliaia di truppe sul fronte occidentale e lanciare un’offensiva contro inglesi e francesi. Il risultato era stato una guerra più lunga e sanguinosa in cui alla fine erano stati coinvolti anche gli Stati Uniti. Quando la guerra stava finalmente per concludersi nel 1918, gli inglesi avevano fatto sbarcare un piccolo contingente militare ad Arcangelo per cercare di impedire ai bolscevichi di consolidare il controllo sulla Russia. Il presidente Woodrow Wilson aveva incrementato le forze britanniche con 5500 fantaccini americani, in gran parte reclute inesperte del Michigan e del Wisconsin che avevano immaginato di difendere dai tedeschi il suolo francese. Sotto il comando britannico, le truppe americane avevano combattuto una guerra non dichiarata contro piccole bande di bolscevichi in remote foreste e paludi infestate di zanzare a sud della città. Gli americani avevano costruito fortini di tronchi e condotto scorrerie, come i pionieri del Far West. La lotta era proseguita per dieci mesi, durante il rigido inverno del 1918-19. Le temperature erano crollate talmente al di sotto dello zero che il sangue delle ferite si congelava all’istante, in qualche caso salvando anche la vita. Prima di lasciare la Russia nel giugno 1919, gli americani avevano perso 244 uomini morti in combattimento o di malattia. Avevano combattuto bene contro la nascente Armata Rossa, ma il loro intervento su scala ridotta non era riuscito a rallentare i bolscevichi, che avevano cominciato a definirsi comunisti. A tutt’oggi, i fantaccini di Arcangelo sono gli unici soldati americani ad aver affrontato delle truppe russe sul campo di battaglia.

    Mentre le ultime forze britanniche si ritiravano da Arcangelo all’inizio del 1919, i più fervidi anticomunisti inglesi – capeggiati da Churchill, allora ministro degli Approvvigionamenti – auspicavano la creazione di un’ampia forza internazionale che fermasse i bolscevichi. Ma Wilson e gli altri leader delle vittoriose nazioni alleate, che stavano ancora contando i morti della presunta «guerra che porrà fine a tutte le guerre», non se la sentirono di intraprendere un nuovo conflitto nelle vaste distese della Russia. Wilson rifiutò di inviare ulteriori truppe. All’epoca Churchill profetizzò che le nazioni occidentali si sarebbero pentite di non avergli dato ascolto: «Verrà il giorno in cui si riconoscerà senza ombra di dubbio in tutto il mondo civilizzato che stroncare il bolscevismo sul nascere sarebbe stata un’indicibile benedizione per la razza umana». La fervida opposizione di Churchill al comunismo avrebbe complicato i rapporti con Stalin e Roosevelt nella seconda guerra mondiale e avrebbe influenzato la storia del convoglio pq-17.

    Il breve intervento alleato in Russia nel 1918-19 venne ben presto dimenticato negli Stati Uniti, ma non in Russia, dove avrebbe alimentato il rancore per generazioni e inasprito i rapporti tra le due potenze durante la guerra fredda. Nel 1969, l’ex premier sovietico Nikita Kruscev dichiarò a una platea a Los Angeles: «Ricordiamo i giorni cupi in cui soldati americani arrivarono su suolo russo capeggiati dai loro generali per contribuire… a combattere la nuova rivoluzione… [Tutti] i paesi capitalisti di Europa e America marciarono contro il nostro paese per stroncare la nuova rivoluzione… [Mai] un nostro soldato è stato sul suolo americano, ma i vostri sono stati sul suolo russo. I fatti sono questi».

    Dopo la prima guerra mondiale, mentre le democrazie occidentali osservavano in disparte, i comunisti consolidavano il proprio controllo sulla Russia. Nel 1924, a Vladimir Lenin succedette Stalin e nel corso dei successivi ventotto anni questi avrebbe dimostrato l’esattezza della terribile predizione di Churchill. Iosif Stalin era nato in un villaggio dello Stato sovietico meridionale della Georgia e durante la sua infanzia era stato costantemente picchiato dal padre, un ciabattino alcolizzato. Il ragazzo era bravo a scuola ma era stato espulso dal seminario e si era unito a una violenta banda di bolscevichi per la quale aveva organizzato rapine in banca ed era stato in carcere. Nonostante non avesse mai prestato servizio nell’Esercito, vestiva abiti militari, con tanto di berretto con la visiera, giubba e stivali. Portava con sé un’arma, ostentava portamento militaresco e aveva adottato il cognome di Stalin, dal termine russo stal, acciaio.

    Le sue doti di amministratore lo avevano reso indispensabile al nascente Partito comunista ed egli le aveva sfruttate per salire al potere malgrado la fama di crudeltà gratuita che inquietava persino il fanatico Lev Trotsky (che fu infine fatto assassinare da Stalin con un colpo di piccozza sul cranio). Chi aveva rapporti con Stalin spesso lo giudicava erroneamente un uomo ragionevole con cui si potesse lavorare. Mentre Stalin trasformava l’Unione Sovietica con la ferocia e il terrore, molti avrebbero pagato con la vita quell’errore.

    Dopo la prima guerra mondiale, Stalin capì che l’Unione Sovietica andava trasformata da arretrato Paese rurale in potenza moderna, altrimenti durante la guerra successiva sarebbe stata spartita tra gli ostili vicini. La storia insegna che a riguardo aveva ragione, ma le sue strategie prevedevano una scarsa considerazione della vita umana. Ordinò a milioni di contadini di cedere la terra allo Stato per poter instaurare un grande sistema di fattorie collettive e nutrire il Paese. I contadini venivano sradicati e ricollocati in fabbriche e industrie. Chi si opponeva veniva assassinato o trasferito in una rete in rapida espansione di campi di prigionia, noti col nome di gulag. Le fattorie collettive arrancavano sotto i nuovi e inesperti supervisori e il cibo cominciò a scarseggiare. Stalin ne attribuì la responsabilità a ladri, accaparratori e altri nemici dello Stato. Inviò la polizia segreta, l’nkvd – acronimo russo per il Commissariato del popolo per gli affari interni – a setacciare le campagne per stanarli, mentre la penuria di cibo si trasformava in vera e propria carestia. Nel 1934, i gulag traboccavano ormai di internati che andavano dai nemici politici di Stalin ad artisti senza peli sulla lingua a cittadini assolutamente leali, ma falsamente accusati da amici e parenti messi sotto pressione perché denunciassero qualcuno. Una cifra folle compresa tra i sei e gli otto milioni di cittadini sovietici morì di fame, malattia o per una pallottola in testa: la firma dei carnefici dell’nkvd.

    Tra morte e sofferenza, la trasformazione dell’Unione Sovietica ebbe luogo. La carestia terminò, la produzione industriale volò, l’Armata Rossa si mutò in una forza militare ampia e ben armata. I gulag divennero una fonte di lavoro forzato utilizzato per costruire dighe, canali e altri enormi progetti pubblici. Milioni di giovani contadini, i cui genitori non si erano mai sognati di poter essere altro che contadini, ricevettero un’istruzione e trovarono opportunità di lavoro nell’industria e nell’Esercito. Conoscevano solo il sistema sovietico. Se erano tanto fortunati da sfuggire all’nkvd, potevano dirsi che questo era il progresso.

    Ma nessuno era davvero al sicuro nell’Unione Sovietica. Nel 1936, Stalin mise in atto una serie di purghe, secondo lui necessarie per soffocare una congiura intestina contro lo Stato. La polizia segreta assassinò o imprigionò più di un milione di persone, da vecchi compagni bolscevichi di Stalin a funzionari e ufficiali. Le torture generavano false confessioni, seguite da finti processi in cui sventurati imputati confessavano complicati crimini mai commessi e denunciavano altre persone ugualmente innocenti. Persino i russi più leali vivevano nel terrore che qualcuno bussasse alla porta. Le purghe divennero note come il Grande terrore, ma un terrore ancor più grande si profilava a occidente.

    Stalin comprese ben presto la minaccia posta dai nazisti all’Unione Sovietica. Hitler aveva definito il bolscevismo un’invenzione dei tanto disprezzati ebrei, e affermava che alla Germania serviva Lebensraum – spazio vitale – dove la superiore razza nazista potesse propagarsi e prosperare. Sicuramente Hitler intendeva il territorio sovietico. Stalin cercò di evitare una guerra con la Germania nazista, o almeno di rinviarla. Le purghe del Grande terrore erano costate più di 48.000 ufficiali e l’Armata Rossa e la Marina sovietica erano nel caos.

    Inizialmente Stalin cercò un’alleanza con Gran Bretagna e Francia. Nell’aprile 1939, propose che le tre potenze stipulassero un accordo per difendere qualsiasi nazione indipendente dal mar Baltico al Mediterraneo. Ma i leader dei governi di Gran Bretagna e Francia non volevano avere a che fare con Stalin. Due delle nazioni maggiormente minacciate da Hitler, Polonia e Romania, rifiutarono di concedere l’ingresso delle truppe sovietiche nel loro territorio, neanche per difenderle dai nazisti. Polacchi e rumeni «non sapevano se temere di più l’aggressione tedesca o l’aiuto russo», osservò ironico Churchill. Gran Bretagna e Francia lasciarono in sospeso la proposta di Stalin e questi decise di stringere un patto con Hitler.

    Stalin non pensava che un trattato con la Germania alla fine avrebbe impedito a Hitler di attaccare l’Unione Sovietica, ma voleva guadagnare tempo per preparare l’Armata Rossa. E mentre il trattato era in vigore, ragionava Stalin, i nazisti e le democrazie occidentali avrebbero potuto dilaniarsi a vicenda, permettendo all’Unione Sovietica di diventare molto più forte.

    Hitler era altrettanto impaziente di fare un accordo con Stalin. Dopo che la Germania aveva occupato la Cecoslovacchia nel 1939, era sua intenzione invadere la Polonia. Sapeva che un passo del genere avrebbe portato a una guerra con Gran Bretagna e Francia, ed era pronto a combattere. Ma se l’Unione Sovietica si fosse schierata con loro, i tedeschi sarebbero stati impegnati su due fronti. Nel maggio 1939, Hitler tastò il terreno e in breve stipulò un patto con Stalin. Ufficialmente, la Germania nazista e l’Unione Sovietica si impegnavano a non attaccarsi per dieci anni, ma il nocciolo era un accordo segreto che avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale. Stalin acconsentì a non intervenire quando Hitler avrebbe invaso la Polonia e Hitler avrebbe consentito all’Unione Sovietica di occupare la parte orientale della Polonia, nonché gli Stati baltici di Lettonia, Lituania ed Estonia. Inoltre Stalin avrebbe fornito alla Germania grano, olio, legno, rame e manganese per temprare l’acciaio³.

    Il patto tedesco-sovietico di non aggressione fu firmato il 23 agosto 1939. A Mosca Stalin brindò alla salute di Hitler. A Berlino, l’astemio Hitler si concesse un sorso di champagne e dicono abbia dichiarato: «Ora l’Europa è mia».

    Tra i sorrisi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1