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Tenebre a Quiet Ridge
Tenebre a Quiet Ridge
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E-book319 pagine4 ore

Tenebre a Quiet Ridge

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Info su questo ebook

Quiet Ridge è un borgo fuori dal tempo, ritrovo per anime erranti e peccaminose. Un luogo da cui qualsiasi uomo sano di mente si terrebbe alla larga. Chi fugge dal proprio passato, però, non sceglie consapevolmente la meta. Scappa e basta, brancolando nel buio, senza mai voltarsi indietro. Così, Dalia Vargas – una giovane messicana scampata alla rivoluzione – attraversa mezzo continente in cerca di un nuovo inizio. Un esodo che la trascina dentro una spirale di accadimenti grotteschi, tra bifolchi senza niente da perdere, carismatiche donne di potere, società misteriose e... creature ultraterrene.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2021
ISBN9788831481588
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    Anteprima del libro

    Tenebre a Quiet Ridge - Gaetano Cappello

    Parte I

    ARRIVO A QUIET RIDGE

    Prologo

    Dal diario di Dalia Vargas, 5 luglio 1909


    Caro diario... è così che si comincia?

    Sono una frana in queste cose, lo sai. Se tu fossi ancora qui, sono certa che mi avresti insegnato come fare. O almeno ci avresti provato fino allo sfinimento.

    La verità è che se tu non fossi morta, questo sarebbe ancora il tuo quaderno e io non sentirei la necessità di scriverci sopra per sentirti vicina.

    Non so se possa farti piacere saperlo, ma al funerale piangeva ogni cosa, dai presenti, al cielo, passando per ogni sasso intorno alla chiesa. Mamma non è riuscita a resistere, mentre Feliciano e Horacio hanno sorretto la bara fino al cimitero. Anche Chico era demoralizzato; rientrati a casa non ha neppure scodinzolato, sebbene fossimo stati assenti per tutto il giorno.

    Ho così tante cose da chiederti, tanto vuoto da colmare, tanta paura. Mi auguro soltanto possa sentirmi meno sola esprimendo queste parole, nella speranza che esse giungano a te.

    Sei con papà, adesso? Potete proteggermi da lassù?

    [La restante parte della pagina risulta illeggibile.]

    Capitolo Uno

    Caccia alla belva

    13 novembre 1912


    Le tracce della belva terminavano nei pressi di un ruscello. Una brutta gatta da pelare per un cacciatore inesperto, ma Thomas Marshall Foster – seppur dimostrasse a stento gli anni che diceva di avere – conosceva bene la preda. Perlomeno abbastanza da esser sicuro fosse nei dintorni. Intento a osservarlo, molto probabilmente. Certo, non aveva mai avuto a che fare con quel grizzly in particolare, ma in quanto a creature selvagge aveva imparato dai migliori maestri del continente.

    Data la vicinanza al costone roccioso, per timore che potesse finire in qualche voragine, aveva lasciato il cavallo al capanno di caccia e armato di fucile e rivoltella – nel caso un sol colpo di calibro 45-70 non fosse bastato – aveva proseguito a piedi verso sud, per un paio di chilometri in direzione della fattoria degli Hoskins.

    Erano loro i poveri disgraziati che per primi avevano preso atto della presenza della bestia, descrivendola come qualcosa di colossale, dalla massa che poteva superare di slancio i trecento chili. Un maschio, secondo la stima di Dudley Groover, il giovane vicesceriffo che un tempo era stato uno dei loro mandriani. La cosa certa era che l’animale fosse decisamente incazzato, almeno a giudicare dai resti irriconoscibili del povero Timothy.

    Il bambino si era allontanato dalla fattoria con le prime luci dell’alba, diretto all’avamposto di Quiet Ridge dove avrebbe trascorso la mattinata a giocare con i figli del becchino – lo stesso che adesso si trovava a mettere insieme i pezzi del cadavere per rendere alla famiglia qualcosa da seppellire. Dopo aver appurato che il figlio non sarebbe mai arrivato a destinazione dai Mcdonnell, Benjamin Hoskins aveva dato di matto, promettendo a chiunque gli portasse la testa impagliata dell’animale, una ricompensa di cento dollari.

    Non che a Thomas importassero i soldi, o gliene mancassero. Perché rischiare tanto da spingersi nei meandri di Quiet Wood con una creatura infernale nei dintorni? Noia, perlopiù. Era ormai troppo il tempo passato alle dipendenze del vecchio Kinney, lassù alla tenuta, a spaccare legna, piazzare trappole e tirare a cerbiatti indifesi. Una vera sfida era ciò che serviva per rendere la vita un po’ più eccitante. Se non altro avrebbe reso un servizio alla comunità, visto che sia lo sceriffo che relativo vice erano impegnati nella cattura dei Mulligan, una banda di pericolosi criminali specializzati in assalti alle diligenze postali nonché ricercati in quasi ogni stato a ovest del Missouri. Pochi erano sopravvissuti dopo averli visti in faccia e le scarse informazioni raccolte non erano sufficienti ad abbozzare un ritratto, ragion per cui la richiesta di cattura – con annessa ricompensa e clausola vivi o morti – era stata estesa in maniera assai fumosa e a tratti ufficiosa, senza alcuna carta stampata a far gola ai cacciatori di taglie. Le uniche cose note per merito dell’equivocabile passaparola erano il numero – tre – e che il loro capo aveva una profonda cicatrice sulla fronte, a seguito di un tentativo mancato di scalpo, che nascondeva indossando un comune chepì.

    «I guai arrivano sempre in coppia» aveva asserito il tutore della legge, promettendo a Benjamin Hoskins e a tutta la comunità una rapida risoluzione della faccenda.

    Un po’ tutti, in verità, sapevano che Henry Finch – che assolveva anche alle mansioni di sindaco, quando necessario – non era altro che un fottutissimo vigliacco. Qualsiasi essere umano munito di buona volontà e un pizzico di sale in zucca avrebbe lasciato il problema dei Mulligan ai federali. Non lui. Il bastardo sapeva che con loro tra i piedi avrebbe dovuto rigare dritto, magari rischiare la pelle. Molto meglio accamparsi da qualche parte nelle pianure oltre il fiume e aspettare il passaggio del tifone a distanza di sicurezza, augurandosi una stima dei danni prossima allo zero. Lasciare il proprio secondo a difendere l’avamposto o aiutare nella ricerca dell’animale? Manco a parlarne!

    Dudley Groover, a proposito, era di tutt’altra pasta. Nato bovaro, si era fatto notare dalla popolazione per valori quali umiltà, onore e devozione al Signore Dio Nostro. Non che alla legge questo importasse. Ciò che di Skinny Dud aveva fatto la differenza era la predisposizione naturale al tiro a segno, sommata a una strabiliante velocità d’estrazione. Con una Buntline, lo smilzo poteva fare un buco al centro di una moneta da un centesimo lanciata in aria a cinquanta metri di distanza. Seguire lo stesso sentiero tracciato da Finch gli provocava ribrezzo, eppure quello era il percorso dell’uomo timorato. In sua assenza quel pavido vecchio sarebbe morto ammazzato, poco ma sicuro. Thomas Marshall Foster, invece, se la sarebbe cavata. Era così, anche se nessuno lo conosceva abbastanza da esserne certo.

    Guadato il ruscello che era già l’imbrunire, con una manciata di colpi a tintinnargli nel gilet, Thomas Marshall Foster sbucò in una radura contornata da grossi abeti. Tutt’intorno regnava una quiete malsana, surreale, quasi gli abitanti del circondario – volatili e roditori in linea di massima – stessero aspettando con il fiato sospeso l’imminente scontro.

    Procedette con cautela, cercando nuove tracce ma allo stesso tempo evitando rovi e cespugli per non tradire la propria avanzata. Se l’orso fosse stato avvertito della sua presenza sarebbe corso al riparo o nel peggiore dei casi avrebbe caricato con tutta la foga possibile. Per quel che ne sapeva, l’animale avrebbe dovuto trovarsi in letargo da un pezzo e ciò rendeva la ronda ancora più pericolosa.

    È per questo, vero? chiese lo scout al vento, sperando che potesse trascinare i pensieri verso l’avversario. Hanno disturbato il tuo sonno e hai deciso di fargliela pagare?

    Ma la colonna d’aria mite che soffiava da meridione non restituì alcuna risposta. Si limitò a scombinargli i capelli e intorpidirgli le gambe attraverso i calzoni zuppi d’acqua. Era comunque una presenza confortante nonché di buon auspicio, quella del chinook. Senza di esso, il rigido inverno ormai alle porte – ricordato negli anni a venire come uno dei più freddi del secolo – avrebbe reso l’arduo compito rasente l’impossibile.

    Altri dieci passi verso il centro dello spiazzo e un fruscio attirò l’attenzione del cacciatore. Egli levò lo Sharps in avanti, il meccanismo di scatto in tensione.

    Dove sei?

    Silenzio.

    Con il fucile puntato contro il nulla, l’uomo indietreggiò sino a tornare a ridosso della boscaglia. Si calò in ginocchio e sfruttando una roccia come copertura, scandagliò i dintorni aguzzando i sensi. Erano poche le possibilità che quello percepito fosse il prodotto di una creatura di tre tonnellate, tuttavia meglio accertarsene. Tanto qualsiasi preda avesse recapitato alla tenuta, Dama Carlisa non avrebbe disdegnato di cucinarla.

    Un nuovo fruscio, la cui provenienza non sfuggì all’orecchio preparato, arrivò da un groviglio di erbacce posto al limitare dello spiano.

    Poi ancora silenzio.

    Thomas sistemò la tesa del cappello per avere una visione più chiara, e assicurò il calcio dell’arma alla spalla, per una mira più salda. Inquadrò il bersaglio.

    Coraggio. Fallo di nuovo. Ma ciò che seguì fu tutt’altro che previsto.

    Un verso echeggiò per la selva, simile allo starnazzo di un uccello eppure più... umano.

    Che diavolo!

    Disorientato, l’uomo impiegò secondi colmi di stupore per rendersi conto di aver sentito nient’altro che uno starnuto. Gli venne da ridere ma riuscì a trattenersi, mosso da un istinto più potente. Il pericolo non era passato e il fatto che ci fossero visite non faceva altro che aggravare la situazione.

    Tenendo a mente l’avvertimento dello sceriffo sulla banda di fuorilegge che si aggirava nei pressi di Quiet Ridge, trovò prudente girare intorno alla radura sfruttando gli alberi come protezione. Prima di ogni cosa, era essenziale accertarsi che il tizio con il presunto principio di raffreddore non volesse ficcargli una pallottola nello stomaco. Il resto poteva attendere.

    A metà della manovra scorse una collinetta, cogliendo l’occasione di risalirla per portarsi in un punto di osservazione migliore, nonché di vantaggio. Si acquattò sotto un cespo e si sporse verso il basso. Il bersaglio era a meno di una dozzina metri, completamente ignaro. Era un uomo con i capelli corti e indossava... degli abiti da donna?

    Il cacciatore si sforzò di cogliere maggiori dettagli sui tratti somatici dell’individuo, ma dopo aver messo a fuoco fu chiaro che l’uomo vestito da donna non fosse altro che una ragazza con un inusuale caschetto di capelli arruffati. Pelle olivastra, occhi chiari, era seduta sui resti di un tronco abbattuto, intenta a sfogliare una sorta di quaderno con la custodia in metallo tenuta insieme da una serie di lacci.

    Non aveva per niente l’aria di una criminale.

    Dal diario di Dalia Vargas, 8 marzo 1912


    Quel bastardo! È stato quel bastardo di Abram Dunn! Ho capito che non ci si potesse fidare non appena abbiamo messo piede a Omaha.

    Vi farò vivere nel lusso, aveva promesso, ed essendo un rispettabile amico di famiglia, Roy gli ha creduto. Quel mammone scozzese. Come ha potuto cascarci? Si vedeva lontano un miglio che era solo un porco!

    Terreni da coltivare e bella vita. Terreni da coltivare! Il tranello non era nemmeno tanto celato. Mesi e mesi di viaggio dal Texas al Nebraska, passando per l’Oklahoma e il Kansas, per finire in una specie di schiavitù tirata a lucido.

    Più il tempo passa e più mi convinco che in realtà sia io la povera illusa. Cosa mi aspettavo di trovare, qui? Fuggire dalla guerra per finire nelle grinfie di un lurido maiale. Il mondo è uno schifo da qualsiasi prospettiva lo si guardi e anche se la vergogna mi atterrisce, non girerò attorno all’accaduto.

    Mi ha toccata. Lo ha fatto con quelle mani viscide, ridendo di gusto, come se fosse una cosa dovuta. Che avrei potuto fare? Compiacerlo? Un uomo sposato, trent’anni più grande di me. Sono certa che mi avresti detto di lottare.

    Gli ho mollato un ceffone, ma a pagarla sono stata io comunque. Per giustificare la ripicca mi ha accusata di aver portato i pidocchi in mezzo alla brava gente di città.

    Spero Roy non lo venga a sapere. Almeno che non scopra tutti i dettagli, visto che è impossibile nascondere come mi ha ridotto la testa. Forse potrei…

    [La restante parte della pagina risulta illeggibile.]

    La ragazza sussultò per lo spavento non appena vide l’uomo ergersi dall’altura. Svelta ficcò il quaderno dentro il corsetto – sudicio e logoro come la restante parte del vestiario – e scattò in piedi agitando le braccia.

    «Por favor, no me haga daño ¹!» urlò senza rendersi conto di averlo fatto in spagnolo, tanta era la stizza.

    L’uomo non comprese il significato delle singole parole, ma la gestualità e l’inflessione della voce erano inequivocabili. E a ben vedere, dato che era sbucato dal nulla imbracciando un fucile di grosso calibro.

    Mise giù l’arma con estrema lentezza, intento a non provocare una reazione avventata della ragazza. L’eventualità di doverla inseguire mentre un orso feroce si aggirava per il bosco non era di certo piacevole. «Non preoccuparti. Va tutto bene.»

    Dal diario di Dalia Vargas, 28 marzo 1912


    Ho un grosso peso nell’anima. Enorme. Ed è tutta colpa mia. Avrei dovuto prevederlo. Trovare un modo per evitarlo.

    Roy... Qualcuno dei nostri compagni deve averglielo detto. Magari è stato lo stesso Dunn, per provocarlo.

    Perché lui? Perché l’ha fatto? Voleva dimostrarmi qualcosa? Non bastava la bontà d’animo, la genuinità? Mi ha accolta come una sorella quando non mi era rimasto niente. Non poteva lasciar correre, anziché legarmi al rimorso? Doveva per forza sfidarlo? Aggiungere altro dolore all’umiliazione?

    Così è stato. Di fronte alla stazione della Union Pacific. Mezzogiorno in punto. L’atto più dolce e sconclusionato che abbia mai visto compiere per una donna. Ho provato a fermarlo, devi credermi, ma era già troppo tardi.

    Al rintocco due spari hanno sconquassato l’aria, all’unisono. Solo una delle pallottole è andata a segno. Quando ho visto Roy cadere nella ghiaia, un pezzo del mio cuore provato si è disfatto.

    [La restante parte della pagina risulta illeggibile.]

    «Non sei di queste parti, vero?» chiese Thomas avvicinandosi alla ragazza, mani bene in vista a palesare buone intenzioni.

    Era molto più giovane di quanto avesse immaginato e... bella, tanto che per un momento rimosse dall’anticamera del cervello il timore di essere azzannato alle spalle. Occhi di ghiaccio le guizzavano a destra e a manca, preda del panico e allo stesso tempo fulgidi di energia. Indossava vestiti molto leggeri, non idonei a quella regione, e tremava per il freddo che ora aveva preso a pizzicargli il naso. Sembrava sconvolta, ma anche curiosa nei confronti della sua presenza.

    Alla mancata risposta, lui si sfilò il giaccone e fece come per porgerglielo, unendosi alla danza indotta dagli spasmi del gelo. In un primo momento lei sembrò titubante, ai limiti dell’evasivo. Finì per cedere all’insistenza dell’estraneo, ringraziandolo poi con un sorriso stentato. L’indumento le calzava anche bene, per essere di taglia maschile.

    «Capisci la mia lingua?»

    La sconosciuta arpionò gli occhi del cacciatore con i propri. Annuì, studiandolo dal cappello alla punta delle scarpe, dopodiché chiese: «Hai da mangiare?»

    Dal diario di Dalia Vargas, 18 novembre 1910


    Tutto quello per cui hai lottato non esiste più, ormai. Prima hanno vietato ai bambini di ritrovarsi per giocare e adesso, con la scuola rasa al suolo, San Dionicio perde un altro pezzetto di te.

    Avrei voluto proseguire ciò che avevi cominciato, insegnare ai piccoli la lettura e la scrittura dell'inglese, come hai fatto con me. Non c'è stato niente da fare. Le famiglie sono terrorizzate e non riesco a biasimarle. Ho altre cose, poi, di cui essere preoccupata.

    La guerra infuria e reclama nuove vite di continuo. Non abbiamo notizie di Horacio da più di una settimana. La mamma scende all'ufficio telegrafi ogni giorno, spedendo missive in attesa della notizia. Mi chiedo se valga così tanto, questo fantomatico ideale di libertà. Lo chiederei a Zapata, che parla di diritti, se riavere indietro mio fratello sia così oltraggioso nei confronti della tanto decantata costituzione.

    [La restante parte della pagina risulta illeggibile.]

    Con la notte ad allungare le spire sulla vegetazione e la temperatura a calare vertiginosamente, Thomas convinse la giovane donna a seguirlo fino al capanno di caccia – più una dépendance dislocata nel bosco – promettendole, tanto per cominciare, un pasto caldo e un’autentica coperta.

    Lungo la via, costatando – per non dire sperando – che l’uomo non volesse farle del male, confessò di chiamarsi Dalia Vargas, di essere messicana, e di parlare l’inglese in maniera piuttosto fluente grazie all’istruzione ricevuta dalla nonna.

    «Quindi tua nonna… hai detto Viviana?» Aspettò che lei annuisse prima di continuare. «Era una maestra?»

    «Era un sacco di cose. Dove vivo io… dove vivevo, era un punto di riferimento.»

    «Capisco.»

    «Non mi hai detto il tuo nome.»

    «È vero, ti chiedo scusa. Mi chiamo Thomas Marshall Foster.»

    «Thomas Marshall Foster» ripeté lei. «Sembra un nome inventato.»

    «La leggenda narra che io provenga da una nobile famiglia di origini europee. Mai sentito parlare del Duca di Glasgow?»

    «Sei il figlio di un duca?»

    L’uomo non riuscì a trattenere una risata. «Stavo solo scherzando.»

    Quando la struttura in legno comparve all’orizzonte, lo scout affrettò il passo per evitarsi un malanno. Giunto dinanzi all’ingresso fu accolto dal nitrito gioviale del proprio pezzato, legato al palo per l’occorrenza. Lo salutò come si farebbe con un amico di vecchia data – io e te ce la spassiamo tra poco – e azzerò il distacco con la porta, la spalancò e invitò la ragazza a entrare mimando un gesto cavalleresco che fu accolto con un’espressione di sincera distensione. Non c’era più traccia della fanciulla spaventata che aveva sorpreso nel bosco e questo lo faceva star bene in una maniera del tutto inaspettata.

    «Questa è casa tua?» chiese lei, guardandosi intorno. Il bivacco non era più grande di un ripostiglio e la sensazione claustrofobica veniva intensificata dal numero spropositato di armi da fuoco e bandiere degli Stati Uniti d’America appese alle pareti, per non parlare poi delle teste impagliate. Riconobbe procioni, moffette, lupi, alci, e la sensazione di quiete fino a ora provata venne inquinata da una punta di disagio.

    «Dio, no. Tutto ciò che vedi è di proprietà del Capitano Kinney, compresa questa parte di bosco, fino ad arrivare alla magione.»

    «Il Capitano Kinney?»

    «Eugene Kinney. È il mio datore di lavoro. Un eroe di guerra, appassionato di collezionismo. Soprattutto armi, come puoi vedere. Vado a caccia per lui, spesso e volentieri, così me le lascia usare.»

    «Sei un cacciatore?»

    «Come tua nonna, sono una sorta di punto di riferimento.»

    Dalia sorrise e accettò l’invito ad accomodarsi di fianco ai tizzoni morenti di un braciere. Sopra di esso era appesa una pentola di metallo da cui proveniva profumo di stufato.

    «Manzo» disse lui come a rispondere a una domanda posta con lo sguardo. «L’ho preparato a pranzo, ma è davvero buono. Dammi il tempo di ravvivare il fuoco e scaldarlo. Ho anche del pane e delle uova.»

    «Qualsiasi cosa andrà bene.»

    Thomas si allontanò dalla stanza per tornare carico di rametti secchi e un paio di coperte di lana.

    «Dovrei restituirti il giaccone» si affrettò Dalia, temendo di esagerare con la disponibilità del benefattore. Una preoccupazione superflua, visto che Thomas di tutto poteva vantarsi tranne che di occasioni sfruttate per far del bene – almeno per il momento l’iniziativa con l’orso valeva quanto un nulla di fatto. Recuperare un tantino avrebbe potuto rivelarsi comodo, per non dire utile alla causa. Quegli occhi azzurri in pieno contrasto con la pelle scura, poi, facevano dell’utilità dell’incontro fortuito un vero diletto.

    «Tienilo tu, per adesso.»

    Dal diario di Dalia Vargas, 6 febbraio 1911


    Feliciano ha portato la notizia questa mattina. Quando ha bussato alla porta, mamma è scoppiata in lacrime ed è andata a chiudersi in camera. Sono riuscita a trattenermi soltanto per orgoglio. Ho amato tanto Feliciano, di quell’amore giovanile e spensierato, e non volevo che mi vedesse star male.

    Ha detto che è caduto combattendo il porfiriato, che grazie al suo sacrificio presto il despota rinuncerà al potere. Come faccio a credere a una scempiaggine simile, se dopo mi ha invitato a lasciare la nazione seguendo la carovana di un amico diretto a nord?

    Horacio è morto, questa è l’unica verità. E non c’è nessun posto sicuro al mondo, senza di lui. Se partissi, poi, mamma non reggerebbe.

    Non reggerei io, non dopo aver concesso la mia anima allo sconforto, non dopo aver visto l’esistenza per quel che è: il fondo di un pozzo umido e malsano. Se solo potessi darmi un segno, abuelita, dirmi che Horacio è lì con te, che è al sicuro tra le tue braccia. Ma non puoi, vero?

    Non voglio credere che dopo questa vita non ci sia nient’altro, eppure come...

    [La restante parte della pagina risulta illeggibile.]

    Servito lo stufato in una scodella malconcia, la ragazza cominciò a mandar giù, boccone dopo boccone, con una foga che non risparmiò i vestiti dagli schizzi di brodaglia.

    «Hai molta fame» sottolineò Thomas, a tratti disgustato, a tratti affascinato.

    «Dopo che ho lasciato la pista non ho più trovato nulla di commestibile» disse lei, senza rallentare l’atto di nutrirsi.

    «Quale pista?»

    «Quella che punta alle Montagne Rocciose. Seguivo un gruppo di mormoni, però poi ho deciso di lasciarli e andare per la mia strada. Dicevano che oltre il bosco avrei trovato un paesino. Quietly Qualcosa...»

    «Quiet Ridge?»

    «Esattamente!»

    «Cosa speri di trovare a Quiet Ridge?»

    «Per adesso un posto dove stare. Un lavoro, magari.»

    «Dal Messico a qui è un bel po’ di strada. Non c’erano altri posti in cui stabilirsi, nel mezzo?»

    L’espressione di Dalia sembrò sconvolta da uno schiaffo invisibile. Dovette posare la ciotola e concentrarsi, quasi trovare una risposta fosse tutt’altro che scontato, mentre la luce del braciere acceso le riverberava sul volto, tinteggiandone i lineamenti tirati. «Niente per cui valesse la pena rimanere.»

    Dal diario di Dalia Vargas, 12 novembre 1912


    Pensavo che allontanandomi da Omaha e da Dunn le cose

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