Il giallo del colore: Un'indagine filosofica
Di Alice Barale
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filosofo?) e nel linguaggio di tutti i giorni (la parola «blu» è blu?). Ne uscirà con la convinzione che, come canta in una famosa canzone Kermit la Rana (il pupazzo dei Muppets): «it’s not easy being green», «non è facile essere verde» (e neppure giallo)…
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Il giallo del colore - Alice Barale
Capitolo I
THE RED AND THE REAL: IL COLORE IN FUGA
There is the story told of an Oxford Philosopher who gave lectures one term on «What do we see?». He began hopefully with the idea that we see colors, but he abandoned it in the third week and argued that we see things. But that would not do either, and by the end of the term he admitted ruefully: «I’m damned if I know what we do see»
(N. Humphrey, Seeing Red)
1. Scoprire l’inganno: l’eliminativismo
Una delle domande su cui la filosofia si è più interrogata negli ultimi anni, soprattutto in ambito anglo-americano, è: che cos’è il colore? È una proprietà degli oggetti, appartiene alla realtà esterna a noi? A prima vista sembrerebbe senz’altro così – il mondo ci appare, sin dalle nostre prime esperienze, colorato –, ma i filosofi, si sa, sono soliti mettere in dubbio molte cose. In effetti, una delle posizioni più diffuse nel dibattito contemporaneo è quella del cosiddetto «eliminativismo», che nega che i colori siano proprietà degli oggetti reali.
Il termine «eliminativismo» ha iniziato a essere usato in questo senso all’interno della discussione sul colore che si è accesa, nella filosofia anglo-americana, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso¹. In questo periodo alcuni studi sull’argomento² hanno dato l’avvio a un dibattito che dura tuttora e che si cercherà di delineare nei prossimi due capitoli.
La diffidenza filosofica nei confronti del colore, tuttavia, è molto più antica. Alcuni sostenitori dell’eliminativismo, come L.C. Hardin, fanno risalire la loro posizione addirittura a Democrito³:
Secondo convenzione è il colore, secondo convenzione è il dolce, secondo convenzione l’amaro, mentre veri sono gli atomi e il vuoto⁴.
Se Democrito intenda con questo davvero affermare, come sostengono gli eliminativisti, che i colori non esistono nel mondo reale, o non voglia dire piuttosto che esistono in un modo diverso rispetto agli atomi e al vuoto, com’è stato sostenuto da altri protagonisti del recente dibattito sul colore⁵, non può essere stabilito qui. Certo è che l’eliminativismo nei confronti dei colori nasce all’interno di quello «scontro», per usare le parole di Wilfrid Sellars, tra l’«immagine manifesta» e «l’immagine scientifica» del mondo⁶ – tra il mondo come lo percepiamo, con tutte le sue qualità, colori profumi e sapori, e la descrizione puramente quantitativa che la scienza ne dà – che caratterizza in modo particolarmente acuto la nostra cultura. Uno dei modi di reagire a questo scontro – anche se non l’unico, come vedremo in seguito – è quello di sostenere che gli oggetti non hanno in realtà nessuna delle proprietà qualitative che attribuiamo loro. Boghossian e Velleman, tra i primi sostenitori di una concezione eliminativista nei confronti dei colori, hanno chiamato questa idea l’«intuizione galileiana», in riferimento a un famoso passo del Saggiatore in cui Galileo afferma che sapori, odori e colori non sono «altro che puri nomi», che risiedono nella coscienza⁷. «La scienza moderna» scrivono Boghossian e Velleman «implica forse, contro la testimonianza dei nostri occhi, che l’erba non è verde? Galileo pensava di sì»⁸.
Da questo punto di vista, la questione dei colori in filosofia si intreccia, com’è stato più volte notato⁹, con il cosiddetto «problema mente-corpo», la questione della relazione tra i nostri stati fisici e mentali¹⁰. Come ha osservato Joseph Levine, si apre inevitabilmente un «explanatory gap» – una lacuna esplicativa – tra il colore come lo percepiamo e gli stati fisici, interni o esterni a noi, che ne accompagnano la manifestazione:
When we consider the qualitative character of our visual experiences when looking at ripe McIntosh apples, as opposed to looking at ripe cucumbers, the difference is not explained by appeal to G [the physical story for seeing green] and R [the physical story for seeing red]. For R doesn’t really explain why I have the one kind of qualitative experience – the kind I have when looking at McIntosh apples – and not the other. As evidence for this, note that it seems just as easy to imagine G as to imagine R underlying the qualitative experience that is in fact associated with R. The reverse, of course, also seems quite imaginable¹¹.
Anche se sapessimo tutto di come il colore si origina fisicamente, dell’interazione della luce con la superficie degli oggetti, e di come arriviamo a percepirlo, del modo in cui i nostri occhi e il nostro cervello elaborano l’informazione ricevuta – tutto questo non basterebbe a spiegare perché i colori appaiono effettivamente così. È questo un problema che persino i più accesi sostenitori del fisicalismo nei confronti del colore – la posizione secondo cui, come si vedrà in dettaglio nel terzo paragrafo, i colori vanno ricondotti a proprietà fisiche degli oggetti – stentano a negare. Cosa fa sì che l’esperienza visiva abbia il contenuto rappresentazionale che ha? Ogni esperienza sembra così assumere il carattere misterioso del «purple haze» – della nebbia viola che Levine, citando Jimi Hendrix, sceglie, non a caso, come immagine dell’explanatory gap, del salto tra le qualità e le cause fisiche della nostra esperienza¹².
Questo nodo, che David Chalmers ha chiamato lo «hard problem of consciousness»¹³, ha portato diversi studiosi ad affermare che i colori sono proprietà della nostra esperienza, o «qualia»¹⁴. La nozione di qualia è oggi molto contestata, perché estremamente problematica. I qualia, come ha spiegato di recente Jonathan Westphal, sono gli eredi di quelli che erano stati chiamati in precedenza «dati sensoriali»¹⁵: «proprietà dell’esperienza presumibilmente indefinibili, o a volte esperienze essi stessi, come la rossezza del rosso
, che dovrebbero coincidere con il come è
essere coscienti in un certo modo»¹⁶.
Affermare che i colori siano proprietà dell’esperienza o «qualia» non è però l’unico modo di rispondere alla questione della «lacuna esplicativa» che si apre tra la spiegazione fisica e la manifestazione fenomenica del colore: altre risposte sono possibili, come si vedrà nel proseguimento di questa indagine. Ritenere che i colori siano qualia, inoltre, non significa necessariamente credere, come gli eliminativisti¹⁷, che gli oggetti non siano realmente colorati. Anche molti sostenitori del relazionalismo – la posizione filosofica che sarà esaminata nel prossimo paragrafo, secondo cui essere di un certo colore significa, per un qualsiasi oggetto, avere la proprietà di apparire tale a un certo osservatore in determinate condizioni – legano l’indagine sul colore a quella sui qualia¹⁸. Considerare il colore una qualità dell’esperienza o qualia implica però, in ogni caso, un discredito dell’esperienza per quanto riguarda un suo aspetto fondamentale: quello per cui i colori ci appaiono come proprietà indipendenti dalla nostra mente, come qualcosa che appartiene agli oggetti a prescindere dal nostro sguardo¹⁹. Gli eliminativisti fanno un passo oltre in questa direzione, e sostengono che nulla negli oggetti corrisponde ai colori così come crediamo di percepirli. Per David Chalmers il mondo «perfettamente colorato» che si dischiude quotidianamente ai nostri occhi non appartiene, in realtà, che a un metaforico «Eden»:
In the Garden of Eden, we had unmediated contact with the world. We were directly acquainted with objects in the world and with their properties. Objects were presented to us without causal mediation, and properties were revealed to us in their true intrinsic glory.
When an apple in Eden looked red to us, the apple was gloriously, perfectly, and primitively red. There was no need for a long causal chain from the microphysics of the surface through air and brain to a contingently connected visual experience. Rather, the perfect redness of the apple was simply revealed to us. The qualitative redness in our experience derived entirely from the presentation of perfect redness in the world.
Eden was a world of perfect color. But then there was a Fall.
First, we ate from the Tree of Illusion […]
Second, we ate from the Tree of Science²⁰.
Al di fuori di questo immaginario Paradiso perduto, nulla possiede i «veri» colori che crediamo di scorgere: niente di quello che percepiamo è «perfettamente rosso o perfettamente verde»²¹. Tutto quello che troviamo nella realtà sono proprietà cromatiche improprie, strutture fisiche (o meglio micro-fisiche) della materia che causano in noi l’esperienza dei colori in senso proprio (o, secondo le parole di Chalmers, l’esperienza dei «colori perfetti»)²². Come si genera però allora ai nostri occhi il mondo dei colori, e perché?
Se Chalmers lascia in sospeso la questione²³, altri sostenitori dell’eliminativismo la affrontano invece direttamente. A segnare il dibattito sul colore iniziato alla fine degli anni Ottanta è stato, in particolare, Clyde Laurence Hardin, autore di un volume intitolato significativamente Color for Philosophers: Unweaving the Rainbow (Colore per filosofi: svelare l’arcobaleno). Il titolo viene, come capiamo dall’epigrafe al volume, da una poesia di Keats:
Do not all charms fly
At the mere touch of cold philosophy?
There was an awful rainbow once in heaven:
We know her woof, her texture: she is given
In the dull catalogue of common things.
Philosophy will clip an Angel’s wings.
Conquer all mysteries by rule and line,
Empty the haunted air, and gnomed mine
Unweave a rainbow²⁴.
Hardin parte da un aspetto della questione che aveva già colpito Goethe: la compresenza, nei colori, di un’irrimediabile instabilità (o, con le parole di Hardin, una «bruta fattualità») e, al tempo stesso, una solida legalità, una precisa struttura di rapporti²⁵.
Il primo aspetto è quasi sempre il punto di partenza di ogni interpretazione eliminativista del colore²⁶. Il primo argomento a cui l’eliminativismo di solito si richiama è, infatti, quello della «perceptual variation»²⁷, del continuo variare e trasformarsi del colore, a seconda non soltanto dell’osservatore ma anche del contesto in cui è percepito. Lo stesso oggetto, ad esempio, può apparire verde sotto una certa luce e marrone in altre condizioni di illuminazione, o arancione per qualcuno e rosso per altri. Le variazioni non riguardano soltanto individui con particolari problemi visivi, ma si danno anche tra soggetti «normali», e sono ancora più evidenti se si estende la considerazione ad altre specie animali²⁸. I piccioni, ad esempio, sembrano percepire come diverse coppie di colori che noi percepiamo come uguali, e risulta difficile immaginare i colori che un piccione effettivamente vede²⁹. Anche restando all’interno dell’ambito umano, comunque, e persino mantenendo invariate tutte le condizioni di osservazione (capacità visive del soggetto, illuminazione, sfondo, distanza ecc.), ci sono casi in cui si danno delle differenze. Uno dei più evidenti è quello che riguarda il «verde puro», collocato di volta in volta da soggetti diversi in punti diversi dello spettro³⁰. «It’s not easy beeing green» – non è facile essere verde, come dirà alcuni anni dopo uno studioso, ricordando le prime indagini di Hardin³¹.
Cosa ci autorizza dunque, in tutti questi casi, a preferire un colore a un altro? Non esiste, secondo la prospettiva eliminativista, un unico e stabile criterio di scelta³². È impossibile stabilire quale sia il colore «reale» di un oggetto, e quindi – questa la conclusione – nessun colore è reale. I colori sono frutto di un errore o di un’illusione, a cui la nostra esperienza va soggetta.
C’è però un secondo aspetto che contrasta almeno apparentemente con tutto questo: la legalità interna ai fenomeni cromatici, il fatto che i diversi colori si rapportino l’uno all’altro secondo una struttura ben precisa di somiglianze e opposizioni. L’arancione, ad esempio, è più simile al rosso del blu, mentre il verde e il rosso appaiono come opposti e complementari: non è possibile trovare un verde che dà sul rosso e d’altra parte, se si fissa a lungo una superficie rossa, quando si sposta l’occhio appare il verde e viceversa³³. C’è un’assenza che colpisce all’interno di questa analisi di Hardin, quella di Goethe, che è stato tra i primi a richiamare l’attenzione sulla «polarità» che governa, anche secondo le parole di Hardin, i rapporti tra i colori³⁴. L’assenza, forse, non è casuale. Quello che interessa a Hardin, infatti, è affrontare il problema non tanto della struttura dei colori in sé, nella sua autonomia, quanto della sua origine. Hardin si riferisce, a questo proposito, alle riflessioni di Hume su come sia possibile spiegare le «somiglianze tra colori», difficili da conciliare con il carattere empirico e perfettamente «semplice» che il filosofo inglese attribuisce ai fenomeni cromatici³⁵. È possibile – si era chiesto Hume in un famoso passo – che qualcuno che abbia familiarità con tutti i colori «tranne una particolare sfumatura di blu, che non ha avuto mai la fortuna di incontrare», riesca a rimediare alla mancanza, e a immaginarsi la sfumatura di blu mancante³⁶? Il fatto che Hume risponda positivamente alla domanda mostra, secondo Hardin, che il colore non è affatto «semplice».
I modi in cui sono organizzati i rapporti tra i colori hanno infatti, per Hardin, la loro fonte nelle leggi della visione. C’è, dunque, una struttura ben precisa dei fenomeni cromatici, che si fonda sul funzionamento del nostro apparato percettivo. I colori non appartengono agli oggetti, come l’esperienza ci suggerisce, ma al nostro sistema nervoso³⁷. Uno degli obiettivi polemici di Hardin nell’affermare questo è, come esplicitato anche da Arthur Danto nella Prefazione al volume, la diversa spiegazione che dello stesso fenomeno aveva dato Ludwig Wittgenstein. Per Wittgenstein, come si vedrà nel quarto capitolo di questa indagine, le leggi di similarità e di opposizione tra i colori non si basano sull’esperienza, ma sulla «logica» dei nostri concetti di colore: sulle regole linguistiche che ne decidono gli usi. Per Hardin occorre abbandonare questa impostazione e sostituire all’analisi del linguaggio quella della fisiologia³⁸.
Importanti in questo contesto sono in particolare, per il filosofo americano, alcune scoperte scientifiche fatte negli anni Cinquanta del secolo scorso, che sembrano confermare le ipotesi formulate dal fisiologo Ewald Hering alla fine dell’Ottocento sulla corrispondenza tra il funzionamento del nostro apparato visivo e le proprietà strutturali dei colori.
Il primo a tracciare chiaramente questa via di una corrispondenza tra la struttura fenomenica dei colori e quella del nostro apparato percettivo era stato, in verità, il grande avversario di Hering, il fisiologo e padre della moderna «scienza della visione»³⁹ Hermann von Helmholtz. La teoria tricromatrica, che Helmholtz riprende da Thomas Young e Clerk Maxwell, presto affermatasi con il nome di «teoria di Young-Helmholtz», è fondamentale per comprendere il mutamento decisivo che avviene a partire dal diciannovesimo secolo nello studio del colore. La teoria di Newton era, infatti, essenzialmente una teoria sulla natura della luce, mentre lasciava in gran parte inspiegato come i colori sorgano nella nostra percezione⁴⁰. Nel corso dell’Ottocento si verifica, invece, uno «slittamento nella collocazione concettuale del colore dalla sfera fisica a quella fisiologica» che «inizia forse già con la Farbenlehre di Goethe», ma trova la sua «forma canonica»⁴¹ in Helmholtz, e in particolare nella seconda parte del suo Handbook der physiologischen Optik⁴².
Helmholtz sposta, infatti, l’ipotesi del filosofo scozzese della natura David Brewster dal piano fisico a quello fisiologico. Brewster aveva sostenuto che i raggi luminosi non fossero di infiniti colori, come voleva la teoria newtoniana⁴³, ma di tre, in accordo con il numero allora comunemente accettato di colori primari (rosso, giallo e blu). Helmholtz rivede la teoria di Brewster, ipotizzando che non siano le proprietà dei raggi luminosi a determinare la nostra percezione dei tre colori primari, ma la natura della nostra retina, che sarebbe costituita da tre diversi tipi di «fibre nervose», che reagiscono in modo differente (più o meno intensamente) alle diverse lunghezze d’onda dei raggi. I tre tipi di «spettri» di Brewster sono così trasformati da Helmholtz in proprietà interne al sistema visivo. Nell’avanzare questa ipotesi, Helmholtz riprende, modificandola e consolidandola, una teoria avanzata diversi anni prima (nel 1802)⁴⁴ dal fisiologo inglese Thomas Young:
It makes no sense whatsoever to speak in objective terms of three fundamental colors […] A reduction of colors to three fundamental colors can only have subjective meaning, can only concern a derivation of color sensations from three fundamental sensations. In this sense Thomas Young correctly comprehended the problem, and in fact his assumption provides an extraordinarily simple and clear overview and explanation of all phenomena of physiological color theory⁴⁵.
Cinque anni prima che Helmholtz presentasse questa teoria, James Clerk Maxwell aveva pubblicato una versione identica dell’ipotesi di Young⁴⁶. È probabile che Helmholtz sia giunto alla sua formulazione indipendentemente da Maxwell⁴⁷. Merito del fisiologo tedesco è stato, in ogni caso, quello di estendere la teoria tricromatica a una varietà di fenomeni riguardanti i colori che restavano prima del tutto scollegati l’uno con l’altro, facendone una vera e propria chiave di volta della teoria dei colori.
Restava però un problema, presto sollevato dall’avversario «storico» di Helmholtz⁴⁸, Ewald Hering. Per quest’ultimo, infatti, la teoria tricromatica non spiegava perché i colori che percepiamo come primari non siano tre, ma quattro (oltre al blu, il verde e il rosso, anche il giallo), e perché alcune coppie di colori (in particolare, verde-rosso e blu-giallo) risultino, come accennato, complementari e opposti. Per spiegare questi fenomeni Hering aveva ipotizzato «che non ci fossero tre, ma quattro processi cromatici fondamentali, disposti in coppie di opposti, proprio come i muscoli e anche altri elementi della nostra fisiologia»⁴⁹. La teoria di Hering non aveva ricevuto però evidenze sperimentali, ed era stata presto dimenticata. Soltanto negli anni Cinquanta del Novecento due ricercatori americani, Dorothea Jameson e Leo Hurvich⁵⁰, hanno scoperto nel nucleo genicolato laterale del talamo – una delle aree del nostro cervello legate alla visione – alcune cellule che si comportano in maniera opposta (con una reazione di eccitazione o, viceversa, di inibizione) di fronte ai colori complementari. È questa, per Jameson e Hurvich, una conferma delle «idee radicali ed eterodosse che Hering aveva formulato»⁵¹ quasi un secolo prima.
L’entusiasmo per queste scoperte oggi non è più così forte come negli anni Ottanta, quando Hardin scrive la sua monografia. Sembra, in realtà, che il processamento delle informazioni visive sia più complesso e avvenga anche su altri livelli, le cui basi neurali sono tuttora da scoprire⁵². Hardin stesso scrive, comunque, che molti aspetti della fenomenologia dei colori devono essere ancora chiariti, per quanto riguarda le loro basi neurali⁵³. Resta però per l’autore la fiducia – ribadita anche nei suoi scritti più recenti – che possano esserlo in futuro⁵⁴.
Il progetto di Hardin lascia in ogni caso un’importante eredità che va al di là del suo intento riduzionista: la considerazione – già fondamentale per Goethe e per Wittgenstein, ma calata da Hardin all’interno del naturalismo della filosofia americana – che i colori sono articolati secondo una struttura precisa e loro propria, con cui i filosofi sono chiamati a confrontarsi. Questo non implica la necessità di ricondurre le leggi cromatiche alle loro basi fisiologiche: sono possibili anche altre risposte al problema della struttura dei colori, come si vedrà nel corso di questa indagine. La riflessione sulla legalità interna ai colori pone però, in ogni caso, un limite alla possibilità di concepirli come fenomeni sostanzialmente infondati, semplici apparenze slegate dalle proprie cause.
In effetti, uno dei principali argomenti contro cui le indagini di Hardin sono dirette è l’ipotesi dello spettro inverso. Quest’ultima viene fatta risalire convenzionalmente a Locke, ma è molto più antica e si trova già in Sesto Empirico⁵⁵. Cosa mi dice – su questo si basa in sostanza l’ipotesi – che un altro soggetto veda effettivamente lo stesso colore che vedo io? Due persone diverse potrebbero chiamare con lo stesso nome il colore che vedono, ma avere in realtà esperienza di un colore diverso, o addirittura opposto. Nell’esempio di Locke, l’esperienza di una violetta potrebbe equivalere, per un altro, a quella di una margherita:
… by the different Structure of our Organs, it were so ordered, that the same Object should produce in several Men’s Minds different Ideas at the same time; v.g., if the Idea, that a Violet produced in another Man’s Mind by his Eyes, were the same that a Marigold produced in another Man’s,